ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 4, primo comma,
 n. 7, del  decreto-legge  10  luglio  1982,  n.  429  (Norme  per  la
 repressione  della  evasione  in materia di imposte sui redditi e sul
 valore aggiunto e per agevolare  la  definizione  delle  pendenze  in
 materia  tributaria),  convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, con
 modificazioni, promossi con le seguenti ordinanze:
      1)  ordinanza emessa il 16 novembre 1988 dal Tribunale di Modena
 nel procedimento penale a carico di Caprara Teresa,  iscritta  al  n.
 399 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell'anno 1990;
     2) ordinanza emessa il 26 aprile 1990 dal Giudice per le indagini
 preliminari presso il Tribunale di Torino nel procedimento  penale  a
 carico  di Mattiazzo Diego, iscritta al n. 422 del registro ordinanze
 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  27,
 prima serie speciale, dell'anno 1990;
      3)  ordinanza  emessa  il  10  maggio  1990  dal  Giudice per le
 indagini preliminari presso il Tribunale di Torino  nel  procedimento
 penale  a carico di Greco Vincenzo ed altra, ordinanza iscritta al n.
 445 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1990.
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 28 novembre 1990 il Giudice
 relatore Giovanni Conso.
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Il Tribunale di Modena, con ordinanza emessa il 16 novembre
 1988 (pervenuta a questa Corte il 23 maggio 1990), ha  sollevato,  in
 riferimento  agli  artt.  3  e  25  della  Costituzione, questione di
 legittimita' dell'art. 4, primo comma, n.  7,  del  decreto-legge  10
 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, nella
 parte in cui non prevede "un preciso limite di valore" oltre il quale
 il   risultato   della   dichiarazione   annuale  dei  redditi  debba
 considerarsi alterato "in misura rilevante".
    Il  "potere-dovere  di stabilire... se e quando una umana condotta
 risulti  talmente  pregiudizievole  da  meritare   i   rigori   della
 reprimenda  penale"  -  argomenta il giudice a quo - e' da intendersi
 attribuito, in via esclusiva, al legislatore,  tenendo  conto  "delle
 ragioni  e  delle  esigenze  del  corpo sociale"; alla giurisprudenza
 spetta soltanto "di stabilire 'se' un  comportamento  umano  abbia  o
 meno  a  costituire reato per la sua corrispondenza al modello legale
 astratto della relativa fattispecie  incriminatrice  speciale".  Ove,
 pertanto, come nel caso della disposizione denunciata, sia rimesso al
 giudice "il compito di stabilire se sia 'rilevante' l'alterazione del
 risultato  dell'infedele  dichiarazione",  si  realizza  un "distorto
 sistema di  usurpazione  di  competenze",  in  forza  del  quale  "il
 cittadino  fiscalmente  'infedele' sapra' che la sua condotta integra
 estremi di reato non dalla preventiva lettura della  norma  ma  dalla
 successiva  determinazione  del  Giudice".  Da  cio',  ad  avviso del
 remittente, la violazione, ad opera  della  norma  denunciata,  degli
 artt.  25 e 3 della Costituzione: per come "formulata e strutturata",
 tale  norma  "collide  in  modo  vistoso"   con   il   principio   di
 "tassativita'",  nel quale si articola il principio di "legalita'", e
 con   il   principio   di   eguaglianza,   poiche',   da   un   lato,
 l'indeterminatezza   della   fattispecie  fa  carico  al  giudice  di
 determinare, in concreto, l'alterazione rilevante del risultato della
 dichiarazione, in assenza di adeguati parametri ai quali ancorarne la
 valutazione, mentre, dall'altro lato,  i  contrastanti  apprezzamenti
 giurisprudenziali   che  ne  conseguono  attentano  al  principio  di
 eguaglianza.
    L'ordinanza,   ritualmente   notificata  e  comunicata,  e'  stata
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 26, prima serie speciale, del
 27 giugno 1990.
    E'  intervenuto  nel  giudizio  il  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,  chiedendo  che  la  questione sia dichiarata "palesemente non
 fondata".
    2. - Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di
 Torino, con due ordinanze di analogo contenuto, emesse il  26  aprile
 1990  ed il 10 maggio 1990, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3
 e 25 della Costituzione, questione di legittimita' dell'art.4,  primo
 comma,  n. 7, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in
 legge 7 agosto 1982, n. 516.
    In  base  alla sentenza n. 247 del 1989 di questa Corte, riconosce
 il giudice remittente, la fattispecie descritta dalla norma impugnata
 non  si  presenterebbe  indeterminata,  in  quanto  ad  integrare  la
 condotta  penalmente  rilevante  non  basterebbe   un   comportamento
 consistente  nel semplice omettere l'indicazione di fonti di reddito,
 occorrendo, invece, che esso si esprima "in  forme  corrispondenti  a
 quelle necessarie per integrare le diverse ipotesi di frode fiscale".
    L'ordinaria prassi giurisprudenziale - prosegue il giudice a quo -
 e',  pero',  prevalentemente  orientata   nel   senso   di   ritenere
 sufficiente  ad integrare la fattispecie di cui alla norma denunciata
 anche un comportamento semplicemente mendace.
    Alla  stregua  di  tale  orientamento interpretativo, che comporta
 l'indeterminatezza della fattispecie in  ordine  al  requisito  della
 rilevante  alterazione del risultato della dichiarazione dei redditi,
 il  giudice  remittente  ritiene  non  manifestamente  infondata   la
 questione.
    Le  ordinanze,  ritualmente  notificate  e  comunicate, sono state
 pubblicate nella Gazzetta Ufficiale  n.  27  e  n.  29,  prima  serie
 speciale, rispettivamente del 4 e del 18 luglio 1990.
    In  entrambi  i giudizi e' intervenuto il Presidente del Consiglio
 dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, formulando conclusioni analoghe a quelle sub 1.
                         Considerato in diritto
    1.  -  Le  questioni  sollevate  dalle  tre ordinanze in epigrafe,
 avendo per oggetto la stessa norma ordinaria e  per  riferimento  gli
 stessi  parametri costituzionali, vanno riunite e decise con un'unica
 sentenza.
    2.  -  L'art.  4,  primo comma, n. 7, del decreto- legge 10 luglio
 1982, n. 429, convertito in  legge  7  agosto  1982,  n.  516,  viene
 denunciato  per  contrasto con gli artt. 3 e 25, secondo comma, della
 Costituzione, perche',  facendo  carico  al  giudice  di  determinare
 quando  sia  da  considerarsi  rilevante  l'alterazione del risultato
 della dichiarazione dei redditi conseguente  alla  dissimulazione  di
 componenti  positivi  o  alla  simulazione di componenti negativi del
 reddito,  violerebbe,  da  un  lato,  il  principio  di  "legalita'",
 basilare  in  materia  penale  sotto  il  profilo  della  carenza  di
 "tassativita'", e, dall'altro lato, il principio di "uguaglianza",  a
 causa  dell'inevitabile  disparita'  di  apprezzamento  da  giudice a
 giudice.
    Va  subito  ricordato  in  proposito che con la sentenza n.247 del
 1989 questa Corte aveva ritenuto di poter  escludere  l'esistenza  di
 un'eccessiva   indeterminatezza   del   requisito  della  "rilevanza"
 nell'alterazione  della  dichiarazione   dei   redditi   e,   quindi,
 l'esistenza  di  un  contrasto  fra  l'art. 4, primo comma, n. 7, del
 decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in  legge  7  agosto
 1982,  n. 516, e gli artt. 3 e 25, secondo comma, della Costituzione,
 muovendo dalla premessa che, per l'integrazione della fattispecie  in
 questione,  "il  disvalore  della condotta e dell'evento" deve essere
 gia' di per se' in grado di  individuare  ed  esaurire  il  contenuto
 offensivo  del  fatto,  cosi' da rendere estranea a tale disvalore la
 "misura rilevante" dell'alterazione, che "indica, invero,  il  'peso'
 del  carico  offensivo  del  delitto ma non entra, non fa parte della
 qualita' offensiva del delitto stesso".
    La  Corte,  peraltro,  non  nascondendosi  che  la norma impugnata
 potesse prestarsi ad applicazioni contrarie alla Costituzione, si era
 preoccupata     di     esplicitare     ulteriormente     i    termini
 dell'interpretazione capace di conferire "alla condotta ed all'intera
 fattispecie  tipica del delitto in esame il piu' alto grado possibile
 di conformita' al fondamentale principio di uguaglianza" e  "di  dare
 all'intera  fattispecie  una  chiara,  netta significazione", di modo
 che, "in presenza d'un  completo  significato  offensivo  tipico  del
 fatto",  la  "misura rilevante", "pur facendo parte della fattispecie
 in   senso   ampio",   risulterebbe   "estranea    alla    dimensione
 intrinsecamente  offensiva  del fatto in senso stretto, limitandosi a
 connotare soltanto la gravita' dell'intera  fattispecie"  delittuosa.
 In tale ottica veniva, anzitutto, precisato come le modalita' tipiche
 della condotta (dissimulazione di componenti positivi  o  simulazione
 di componenti negativi del reddito) assumessero "compiuto significato
 dal confronto con le altre ipotesi di frode fiscale, di cui  all'art.
 4,  comma  1,  del  decreto-legge  10  luglio  1982, n. 429, e con le
 ipotesi contravvenzionali,  previste  dall'art.  1,  comma  2,  dello
 stesso decreto-legge". Se ne traeva la conseguenza che, per integrare
 il delitto di cui alla  norma  impugnata,  "non  e'  sufficiente  una
 condotta consistente nel solo omettere la dichiarazione di componenti
 positivi del reddito e (o) la sola dichiarazione della sussistenza di
 componenti negativi dello stesso reddito bensi' e' indispensabile che
 la condotta in esame si esprima in forme  'corrispondenti'  a  quelle
 necessarie per integrare le diverse ipotesi di frode fiscale", di cui
 ai numeri da 1 a 6 dello stesso primo comma dell'art.  4,  e,  cioe',
 "in   forme   oggettivamente  artificiose,  fraudolente".  Non  senza
 aggiungere che "Per esigenze  di  corrispondenza  simmetrica  con  la
 'dissimulazione'  anche  la  'simulazione',  prevista  dal delitto in
 esame, non puo' essere realizzata attraverso  una  semplice,  mendace
 indicazione   di   componenti  negativi  del  reddito";  simulazione,
 peraltro, "neppur concepibile senza un supporto documentale contrario
 alla realta'".
    3.  - Cosi' intesa, la norma impugnata avrebbe potuto rimanere nel
 sistema senza recare lesione ai parametri costituzionali invocati.
    L'esperienza  immediatamente seguita ha, tuttavia, dimostrato che,
 salvo  qualche   sporadica   eccezione,   la   giurisprudenza   della
 magistratura   ordinaria,  or  ora  culminata  nell'intervento  delle
 Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 6 luglio-23 ottobre
 1990,  n.  13954),  ha  ritenuto di doversi discostare dall'anzidetta
 interpretazione.
    Ne  discende che l'art. 4, primo comma, n. 7, del decreto-legge 10
 luglio 1982, n. 429, ha continuato a vivere nella realta' concreta in
 modi  incompatibili  con  gli  artt.  3  e  25,  secondo comma, della
 Costituzione, come diffusamente spiegato nella ricordata sentenza  n.
 247 del 1989.
    4.  -  Nel  frattempo,  con  l'art. 6 del decreto-legge 14 gennaio
 1991, n. 7, e' stato sostituito l'intero art. 4 del decreto-legge  10
 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, cosi'
 che ne e' risultata modificata anche la stessa disciplina oggetto  di
 censura,  come chiaramente si ricava dalla lettera f) del primo comma
 del nuovo testo. Poiche' l'art. 7 del decreto-legge 14 gennaio  1991,
 n.  7,  non contempla l'efficacia retroattiva della disciplina di cui
 all'art. 6 e, quindi, non deroga, in  proposito,  all'art.  20  della
 legge  7 gennaio 1929, n.  4, l'abrogazione della norma impugnata non
 comporta la restituzione degli atti ai  giudici  remittenti  per  una
 nuova  valutazione  della  rilevanza.  Non  si  puo',  tuttavia,  non
 osservare che il nuovo testo dell'art. 4,  primo  comma,  n.  7,  del
 decreto-legge  10  luglio  1982,  n.   429,  convertito nella legge 7
 agosto 1982, n. 516 - sono parole della stessa Relazione  al  disegno
 di  conversione  -  "si  muove  nella  linea che puo' cogliersi nella
 pronuncia della Corte costituzionale" (appunto, la  sentenza  n.  247
 del 1989).
   5.  -  Alla  stregua  dei  precedenti rilievi questa Corte non puo'
 esimersi dal riconoscere la violazione dei  parametri  costituzionali
 lamentata  dai giudici a quibus e, quindi, dal dichiarare illegittimo
 l'abrogato art. 4, primo comma, n. 7, del decreto-  legge  10  luglio
 1982,  n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, nella parte
 in cui non prevede che le condotte di  dissimulazione  di  componenti
 positivi  o di simulazione di componenti negativi del reddito debbano
 concretarsi, non bastando il semplice mendacio, in forme artificiose,
 "corrispondenti"  a  quelle necessarie per integrare le altre ipotesi
 di frode fiscale  configurate  nei  precedenti  numeri  dello  stesso
 comma.
    Ne   consegue   che  la  norma  in  esame  potra'  trovare  ancora
 applicazione  rispetto  a  quelle  condotte,  antecedenti  alla   sua
 abrogazione, che si siano concretate in dichiarazioni infedeli, poste
 in essere attraverso un'attivita' ingannatoria  di  supporto,  mentre
 ricadranno  nell'ambito  di  operativita' dell'art. 1, secondo comma,
 del decreto-legge 10 luglio 1982,  n.  429,  convertito  in  legge  7
 agosto   1982,   n.  516,  le  condotte  che,  pur  concretandosi  in
 dichiarazioni per un ammontare inferiore a quello effettivo, si siano
 estrinsecate  con  modalita'  tali  da integrare esclusivamente una o
 piu' tra le fattispecie contravvenzionali ivi previste.