IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale nella causa penale iscritta al n. 4966/90 r.g. trib. contro Bartolomei Claudio, nato a Roma il 1 marzo 1957 ivi residente in via Acqua Acetosa Ostiense n. 7, Frontini Andrea, nato a Roma il 21 novembre 1970 ivi residente in via D. Giuliotti n. 20, imputati del reato di cui all'art. 73 del t.u. 9 ottobre 1990, n. 309, per avere illecitamente detenuto rispettivamente gr. 0,661 e gr. 0,816 di haschish. In Roma, il 30 dicembre 1990. Tratti a giudizio direttissimo per rispondere del reato in epigrafe, Bartolomei Claudio e Frontini Andrea, dopo la convalida dell'arresto, richiedevano il giudizio abbreviato, a conclusione del quale il pubblico ministero chiedeva per entrambi la pena di mesi tre di reclusione e lire unmilione di multa. I difensori, stante la flagranza e le ammissioni degli imputati, chiedevano il minimo della pena. A conclusione della discussione in camera di consiglio, il tribunale ritiene di dover rimettere a codesta Corte la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 73, 75 e 78 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in relazione agli artt. 3 e 25 della Costituzione. Ad avviso del collegio, infatti, il citato art. 73 viola le due norme costituzionali nei limiti in cui sottopone a sanzione penale la detenzione, in quantita' superiori alla "dose me- dia giornaliera", di sostanze stupefacenti destinate al consumo. Sul punto della punibilita' del consumatore di sostanze stupefacenti la legge n. 162/1990 ha radicalmente modificato la disciplina previgente. La legge n. 685/1975 configurava, infatti, rispetto alla detenzione, un reato di pericolo presunto (art. 71) e un reato di pericolo concreto (art. 72). La detenzione di droga, cioe', era punita solo in quanto comportava il pericolo (presunto nell'art. 71 e da provare nell'art. 72) di una destinazione allo spaccio e costituiva quindi una condotta potenzialmente lesiva del bene protetto dalle citate norme incriminatrici. Il consumo di stupefacenti, invece, di per se' non era considerato reato. Il principio sopra enunciato discendeva con evidenza non solo dalla non punibilita' della detenzione attuale di "modica quantita'" di sostanza stupefacente destinata al consumo personale, ma anche, e soprattutto, dalla non punibilita' del consumo pregresso quale che fosse la quantita' di droga consumata. Infatti, la ratio della non punibilita' della detenzione pregressa di quantita' anche non modiche di droga effettivamente consumata, sancita nella seconda parte del secondo comma dell'art. 80 della legge n. 685/1975, risiedeva nella concreta insussistenza del pericolo di spaccio rivelata dall'effettivo consumo (cfr. trib. Roma, 27 novembre 1987, Russomando, in cass. pen. 1988, p. 712; Cass. sez. I, 1 dicembre 1986, ivi, p. 709). E questo era anche il pensiero di codesta Corte che, nella sentenza n. 170/1982, aveva affermato che "nel punire l'accumulazione di quantita' di stupefacenti, anche quando se ne possa ipotizzare la destinazione ad uso personale, il legislatore ha avuto di mira l'oggettiva pericolosita' della condotta.. .. .. L'argomento tratto dall'art. 80 della legge secondo cui non vengono puniti coloro che abbiano in passato detenuto quantita' anche non modiche di sostanze stupefacenti di cui sia stato accertato l'uso personale, convalida quanto appena detto. E' infatti evidente che in questo caso, gia' esauritasi l'azione, e' cessata altresi' quella pericolosita' insita invece nella detenzione attuale". La legge n. 162/1990 rovescia questa impostazione e punisce con la sanzione penale la detenzione di sostanze stupefacenti indipendentemente da una situazione di pericolo - concreto o presunto - di destinazione allo spaccio. Sarebbe invero palesemente irragionevole presumere - in maniera assoluta - che la detenzione di una quantita' superiore al fabbisogno quotidiano di un consumatore "medio" - calcolato peraltro con i criteri arbitrari e restrittivi di cui si dira' - integri il pericolo di destinazione allo spaccio. L'esperienza giudiziaria dimostra al contrario che di regola i consumatori, specie delle droghe c.d. leggere, si riforniscono di quantita' superiori al fabbisogno giornaliero, anche per evitare i rischi connessi ai quotidiani contatti con il mondo del traffico. A differenza di quanto accadeva nella legge n. 685/1975 con la "modica quantita'" - la cui nozione giurisprudenziale consolidata (v., da ultimo, Cass. sez. VI, 25 novembre 1988, De Felicarie) corrispondeva alla quantita' che consentiva "ad un medio assuntore di soddisfare le sue necessita' per due/tre giorni" - la "dose media giornaliera" non costituisce un parametro ragionevole, corrispondente cioe' all'id quod plerumque accidit, su cui possa attendibilmente fondarsi una prognosi legale di pericolo di spaccio. Pertanto, ove il legislatore del 1990 avesse inteso configurare la fattispecie di cui all'art. 73 come reato di pericolo (di spaccio), sarebbe incorso in un palese vizio di irragionevolezza, per evidente mancanza di quella "oggettiva pericolosita' della condotta" che, secondo la citata sentenza di codesta Corte, rendeva compatibile con la Costituzione la sanzione penale prevista dalla legge n. 685/1975 per la "accumulazione" di sostanze stupefacenti, di cui fosse ipotizzabile la destinazione ad uso personale. La norma si troverebbe dunque, per violazione del principio di ragionevolezza, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Ma la verita' e' che la suddetta fattispecie punisce non gia' il pericolo di spaccio, bensi' direttamente il consumo. Per quantita' di droga superiori alla "dose media giornaliera", la sanzione penale si applica infatti sia alla detenzione attuale di cui sia provata la destinazione al consumo, sia, direttamente, al consumo pregresso, cioe' alla detenzione per la quale il pericolo di spaccio non e' neppure ipotizzabile. L'applicazione delle sanzioni penali previste dall'art. 73 alla detenzione per uso personale e al consumo sembra estranea, in verita', alla soggettiva intenzione del legislatore. Significativa sul punto e' la relazione all'originario disegno di legge governativo n. 1509, dove (pp. 3/4) si espongono le preoccupate ragioni, anche di natura costituzionale, che sconsigliano la sanzione penale del consumo e si afferma che per esso si prevedono "sanzioni che, pur assumendo il carattere di pena principale, sono tratte dal sistema della misure sostitutive di cui alla legge 24 novembre 1981, n. 689 (sospensione della patente e del passaporto, obbligo di residenza, firma quotidiana presso i registri della polizia)". Ancora piu' esplicite sono le affermazioni dei relatori di maggioranza senatori Condorelli e Casoli. Afferma il primo nella seduta del Senato del 28 novembre 1989 (resoconto stenografico pp. 50 e 51): "non intendiamo punire il consumo, perche' vogliamo che il tossicodipendente possa curarsi senza incorrere in pericoli di sanzioni.. .. .. Rischio di carcere per il tossicodipendente.. .. .. non ce n'e' quindi nel modo piu' assoluto". Insiste il secondo nella stessa seduta (ibidem p. 43): ".. .. .. tossicodipendenti che comunque in carcere per il solo consumo non andranno". Negli stessi sensi si esprime il Governo, per bocca del Ministro Russo Jervolino, che nella seduta del Senato del 28 novembre 1989 (res. sten. p. 62), a proposito del tossicodipendente, afferma: "Quindi, sanzioni si'; criminalizzazione, no". E nella seduta alla Camera del 3 aprile 1990, ribadisce: "nel disegno del governo, fin dal testo originario approvato dal consiglio dei ministri, per la sola detenzione di droga non e' stata mai prevista la pena definitiva" (recte: immediata e diretta). Sintomatica sul punto in questione e' altresi' la "reticenza" delle relazioni di maggioranza, che trattano la questione della punibilita' dell'assuntore (occasionale o abituale) di sostanze stupefacenti, con riferimento esclusivo alle sanzioni amministrative (art. 75) o alle sanzioni penali indirette (art. 76), trascurando del tutto la sopra dimostrata applicazione delle pene previste dall'art. 73 al consumatore di droga appena superiore alla "dose media giornaliera" (cfr. la relazione Casini/Artioli del 26 marzo 1990 alla Camera, pp. 9-15 e la relazione Casoli/Condorelli del 13 novembre 1989 al Senato, pp. 7-14). Appare dunque evidente che la maggioranza che ha approvato la legge, sembra ritenere che la detenzione di sostanze stupefacenti destinate al consumo, non sia in nessun caso sussumibile nella fattispecie criminosa di cui all'art. 73. L'equivoco e' tuttavia palese: si afferma di non voler punire il consumatore ma, sulla base della arbitraria equazione "detenzione eccedente la dmg=spaccio", in realta' lo si punisce. Il solo guardasigilli (seduta del Senato del 28 novembre 1989, pag. 76 res. sten.) sembra rendersi conto di questa illegittima parificazione del consumatore allo spacciatore. Egli manifesta la sua preoccupazione in proposito, ma ritiene che il problema possa essere sdrammatizzato in considerazione della lieve entita' della pena che puo' essere irrogata al consumatore, con il ricorso al potere discrezionale del giudice e ai benefici del nuovo codice di procedura penale. Tuttavia - a parte che i nuovi istituti del predetto codice non sempre si rivelano dei "benefici", come dimostra frequentemente la concreta esperienza giudiziaria - al lieve entita' della pena non ne elimina la illegittimita'. E il guardasigilli preannuncia infatti sul punto un emendamento ed una revisione che pero' resteranno sulla carta. Al di la' della inconsapevole, reticente o incerta volonta' soggettiva del legislatore, l'oggettivo dato normativo appare tuttavia univoco: la detenzione per comprovato uso personale e addirittura l'effettivo consumo di sostanze stupefacenti in quantita' superiore alla "dose media giornaliera" sono sanzionati come reato. Ma tale inequivoca portata normativa degli artt. 73, 75 e 78 appare in contrasto con gli artt. 3 e 25 della Costituzione. Sotto il primo profilo, la disparita' di trattamento, nella forma di pari trattamento di situazioni diverse, appare evidente. Basti considerare il caso in cui sia provato che Tizio abbia venduto a minimo in senso assoluto, neppure potrebbe essere differenziata, nella concreta applicazione, con i criteri di cui all'art. 133 del c.p. (salvo a ritenere, con palese violazione dei criteri generali di applicazione della legge penale, che alla fattispecie minima di spaccio di stupefacenti non si possa mai applicare il minimo edittale). Sotto il profilo dell'art. 25, le norme denunciate contrastano con la Costituzione in quanto violano il principio della necessaria offensivita' del reato. E' acquisizione della migliore dottrina costituzionalista, che il principio contenuto nell'art. 25, secondo comma, letto alla luce dell'art. 13 e tenendo conto dello spirito dell'intera carta costituzionale, costituisca un limite alla discrezionalita' del legislatore penale, nel senso che possono essere assoggettate a pena solo azioni che effettivamente ledano o espongano a concreto pericolo beni altrui, la cui tutela possa essere efficacemente realizzata soltanto con la minaccia della sanzione penale. Assumendo tale principio - si sostiene - il costituente ha voluto porsi in antitesi con quella concezione autoritaria del diritto penale che configura il reato come mera disobbedienza o come atto di infedelta', e che aveva portato alla elaborazione della nota teoria del "tipo normativo d'autore", secondo la quale il soggetto va punito per quello che e' e non per quello che fa, per il suo modo di essere e non per aver commesso fatti lesivi di beni altrui. Se questi sono i principi costituzionali che limitano il potere di definizione delle fattispecie criminose da parte del legislatore ordinario, nel caso di specie occorre verificare se nella detenzione destinata al consumo o nell'effettivo consumo di sostanze stupefacenti, in quantita' superiori alla "dose media giornaliera", sia configurabile la lesione o l'esposizione a pericolo di un bene giuridico che possa giustificare, alla stregua dei suddetti principi, la sanzione penale. Illuminanti sono in proposito ancora una volta i lavori preparatori. La citata relazione Artioli/Casini (p. 6), nel contestare che la sanzione dell'uso della droga costituisce una inammissibile intrusione nella sfera di autodeterminazione del singolo, richiama l'imposizione, da nessuno criticata, dell'uso del casco per i motociclisti e delle cinture di sicurezza per li automobilisti; aggiunge che non solo l'art. 5 del nostro codice civile vieta gli atti lesivi della propria integrita' fisica, ma per impedire il suicidio e' consentito l'uso della forza. Tali affermazioni, in quanto riferite alle sanzioni non penali della legge in discussione, non hanno pertinenza alla questione de qua, che riguarda la giustificazione costituzionale della sanzione penale. Senonche' il relatore Casini, riprendendo gli stessi argomenti nella citata seduta alla Camera del 27 marzo 1990 (pp. 7/8), afferma che non e' vero che il consumo di droga costituisca un reato senza vittime e soggiunge che la prima vittima e' il drogato. A conforto della sua tesi (illiceita' degli atti contro se' stesso) precisa poi, a proposito del suicidio, che esso costituisce un atto illecito, gravato dalla sanzione della "impedibilita'". Si impone pertanto di chiarire che al nostro diritto penale sostanziale e' estraneo qualunque esempio di reato contro se' stesso, tanto e' vero che, per restare agli esempi addotti dall'on. Casini, l'uso del casco e delle cinture non e' assistito da sanzione penale e la lesione, anche gravissima, della propria integrita' fisica, vietata sul piano civilistico, non costituisce reato (giurisprudenza pacifica: v., da ultimo, trib. Roma, 23 marzo 1989, De Luca, in Cass. pen., 1989, p. 1573, confermata da Cass. sez. V, 27 giugno 1989, inedita, che ha escluso la configurabilita' del concorso della vittima consenziente nel reato di lesioni gravi). Quanto al suicidio, appare elementare osservare che la sua "impedibilita'" con la forza, discende non gia' da una sua pretesa illiceita', bensi' dalla scriminante (stato di necessita') che assiste l'intervento violento spiegato per impedirlo. In ogni caso, dall'assunto dell'on. Casini - se fosse fondato - discenderebbe se mai, a contrario, la liceita' dell'uso della droga, a meno che non si voglia sostenere che per il nostro ordinamento chiunque possa impedire con la forza a taluno di fumare uno spinello o di "bucarsi". Appare, dunque, evidente che in base ai principi del nostro ordinamento, la salvaguardia della salute dell'assuntore di sostanze stupefacenti - che non potrebbe neppure giustificare, secondo la piu' accreditata interpretazione dell'art. 32 della Costituzione, un trattamento sanitario coattivo (del resto neanche previsto, in via diretta, dalla stessa legge 162) - non puo' legittimare la sanzione penale per l'uso personale delle sostanze stesse. Le norme denunciate, pertanto, nei limiti in cui costituiscono il consumatore di stupefacenti contemporaneamente come soggetto sia della tutela penale che della sanzione, contrastano non solo con consolidati principi ordinari e costituzionali del nostro ordinamento, ma segnano altresi' un salto all'indietro nella evoluzione della cultura giuspenalistica, la quale nega ormai da alcuni secoli che la sanzione penale possa essere utilizzata per imporre all'individuo "il dovere di costruirsi in modo da essere un bene sociale" (Casini, cit., p. 7). La relazione sopra citata, in verita', prospetta una seconda dimensione di tutela perseguita con la sanzione dell'uso della droga, evidenziando che di esso e' vittima "non solo il tossicodipendente, ma anche i suoi familiari, i suoi amici, la comunita' in cui egli vive, la societa' nel suo complesso". Su questo aspetto insiste particolarmente il ministro guardasigilli che, nella seduta al Senato del 28 novembre 1989 (pp. 74/75), sottolinea che l'assuntore di sostanze stupefacenti "e' fonte di disperazione per i propri familiari, di tragedie, coinvolgimenti, devastazioni e miserie senza fine.. .. .. E' autore di gravi delitti colposi, lo e' di gravi delitti dolosi.. .. .. l'assunzione e la detenzione non sono mai indifferenti per due fondamentali beni della societa', la salute individuale e la sicurezza sociale.. .. ..". Ne' si tratta "di pericoli remoti, bensi' di pericoli estremamente concreti, come la diffusione della sindrome da immunodeficienza acquisita, del delitto doloso e colposo e cio' direttamente e sicuramente e non in via del tutto ipotetica e lontana, ma immediata e sicura della commissione di delitti". Non si puo', pertanto, rinunciare alla sanzione penale, cosi' come non si puo' "mai rinunciare, per esempio, a quella forma di prevenzione di delitti che sta nella punizione della detenzione di cose pericolose". Che lo stato di tossicodipendenza possa comportare i rischi sopra enunciati, e' innegabile. Ma altrettanto innegabile e' che quei rischi esulano del tutto dall'assunzione, anche abituale, delle c.d. droghe leggere (che, com'e' noto, non inducono tossicodipendenza),cosi' come costituiscono un pericolo assai remoto dell'uso occasionale o "compatibile" degli oppiacei o della cocaina. Dire che il consumo di sostanze stupefacenti di questo tenore comporti immediatamente, direttamente e sicuramente, lo sconquasso delle famiglie e della societa', la diffusione dell'AIDS, nonche', indefettibilmente, la commissione di delitti colposi e dolosi, costituisce palesemente una enfatizzata generalizzazione del tutto priva di riscontro nella realta'. Pertanto, in questi casi, costituire tali pericoli come oggetto della tutela della norma incriminatrice del consumo di sostanze stupefacenti, appare irragionevole ed arbitrario e percio' in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Certo, nell'uso occasionale delle c.d. droghe pesanti e' insito il rischio del passaggio all'uso abituale e quindi alla tossicodipendenza, che comporta a sua volta i pericoli paventati dal guardasigilli. Ma si tratta, all'evidenza, non gia' di un "pericolo concreto", bensi' di quel "pericolo di mera previsione, dal quale - gia' secondo il Carrara (Programma, par. 352, p. 324) - non emerge ragione legittima di imputazione" e sul quale la migliore dottrina penalistica degli ultimi anni ha espresso ampie riserve di costituzionalita'.Per le droghe c.d. leggere poi, tale pericolo e' del tutto evanescente se e' vero che il passaggio dal consumo della cannabis a quello delle sostanze oppiacee (che sono tipiche di figure socio-culturali diverse se non pure antagoniste), e' oggi fenomeno sporadico e raro, come dimostra, tra l'altro, il rapporto numerico tra i due tipi di consumatori (secondo le stime piu' accreditate, i consumatori di oppiacei sarebbero circa 2/300 mila, mentre quelli di cannabis supererebbero i 3 milioni). Come ben si vede se si tien conto della realta', con riferimento al consumo della cannabis e all'assunzione occasionale delle c.d. droghe pesanti, i pericoli che secondo l'intenzione del legislatore costituiscono il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice dell'uso di sostanze stupefacenti, non si prestano ad essere configurati come "pericolo concreto" (pericolo "corso", secondo la piu' pregnante terminologia del Carrara), ma rappresentano al massimo un "pericolo astratto" (o "pericolo del pericolo") come tale inidoneo a legittimare la configurazione di una fattispecie criminosa. E' stato in proposito fondatamente osservato che "in tutti i casi in cui il pericolo concreto non si presta a una prefigurazione legale tassativa, il suo accertamento tende inevitabilmente a ricalcare il modello penale del tipo di autore", con la conseguenza che ad essere punita e' "la mera disobbedienza o violazione formale della legge da parte di un'azione di per se' inoffensiva" (L. Ferrajoli, Diritto e Ragione, Teoria del garantismo penale, 1989, p. 525). Che e' quanto puntualmente accade nel caso in cui sia applicata la sanzione penale a chi detenga per il consumo o addirittura abbia gia' consumato nell'arco delle 24 ore, uno "spinello" in piu' dei due-tre consentiti dalla "dose media giornaliera" ovvero, come nel caso di specie, due singole dosi "medie" accade nel caso in cui sia applicata la sanzione penale a chi detenga per il consumo o addirittura abbia gia' consumato nell'arco delle 24 ore, qualche milligrammo in piu' di una singola dose "media" di "cocaina" ovvero, come nel caso di specie, dei due-tre "spinelli" consentiti dalle tabelle ministeriali. Quanto all'assunzione abituale di droghe "pesanti", rispetto alla quale i pericoli sopra enunciati assumono una dimensione di concretezza, appare significativo che, a differenza del possessore di cose pericolose evocato dal ministro guardasigilli - ammesso a provare l'insussistenza nel caso concreto del pericolo tutelato dalla norma incriminatrice (cfr. art. 707 del c.p.) - il tossicodipendente e' indefettibilmente punito per il consumo di sostanze stupefacenti in quantita' superiori alla "dose media giornaliera", anche se, nel caso concreto, i beni tutelati non hanno corso alcun pericolo. E' evidente pertanto che, come in tutti i casi di "pericolo presunto", il fatto "pericoloso" non costituisce l'oggetto di tutela della sanzione penale, bensi' la semplice occasione per assoggettare a pena la condizione soggettiva del suo autore. Una situazione classica, cioe', di punizione per "tipo di autore". A parte tali rilievi, lo stesso legislatore ordinario riconosce che nei confronti del consumatore abituale le "sanzioni penali si rivelano pressoche' inutili avuto riguardo alla indifferenza con la quale il tossicodipendente, soverchiato dalla sollecitazione irresistibile della droga, si rapporta a qualsiasi prospettiva sanzionatoria.. .. .. Naturalmente le sanzioni dispiegano il loro potenziale dissuasivo quasi esclusivamente nei confronti di coloro che non hanno alcun rapporto di dipendenza con la droga.. .. .. Pressoche' nullo e' invece tale effetto nei confronti dei tossicodipendenti, totalmente soggiogati dalla esigenza pressante ed incessante della droga, i quali, non distolti da questa irresistibile pulsione da ben note drammatiche prospettive, ben difficilmente presteranno maggiore attenzione al messaggio dissuasivo dato da una sanzione penale.. .. .." (relazione Casoli/Condorelli, cit., pp. 8 e 11). Le affermazioni sopra riportate, se da un lato confermano che i redattori della legge non si sono resi conto della portata sanzionatoria delle norme che andavano approvando, dall'altro lato si saldano con l'osservazione secondo la quale "il principio di utilita' e quello della separazione tra diritto e morale impongono di considerare ingiustificate tutte le proibizioni di cui, qualunque cosa si pensi non solo circa l'immoralita' ma anche circa l'offensivita' delle azioni proibite, non sia comunque prevedibile un'efficacia deterrente a causa delle profonde motivazioni individuali, o economiche o sociali delle loro violazioni" (Ferrajoli, cit., p. 475). In conclusione, la fattispecie criminosa che sottopone a sanzione penale la detenzione destinata al consumo o lo stesso effettivo consumo di sostanze stupefacenti in quantita' eccedenti la "dose me- dia giornaliera", e' priva dei fondamenti costituzionali richiesti materia penale sancita dallo stesso art. 25 della Costituzione. Invero la Corte costituzionale, nei numerosi casi in cui e' stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimita' delle c.d. norme penali in bianco, ha costantemente affermato che "il rispetto del principio di legalita' dei reati e delle pene esige che nella norma primaria siano indicati con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto ed i limiti dei provvedimenti dell'autorita' non legislativa, alla trasgressione dei quali deve seguire la pena, perche' il reato sia tassativamente determinato in tutti i suoi elementi costitutivi" (v., per tutte, sent. n. 492/1987). Piu' di recente la Corte (sent. n. 282/1990) ha ribadito che, a tutela delle esigenze di certezza e determinatezza delle fattispecie penali, e' costituzionalmente legittima "la funzione integrativa svolta da un provvedimento amministrativo, rispetto ad elementi normativi del fatto sottratti alla possibilita' di un'anticipata indicazione particolareggiata da parte della legge, quando il contenuto d'illecito sia peraltro da essa definito (come accade ad esempio per gli elenchi delle sostanze stupefacenti contenuti in un decreto ministeriale.. .. ..)". Ma, tanto premesso, la Corte ha pure ribadito che resta riservata alla legge la determinazione del "nucleo fondante" e del "contenuto essenziale dell'illecito penale", non essendo consentito rimettere all'atto amministrativo la individuazione degli elementi essenziali del reato, specie quando il potere dell'amministrazione, come nel nostro caso (v. art. 78, secondo comma), "rimanga libero di mutare sostituire od abrogare i predetti elementi essenziali". E, sulla base di tali premesse, la Corte ha dichiarato l'illegittimita' della norma allegata a sospetto in quanto consentiva che "la condotta penalmente rilevante" emergesse "solo in connessione coi contenuti specifici" di un decreto ministeriale. E' quanto accade, puntualmente, nel caso di specie. Secondo l'art. 73 del d.P.R. n. 162/1990 la "dose media giornaliera" e' il limite quantitativo massimo oltre il quale la detenzione a qualsiasi titolo della sostanza stupefacente costituisce reato. L'art. 75 demanda "ai criteri indicati al primo comma dell'art. 78" la determinazione della dmg. Quest'ultimo che, secondo la rubrica, disciplina la "quantificazione delle sostanze", demanda a sua volta a un decreto del Ministro della sanita', previo parere dell'Istituto superiore di sanita', di determinare: a) le procedure diagnostiche e medico-legali per accertare l'uso abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope; b) le metodiche per quantificare l'assunzione abituale nelle ventiquattro ore; c) i limiti quantitativi massimi di principio attivo per le dosi medie giornaliere. La previsione dell'art. 78 sopra riprodotta, e' ben lungi dal soddisfare l'esigenza di predeterminazione ad opera della norma primaria del "contenuto essenziale", nonche' dei "presupposti, caratteri, contenuti e limiti", cui la ricordata giurisprudenza di codesta Corte subordina la legittimita' della integrazione della fattispecie penale ad opera del provvedimento amministrativo. Nel corso del dibattito parlamentare il governo e la maggioranza avevano mostrato di annettere grande importanza alla dimensione personalizzata della dmg. Nella seduta del Senato del 28 novembre 1989 il ministro guardasigilli, nel preannunciare l'introduzione della norma che prevede i criteri sopra elencati, afferma: "Cio' dovrebbe eliminare le lamentate equivocita' ed incertezze interpreta- tive a cui il testo attuale potrebbe dar luogo circa il riferimento oggettivo-soggettivo, cioe' personalizzato, della dose media giornaliera" (v. resoconto stenografico, p. 75). A sua volta il relatore Condorelli, replicando ad alcuni interventi critici secondo i quali la sostituzione della modica quantita' con la dose media giornaliera avrebbe lasciato le cose come stavano, afferma: "Non e' affatto vero, si tratta di una soluzione molto differente. Oggi la scriminante tra lo spacciatore e il consumatore e' rappresentata da un mero fatto quantitativo: il peso, l'elemento peso. Con la dmg no, c'e' una perizia medica sulla persona, un accertamento, che stabilisce innanzitutto se il soggetto e' un tossicodipendente. Cosi' anche il pericolo che paventava il senatore Onorato cessa, perche' non sara' il mezzo grammo in piu' o in meno, a discriminare il consumatore dallo spacciatore; ci sara' una valutazione globale, medico-legale, condotta dai sanitari, che potra' valutare l'esigenza di droga dei singoli soggetti. Per la modica quantita' esistono delle incertezze: ad esempio un soggetto puo' aver bisogno di cento milligrammi di eroina, ma un altro potrebbe aver bisogno di assumere anche 5 grammi secondo alcuni esperti" (res. sten., p. 48). Senonche', nel testo definitivo della legge, ad onta di quanto si era cosi' enfaticamente affermato, la distinzione tra assuntore occasionale e assuntore abituale - in relazione al quale la quantita' di cui era penalmente lecita la detenzione, veniva determinata con riferimento alla dose abitualmente assunta nelle 24 ore - e' venuta a cadere. I criteri di cui ai punti a) e b) hanno perso cosi' qualsiasi rilevanza ai fini della determinazione della dose la cui detenzione per uso personale non e' soggetta alla sanzione penale. L'unico discrimine tra il punibile e il non punibile (che non coincide, come sembra credere il relatore Condorelli, con quello tra spaccio e consumo) e' costituito dalla quantita', cioe' dal deprecato "elemento peso", secondo la giusta preoccupazione del senatore Onorato. I punti a) e b) dell'art. 78 null'altro sono, dunque, che la sopravvenienza verbale di una lodevole intenzione del legislatore rimasta priva di sbocchi normativi. Quanto al punto c), giova anzitutto chiarire che la formula della legge, sfrondata anche qui dalle sovrabbondanze verbali connesse alla originaria previsione di concorrenti criteri soggettivi, non significa altro che questo: al provvedimento amministrativo e' demandato di stabilire la quantita' di principio attivo costituente la "dose media giornaliera", di cui e' penalmente lecita la detenzione per uso personale del detentore. Senonche', l'art. 78, ad onta della sua rubrica, non detta alcun criterio per la determinazione di tale quantita', con palese violazione del principio costituzionale di cui all'art. 25 della Costituzione, secondo il quale, come si e' detto, nella norma primaria che conferisce alla p.a. il potere di integrare la fattispecie penale, devono essere predeterminati "i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell'autorita' non legislativa". La illegittimita' costituzionale dell'art. 78, sotto il profilo della violazione della riserva di legge, balza evidente sol che esso si confronti con l'art. 12 della legge n. 685/1975, dove i "criteri per la formazione delle tabelle" sono indicati con una ricca e articolata specificazione di dettagli, che circoscrive l'intervento della p.a. nei limiti propri di un'attivita' meramente tecnica (come giustamente riconosciuto da codesta Corte). Qui non puo' dubitarsi che "il contenuto essenziale dell'illecito penale", connesso alla individuazione delle sostanze stupefacenti, risalga alla volonta' del legislatore. Ma e' estremamente significativo che il legislatore del 1975 abbia avvertito l'esigenza di definire con tanta precisazione di dettagli la nozione di "sostanza stupefacente", di cui pure si riteneva che la scienza gia' offrisse una predeterminazione oggettiva idonea ad identificare "l'oggetto materiale del delitto" (v. in tale senso, con riferimento alle tabelle previste dalla legge n. 104/1954, Corte costituzionale, sent. nn. 36/1964 e 9/1972). Niente di tutto questo si riscontra nell'art. 78, in cui al vuoto di predeterminazione di criteri, si accompagna il rinvio ad una entita' irreale (la "dose media giornaliera"), assolutamente insuscettibile di definizione dal punto di vista tecnico-scientifico. Il richiamo ad una entita' "media", in verita', sembrerebbe far riferimento ad un dato statistico, cioe' alla quantita' complessiva consumata quotidianamente dall'insieme dei consumatori di una data sostanza stupefacente, divisa per il numero dei consumatori stessi. Un tale criterio, per quanto impraticabile e irrazionale per la determinazione del discrimine tra lecito e illecito penale, avrebbe tuttavia il pregio di conferire alla previsione della "dose media giornaliera" un carattere di predeterminazione legale ancorata a dati oggettivi, che consentirebbe all'intervento integrativo del ministro della sanita' di mantenersi nei limiti di quelle "valutazioni di carattere tecnico e contingente" che, in quanto tali, "sono legittime manifestazioni dell'attivita' normativa della p.a." (v., Corte costituzionale n. 9/1972). Ma e' del tutto pacifico che non e' questo il senso della citata lett. c), riferendosi invece la "medieta'" ad una media aritmetica tra una dose minima e una dose massima assumibile nelle ventiquattro ore. Senonche', entrambi i termini di riferimento sopra indicati sono, per unanime riconoscimento della letteratura scientifica che si occupa della materia, assolutamente incerti, a causa delle molte variabili da cui essi dipendono, in particolare il modo di assunzione e il grado di tolleranza del soggetto assuntore. Illuminante sul punto e' il parere espresso nel corso dell'iter parlamentare (30 novembre 1989), su richiesta del ministro, dall'Istituto superiore di sanita', avente ad oggetto "l'eventuale attribuzione al Ministero della sanita' di compiti.. .. .. di individuazione delle dosi medie giornaliere", nel quale si legge: "tutti gli esperti in materia hanno ripetutamente riconosciuto che la definizione della dose media giornaliera non puo' servire a detto scopo (discrimine del penalmente rilevante, nda), data l'ampiezza del range dei quantitativi che possono essere adoperati da diversi assuntori o dallo stesso assuntore in momenti differenti". A proposito degli oppiacei, cosi' continua il predetto parere: "a fronte di una dose farmacologicamente attiva di 0,01-0,02 g i.v. nel soggetto non assuefatto, soggetti assuefatti possono arrivare ad impiegare anche piu' grammi al giorno"; e, richiamandosi a J.H. Jaffe (in Goodman and Gilman's The Pharmacological Basis of Therapeutics, Macmillan, 1985), cosi' continua: "un soggetto assuefatto puo' ricevere per via endovenosa due grammi di morfina in due ore e mezzo senza che si verifichino variazioni della pressione arteriosa, della frequenza del battito cardiaco e della frequenza del respiro". Per quanto riguarda la cocaina, si legge: "a fronte di una dose di 0,04-0,1 g di cocaina cloridrato farmacologicamenteattiva per via inalatoria, gli assuntori pesanti possono arrivare ad impiegare anche piu' grammi al giorno. Jaffe specifica che alcuni assuntori ricorrono a due prese all'ora di 0,1 g ciascuna.. .. .. In una tale situazione - concludeva il parere - la eventuale assegnazione alla autorita' sanitaria di compiti di individuazione delle dosi medie giornaliere imporrebbe" scelte incongrue sul piano scientifico. Considerazioni analoghe svolgera' poi, dopo l'approvazione della legge n. 162, lo stesso ISS che, nella "premessa" ai "criteri per l'individuazione delle dosi medie giornaliere", trasmessi al Ministero della sanita' con nota del 2 luglio 1990, cosi' scrive: "L'indicazione esplicitamente formulata nel disposto legislativo di distinguere in base al solo dato ponderale di droga il consumatore dallo spacciatore-trafficante attribuisce al dato numerico un significato che puo' essere fortemente penalizzante per alcuni o colpevolmente gratificante per altri.. .. .. La composizione quali-quantitativa della droga di strada e i rispettivi metodi analitici non sono riferibili a campioni (prototipi) standard come per i comuni oggetti e articoli merceologici.. .. .. sembra opportuno far presente che, per l'eterogeneita' e variabilita' dei parametri (non standardizzabili ne' controllabili), ai valori riportati nel d.m. non sono da attribuire requisiti di accuratezza e precisione.. .. ..". Alla luce di tali osservazioni, particolarmente autorevoli sotto il profilo scientifico, appare evidente che la "dose media giornaliera" e' una mera formula verbale, del tutto priva di riscontro nella realta', con la conseguenza che la sua determinazione e' rimessa alla totale discrezione della p.a., in contrasto con la riserva di legge prevista dall'art. 25 della Costituzione. Il discrimine tra illecito ex art. 75 e delitto ex art. 73 e' cosi' rimesso all'autorita' amministrativa, senza alcuna indicazione di criteri e principi direttivi. In altre parole "la condotta punibile", emerge dai "contenuti specifici" del provvedimento amministrativo, e quindi e' quest'ultimo che, a differenza di quanto accade per le tabelle emanate in base all'art. 12 della legge n. 685/1975, determina "il contenuto essenziale dell'illecito penale", ai di fuori di qualunque limite o parametro precostituito dalla legge. L'atto amministrativo concorre pertanto alla determinazione della fattispecie punibile non in base a "valutazioni di carattere tecnico e contingente", ma in base a scelte di tipo meramente politico, come ebbe a riconoscere in Senato il ministro Jervolino, firmataria della legge, che nella seduta del 12 giugno 1990 (res. sten. p. 22) dichiarava senza infingimenti che la determinazione della dose media giornaliera "rimane(va) ascritta alla responsabilita' amministrativa e politica del Ministro della sanita'". Le concrete determinazioni adottate dal Ministro con il d.m. 12 luglio 1990, n. 186, rappresentano del resto un'eloquente conferma che la "dose media giornaliera" costituisce una entita' indeterminabile dietro la quale si celano non gia' valutazioni tecniche, ma scelte di politica criminale indebitamente assegnate alla p.a. e da essa come tali esercitate. L'art. 3 di tale decreto affida la quantificazione delle dosi medie giornaliere ad apposite tabelle, corredate da "note esplicative", che dovrebbero dar conto dei parametri cui l'amministrazione ha fatto riferimento nell'esercizio del suo potere discrezionale. Senonche' le predette note esplicative - del tutto assenti in relazione ad alcune sostanze, come i derivati dell'acido lisergico (c.d. LSD) - si riducono in realta' ad alcune scarne formule, la cui genericita' e vaghezza e' palesemente ascrivibile non gia' a carenze scientifiche dell'elaborato tecnico, ma alla ovvia impossibilita' di dar conto di parametri che non esistono. Limitando l'esame alle note esplicative relative alle sostanze piu' note, si rileva che per la cocaina e per l'eroina la nota n. 1 spiega che "le quantita' riportate sono individuate sulla base dei dati epidemiologici relativi all'uso abituale". Cosa siano questi "dati epidemiologici" si ricava dalla citata nota (p. 5) trasmessa dall'ISS il 2 luglio 1990. Essi "si riferiscono ai sequestri operati dalle forze dell'ordine e sono in buon accordo fra loro sulla base dei corrispondenti esami effettuati dalle strutture del S.S.N. e dagli istituti di Medicina Legale". La commissione di esperti dell'Universita' "La Sapienza", all'uopo nominata dal Ministro della sanita', nel parere in data 28 giugno 1990 (p. 4), spiega a sua volta di avere "individuato per le varie sostanze stupefacenti o psicotrope contenute nelle tabelle I-IV, le quantita' giornaliere, che, secondo l'esperienza maturata presso i servizi di assistenza sanitaria dei tossicodipendenti.. .. .., le segnalazioni provenienti dall'ISS e le statistiche dei sequestri effettuati dalle forze di polizia, sono consumate dalla maggior parte (moda statistica) dei tossicodipendenti, di grado medio, nell'arco delle 24 ore". Aggiunge "a titolo di esempio", che "valutata (dai rilevamenti presso servizi pubblici) in circa 0,5 grammi la dose di eroina di strada piu' frequentemente assunta nelle ventiquattro ore dal tossicodipendente con dipendenza di grado medio.. .. .. ed individuata nel 20% circa la percentuale massima di eroina cloridrato, cioe' di principio attivo, presente nella eroina di strada attualmente circolante secondo quanto risulta dalle analisi condotte dagli istituti universitari di tossicologia forense, e' stato proposto intorno ai 100 mg di eroina base anidra il limite massimo di principio attivo per la dose media giornaliera". In altre parole, i "dati epidemiologici" sono stati ricavati da un dato soggettivo (le dichiarazioni dei tossicodipendenti in cura presso i SAT) per la determinazione della "media" quantita' delle assunzioni, e da un dato oggettivo (l'analisi delle "cartine" sequestrate dalla polizia giudiziaria) per la rilevazione del "medio" principio attivo. Una ricerca condotta negli anni 1976-82 con gli stessi metodi di indagine su un campione di 949 "cartine" e 106 tossicodipendenti, aveva rivelato una "dose-consumo", cioe' una "dose media giornaliera", di "200-400 mg di eroina pura al giorno" (v. Lopez, de Zorzi, Racalbuto, Tossicomania da eroina-Il consumo medio giornaliero e il problema della "dose", in "Zacchia", Arch. di Med. Leg., lu-set. 1983). Adottando la stessa metodologia di indagine, nel 1990 la commissione dei docenti indica in 100 mg (indicazione poi accolta nel d.m. n. 186) la "dose media giornaliera" dell'eroina, in sostanziale accordo con l'ISS, che la indica in 80-100 mg, corrispondenti a 3-4 "cartine" di droga "di strada". Tale quantita' - avverte tuttavia l'ISS - e' stata determinata, "in linea puramente ipotetica e con ampie riserve su possibili trasferimenti automatici a casi individuali", con riferimento ad "un eroinomane ad uno stadio medio di dipendenza (cioe' in una condizione di tolleranza gia' sviluppata ma ancora lontana da quella di eroinomani pesanti per i quali sono note assunzioni anche superiori ad 1 gr di eroina al giorno". E', praticamente, la descrizione della situazione tipica in cui il discrimine tra consumatore e spacciatore, fondato sulla "dose media giornaliera", e' "fortemente penalizzante per alcuni" (i tossicodipendenti "pesanti", cioe' i piu' deboli e i piu' indifferenti alla minaccia della sanzione penale, cui tuttavia sono inevitabilmente esposti pur se mantengano l'approvvigionamento nei limiti del loro fabbisogno quotidiano) e "colpevolmente gratificante per altri", cioe' per i piccoli spacciatori, che siano eventualmente anche assuntori occasionali o allo stadio iniziale, i quali - potendosi accontentare dell'assunzione quotidiana di una/due dosi farmacologicamente attive, equivalenti a 5-10 mg (nella farmacopea ufficiale la singola dose di morfina, per la quale le tabelle del d.m. n. 186 fissano la dmg in 200 mg, cioe' il doppio dell'eroina, e' di 10 mg; secondo il citato "Goodman and Gilman's", p. 505, 10 mg di morfina corrispondono a 4 mg di eroina) - conservano un buon margine per una proficua attivita' di piccolo spaccio, reso conveniente dal prezzo corrente di 100 mg di eroina "da strada" (circa 200 mila lire). Ancor piu' della deprecata "modica quantita'", quindi, la "dose media giornaliera" non solo e' inidonea a distinguere il consumatore dallo spacciatore, ma criminalizza le situazioni che, per stessa ammissione del legislatore, non possono essere risolte con la sanzione penale e si presta ugualmente ad essere usata come schermo per il piccolo spaccio, specie da parte e verso i consumatori non tossicodipendenti. Quanto alla cocaina, la citata nota dell'ISS (p. 6) osserva che per essa e' "ancora piu' difficile discriminare solamente sulla base di una determinata quantita' il consumatore dallo spacciatore". Afferma tuttavia che sulla base dei "dati epidemiologici" e con riferimento all'uso abituale, "le quantita' utilizzate mediante aspirazione nasale rientrano in un intervallo da 100 a 250 mg di cocaina cloridrato nell'arco di 2-3 ore". Ad onta di tali risultanze, la "dose media giornaliera" viene indicata in 100 mg, cioe' nella quantita' minima consumata dall'assuntore abituale ogni 2-3 ore, evidentemente in applicazione del criterio, enunciato nella "premessa", secondo il quale "allo scopo di privilegiare il carattere di prevenzione della normativa e per disincentivare le prime assunzioni e l'avvio verso l'abuso, la scelta della DMG e' stata orientata in alcuni casi verso livelli inferiori a quelli mediamente risultanti dai dati epidemiologici sull'abuso di droga". La commissione di esperti dell'Universita' di Roma, nel citato parere (pervenuto al Ministero della sanita' il 10 luglio 1990), contraddicendo le affermazioni dell'ISS, annovera invece la cocaina (p. 5) tra "le sostanze stupefacenti prive di riscontro epidemiologico", per le quali propone, "anche per scoraggiare la loro utilizzazione illegittima", che "la dose singola nel costituisca anche il livello massimo delle 24 ore" (le sottolineature sono nel testo). La "dose media giornaliera" di cocaina cloridrato viene cosi' proposta (p. 7) in 150 mg, corrispondenti in effetti alla quantita' costantemente indicata dai periti giudiziari come "singola dose me- dia". Con altra nota coeva al parere della commissione di esperti (10 luglio 1990), l'ISS precisa che "il valore indicato, ad esempio per la cocaina, pur rientrando in un intervallo aritmetico delle dosi medie rilevate nel traffico illecito, e' il risultato di una media ponderata tra i valori proposti dagli esperti" dell'Istituto stesso. Il Consiglio di Stato, infine, nel parere in data 12 luglio 1990 - dopo aver rilevato in via generale che laddove l'ISS ha privilegiato "i fini della prevenzione e della disincentivazione.. .. .. i criteri seguiti appaiono non conformi a legge, in quanto dichiaratamente si discostano, in senso rigoristico, dal dato obiettivo del limite quantitativo massimo di principio attivo per le dosi medie giornaliere, di cui all'art. 72-quater legge n. 685/75" - suggerisce di adottare, tra le contrastanti indicazioni dell'ISS e della commissione di esperti, quelle di quest'ultima, che "infatti e' pervenuta all'unanimita' alle proprie conclusioni e non ha utilizzato alcun criterio finalistico". In effetti il d.m. n. 182 adotta come "dose media giornaliera" della cocaina cloridrato la quantita' indicata dalla commissione dei docenti (150 mg, equivalenti ad una singola dose "media"). Ma tale soluzione non e' in alcun modo idonea a sanare i macroscopici vizi di illegittimita' che viziano il provvedimento. Si potrebbe innanzitutto osservare che la querelle tra l'ISS e la commissione di esperti circa i "dati epidemiologici", nasce dal fatto che le fonti da cui essi dovrebbero essere tratti, sono poco eloquenti per quanto riguarda il dato soggettivo (l'osservazione presso i SAT) e praticamente mute per quanto riguarda il dato oggettivo (le confezioni sequestrate dalla polizia giudiziaria). Da un lato, infatti, il cocainista medio non si rivolge ai SAT (in una ricerca relativa al periodo genn./mar. 1983 di de Zorzi, Lopez e Borza, pubblicato in Zacchia, cit., ott.-dic. 1983, si da' atto che il campione analizzato - 129 "tossicomani abituali" che si erano rivolti ai CT dell'area romana - non appartiene alla "tradizionale categoria dei cocainisti", atteso che il 59% fa contemporaneamente uso di eroina e solo il 25% utilizza per l'assunzione "la classica via intranasale", mentre il 65% utilizza la via endovenosa). Dall'altro lato, il sequestro di polizia giudiziaria di confezioni di cocaina destinata all'immediato consumo e' fenomeno altrettanto raro e comunque inidoneo a fondare una attendibile rilevazione statistica; e cio' perche' sul mercato al minuto, la cocaina non circola in confezioni corrispondenti a singole dosi, ma in quantita' superiori. Forse, perdurando il vigore delle norme allegate a sospetto di incostituzionalita', nel lungo periodo il mercato della cocaina finira' con l'adattarsi alle necessita' giudiziarie. Ma, a parte le pratiche difficolta' di tale adattamento (l'assuntore "medio", cioe' di singole dosi plurime, dovrebbe reiterare l'acquisto e immediatamente consumare la dose acquistata piu' volte nell'arco delle 24 ore), sta di fatto che, allo stato, il consumatore "medio" di cocaina - che, secondo il parametro della legge, dovrebbe andare esente da sanzione penale - e' costretto, dalla illegittima determinazione della p.a., a commettere reato per approvvigionarsi della quantita' necessaria al suo fabbisogno quotidiano (la cui soddisfazione e' considerata invece, nella legge, come mero illecito amministrativo). Si potrebbe altresi' considerare che non solo l'ISS, ma ance la commissione, assegna dichiaratamente alla determinazione della dmg di sostanze come la cocaina lo scopo di "scoraggiare la loro utilizzazione illegittima", e quindi, arbitrariamente, fini di "prevenzione e disincentivazione". Quel che appare incontestabile, tuttavia, e' che la quantita' indicata nel d.m. (150 mg) viola anche nominalmente il sia pur evanescente e indeterminabile criterio legislativo della "dose media giornaliera", giacche' corrisponde, per esplicita dichiarazione della commissione proponente e per comune acquisizione della prassi giudiziaria, ad una singola dose, che un assuntore "medio" consuma, secondo lo stesso parere dell'ISS, nell'arco di un paio di ore. Il discrimine tra lecito e illecito penale e' stabilito, dunque, in violazione delle parole della legge, non gia' sulla base della "dose media giornaliera", bensi' sulla base della "singola dose media". Tale soluzione determina, altresi', una palese disparita' di trattamento rispetto alla eroina, di cui e' lecito consumare 3/4 singole dosi "medie" al giorno. Una disparita' di trattamento tanto piu' incomprensibile se si considera che la singola dose di ciascuna delle due droghe a un costo equivalente (circa lire 50 mila), ma l'una (l'eroina) e' molto piu' nociva della cocaina, ove questa sia assunta con il normale metodo dell'aspirazione nasale. A tale proposito, la nota esplicativa n. 5 delle tabelle allegate al d.m. n. 186, spiega che "per la cocaina vengono specificate rispettivamente sia la dose come cocaina cloridrato sia la dose come cocaina base in quanto il potere tossicomanigeno delle due forme chimiche e' molto diverso". In effetti le tabelle indicano la dmg della "cocaina base (crack)" in 20 mg, a fronte dei 150 della cocaina cloridrato (in un rapporto, quindi, di 1 a 7,50). In base a quali criteri si sia pervenuti a tale determinazione, non e' dato sapere (sul punto tacciono i pareri sia dell'ISS che della commissione). Ma da uno studio recente sull'esperienza americana (Lopez-Potenza, Il "crack", la cocaina da fumo - Un problema in arrivo, in Zacchia, cit., giu. 1988), si apprende che "a causa della breve durata dell'higt con il crack sono richieste assunzioni piu' frequenti rispetto all'uso della cocaina intranasale, anche perche' l'esaurimento della fase di euforia porta ad uno stadio di depressione profonda (crash) che induce all'assunzione di successive dosi. La quantita' di free-base utilizzata e' dell'ordine di 80-100 mg per ogni inalazione (hit); le assunzioni possono essere ripetute anche ogni 5 minuti. Consumi individuali di 3-4 g in 4 ore, di 9-30 g in 24 ore e di 150 g in 72 ore sono riferiti da soggetti che hanno richiesto trattamenti terapeutici". Alla luce di questi dati, e in assenza di qualsiasi spiegazione nelle fonti ufficiali, la determinazione della dmg del crack in 20 mg, cioe', secondo i suddetti dati, in 1/5 dela singola dose minima reiteratamente assunta nell'arco delle 24 ore da un consumatore abituale, risulta al colleggio del tutto incomprensibile. Tuttavia, quel che piu' sorprende a fronte delle tabelle, e' apprendere dai cultori della materia che il diverso "potere tossicomanigeno"della cocaina non dipende direttamente dalle diverse forme chimiche (cloridrato o base) in cui si puo' presentare, ma dalle diverse vie di assunzione. Il crack infatti, non e' niente altro che l'assunzione della cocaina base mediante la inalazione dei fumi che, ottenuti con un facile processo di combustione (evaporazione), raggiungono rapidamente, attraverso le grandi superfici dei polmoni, i recettori del sistema nervoso centrale. L'effetto stupefacente e' percio' rapido, violento e di breve durata, ma anche molto pericoloso (pericolosita' ed effetti analoghi sono connessi all'assunzione endovena). Con l'aspirazione intranasale, invece, la cocaina cloridrato, solubilizzata dal liquido della mucosa nasale e da questa assorbita, raggiunge i recettori del s.n.c. attraverso il flusso ematico. L'effetto pertanto e' piu' lento ma piu' duraturo. Il diverso "potere tossicomanigeno" e' legato, dunque, alle due diverse forme chimiche solo nel senso che la cocaina base si presta piu' facilmente ad essere assunta per inalazione dei fumi, perche' si volatilizza ad una temperatura molto piu' bassa (97-98 gradi) della cocaina cloridrato, il cui alto punto di fusione (195-196 gradi) ne determina invece, nel corso dell'operazione di assunzione, una parziale distruzione. Ma cio' non toglie che cosi' come una miscela di cocaina base, opportunamente polverizzata, potrebbe essere "sniffata" al pari di una miscela di cocaina cloridrato, quest'ultima puo' essere a sua volta assunta per inalazione dei fumi, in un duplice senso: o procedendo alla sua combustione (pagando lo scotto che si e' detto) ovvero trasfrmando la cocaina cloridrato in cocaina base, attraverso procedimenti di facile accesso (accanto al metodo tradizionale - soluzione ed alcalinizzazione in acqua e bicarbonato; estrazione con etere successivamente evaporato - Lopez/Potenza, cit., cosi' descrivono il metodo usato dai tossicodipendenti negli ultimi anni: "il crack si ottiene partendo dal cloridrato di cocaina, che e' la forma comune della cocaina presente nel commercio clandestino, mediante una procedura assai semplice e priva di rischi. Le attuali modalita' di preparazione, possibili anche in ambienti privi di attrezzature di laboratorio, consistono nello sciogliere la cocaina cloridrato in acqua, alcalinizzare con bicarbonato di socio o con ammoniaca, e infine riscaldare. Si ottiene in tal modo la cocaina sotto forma di base libera; con raffreddamento rapido si ha la separazione della parte solida dalla parte acquosa che viene scartata". Alla stregua di quanto esposto, appare evidente che le due diverse forme chimiche della cocaina, mentre potrebbero essere ragionevolmente considerate (insieme alla confezione: il crack si presenta di solito come un prodotto solidificato) elemento indiziante del metodo di assunzione della sostanza, non sono invece idonee a differenziare la dmg, e costituiscono percio' un criterio incerto ed arbitrario di identificazione della fattispecie penale (nonche' della sua gravita' oggettiva, solitamente tratta dal numero delle dosi). Infatti, richiamando quanto detto piu' sopra, 150 mg di cocaina cloridrato (equivalenti, secondo le tabelle, ad una dmg) potrebbero essere facilmente trasformati in cocaina base, ricavandone 7/8 dmg di crack; per converso, 150 mg di cocaina base si prestano ad essere assunti in un'unica soluzione (per aspirazione) ovvero, come "crack", in piu' soluzioni (in 7 giorni e mezzo per un assuntore "medio", secondo le tabelle). Le paradossali conseguenze sul piano sanzionatorio sono evidenti: la detenzione di una miscela contenente tra i 20 e i 150 mg di cocaina base, alla stregua del criterio puramente chimico adottato dal d.m. n. 162, costituisce il reato di cui all'art. 73, anche se ne fosse comprovata l'assunzione mediante un'unica aspirazione nasalle; invece, la detenzione ad uso personale di 150 mg di cocaina cloridrato e' esente da pena anche se destinata a plurime assunzioni di crack (al fabbisogno di oltre una settimana, secondo le tabelle). Il riferimento alla forma chimica della sostanza per la determinazione della dmg, e quindi della punibilita' e della gravita' della pena, si rivela ancor piu' arbitraria e priva di senso se si considera che la identificazione delle due specie, cloridrato e base, e' possibile, con i metodi normalmente usati nell'indagine chimico- giudiziaria,solo per la sostanza allo stato puro. In realta', nel mercato clandestino, la cocaina si trova allo stato puro solo per grossi quantitativi; nel mercato al minuto, quello cioe' cui attingono i consumatori, la cocaina si trova invece sempre miscelata ad altre sostanze (di solito lidocaina cloridrato), sicche' l'analisi chimica non consente di stabilire se la presenza dei ioni cloro - su cui si basa la distinzione fra le due specie - provenga da diversa sostanza o dalla cocaina, e quindi se quella contenuta nella miscela sia cloridrato o base (altri metodi di indagine - punto di fusione; "Nik-o-test" - segnalati nel citato studio Lopez/Potenza, devono intendersi riferiti sempre alle sostanze ad alto grado di purezza). La conseguenza e' che, proprio per quantitativi al limite della dmg, sulla base del mero criterio chimico e' impossibile dire se si e' in presenza di una fattispecie criminosa (cioe' al di la' o al di qua della dmg). Dalle considerazioni esposte, emerge non solo l'inconsistenza e l'irrazionalita' del criterio legale (la "dose media giornaliera") di identificazione della fattispecie penale e l'arbitrarieta' della concreta scelta della p.a., ma altresi' la preoccupazione che anche in Italia possa insorgere la pericolosa pratica - che secondo alcuni osservatori avrebbe gia' preso avvio - di assunzione della cocaina per le piu' efficaci ma piu' pericolose vie dell'endovena (che in alcuni casi si e' rivelata mortale) e dell'inalazione dei fumi di combustione (crack). Potrebbe cioe' verificarsi una "conversione" degli "aspiratori" di cocaina che vogliano mantenersi nei limiti del lecito penale, verso queste pericolose metodiche di assunzione, in particolare merce' la trasformazione della dmg di cocaina cloridrato, rinvenibile su un mercato adattatosi alle nuove dimensioni della repressione penale, in cocaina base, utilizzabile per plurime assunzioni di "crack", che attualmente, inteso come preparato pronto per essere "fumato", non e' ancora praticamente rinvenibile sul mercato illecito del nostro Paese. Quanto alla cannabis e derivati, la nota esplicativa (n. 4) informa che la "dose media giornaliera" - fissata nel d.m. in gr 2,5 al 2% di THC per foglie e inflorescenza e in gr 0,5 al 10% di THC per la resina (hashish) - e' stata calcolata "sulla base delle variazioni del contenuto medio di THC presente nei prodotti della cannabis". L'informazione e' idonea a far sapere che si e' tenuto conto del tenore "medio" di tetraidrocannabinolo (THC) presente, rispettivamente nella misura del 2% e del 10%, nella marijuana e nell'hashish. Ma, a parte il valore fittizio di tale "medieta'" (e' noto che il tenore di THC subisce ampie variazioni in relazione al luogo di coltivazione, all'epoca del raccolto, ai tempi e modi di conservazione, ecc.), la nota nulla dice sul perche' si e' ritenuto di determinare in 50mg di THC (gr 2,5 al 2% e gr 0,5 al 10%), equivalenti a 2-3 "spinelli", la "dose media giornaliera" dei prodotti della cannabis. A spiegare le ragioni di tanto rigore - che peraltro contrasta con l'intento legislativo, dichiarato nella citata relazione al Senato (p. 13), di adottare per le droghe leggere "un minor rigore sanzionatorio nei confronti di chi fa occasionalmente uso di sostanze stupefacenti che, di regola, non inducono a dipendenza fisica e psichica" - e' ancora una volta la citata nota 2 luglio 1990 dell'ISS, dove si legge (p. 7): "trattandosi di prodotti utilizzati prevalentemente da gruppi giovanili si e' ritenuto opportuno privilegiare il significato preventivo della normativa, con l'intento di disincentivare anche l'uso sporadico e le prime assunzioni". La commissione dei docenti assume da parte sua (p.5) di essere pervenuta alla determinazione della "dose media giornaliera" - proposta in 30 mg di THC, "corrispondente al contenuto di 1-2 sigarette" - con procedimento analogo a quello seguito per l'eroina, cioe' sulla base dei "dati epidemiologici", che pero' non hanno lasciato traccia nel d.m. n. 186, se e' vero che ad essi le note esplicative, per i prodotti della cannabis, non fanno alcun riferimento (la nota n. 1, relativa ai "dati epidemiologici", riguarda solo gli oppiacei e la cocaina). Anche qui, la querelle (a parti invertite) si spiega con il fatto che, come per la cocaina, anche per la cannabis le fonti di rilevazione (SAT e sequestri di polizia) sono poco eloquenti, giacche' nessun fumatore di canapa si e' mai rivolto ai SAT, dei cui servizi, specie se considerati nella loro concreta realta', non ha alcun bisogno; e d'altra parte, i prodotti della cannabis raramente si rinvengono sul mercato (esposti al sequestro) nelle confezioni pronte per il consumo ("canne", "spinelli"). Ma, a prescindere da tali considerazioni tratte dalla realta', appare per tabulas che anche la dmg del THC e' stata determinata dall'autorita' amministrativa contra legem. In proposito il Consiglio di Stato, dopo aver rilevato in via generale, come si e' ricordato, la non conformita' a legge dei criteri ispirati a finalita' preventive, osserva (p. 4 del citato parere): "per quanto concerne specificamente la tabella II (cannabis, marijuana, hashish), in relazione alla quale il parere dell'ISS espressamente indica di avere utilizzato il criterio della finalita' della disincentivazione, poiche' la quantita' proposta dalla commissione (30 mg THC) e' inferiore a quella indicata nel parere obbligatorio (50 mg THC), e' necessaria una nuova valutazione che prescinda dal criterio finalisico e che per l'effetto potra' condurre ad un aumento o anche ad una conferma della quantita' indicata in decreto". Tale rivalutazione, a quanto risulta, non vi e' poi stata. Ma non sembra che occorra spendere parola per rilevare la patente illegittimita' di una determinazione di natura amministrativa dichiaratamente ispirata non gia' a criteri tecnici, ma a valutazioni di politica criminale che spetta al legislatore (nei limiti della legalita' costituzionale), e non gia' alla p.a., di tradurre in diritto positivo. La violazione dei profili formali dell'atto amministativo, appare tanto piu' grave se si considera che il maggior rigore che ne deriva alla configurazione della fattispecie criminosa, va a colpire un comportamento che, come s'e' visto e come dimostra l'esperienza, non crea alcun problema ne' medico, ne' famigliare, ne' sociale, all'infuori di quello della sua criminalizzazione. Una criminalizzazione che rischia di diventare di massa per i fumatori di cannabis (valutati, come s'e' visto, nell'ordine di qualche milione), se e' vero che sul mercato al minuto dei prodotti della cannabis, ben difficilmente e' possibile acquistare soltanto una quantita' equivalente alla "dose media giornaliera", che non e' praticamente commerciata a causa del suo basso costo (circa 10 mila lire) e quindi del suo irrisorio profitto per lo spacciatore. Sotto questo profilo la scelta rigorista, se raffrontata a quella riguardante l'eroina, diventa ancora piu' irragionevole, ove si consideri che spesso proprio il valore economico distingue nella realta' il consumatore dallo spacciatore, cioe', secondo la irrealizzata volonta' soggettiva del legislatore, la detenzione lecita (quella che non consente profitti mediante lo spaccio) dalla detenzione illecita (quella che li consente). Non appare infine secondario considerare che la criminalizzazione in termini cosi' estesi e rigorosi della detenzione di cannabis a fine di consumo, o dello stesso consumo, appare ancora piu' grave perche' ai fumatori di cannabis non sara' mai applicabile la sospensione prevista dall'art. 90 per "le pene detentive comminate" (recte: irrogate) "per i reati previsti dall'art. 73, quinto comma". La sospensione infatti e' condizionata all'attuazione di un "programma terapeutico e socioriabilitativo" che presuppone una tossicodipendenza nella specie non ipotizzabile, come mostra di rendersi conto lo stesso legislatore. Con particolare riferimento al caso di specie, osserva il collegio che i due imputati sono stati trovati in possesso, mentre erano in macchina con altri due amici, di due confezioni contenenti ciascuna poco piu' di una "dose media giornaliera" di hashish, utili per ricavarne 3-4 "spinelli". Non vi e' in atti priva alcuna di destinazione allo spaccio e, considerata la esigua quantita' della sostanza, e' attendibile che essa fosse destinata al consumo personale dei detentori. E tuttavia i due imputati dovrebbero essere ritenuti colpevoli del reato di cui all'art. 73, atteso che la quantita' di cui sono stati trovati in possesso supera, sia pure di pochi milligrammi, la dmg fissata dalla p.a. La rilevanza della questione di legittimita' costituzionale rimessa alla decisione della Corte e' pertanto del tutto evidente, sia sotto il profilo dell'art. 3 della Costituzione (parita' di trattamento di situazioni disuguali: consumo/spaccio), sia sotto quello della violazione del principio di offensivita' (nullum crimen sine damno) e della riserva di legge (nullum crimen sine lege) in ordine alle fattispecie penali (art. 25 della Costituzione). Sotto quest'ultimo profilo, il collegio dubita che la questione possa essere risolta con la mera disapplicazione dell'illegittimo provvedimento amministrativo della p.a. (il d.m. n. 186) e la determinazione della dmg, in base ai criteri di cui all'art. 78, da parte dello stesso collegio. Tali criteri, infatti, per quanto muniti della forza cogente della legge, non sono in grado di dare consistenza reale ad una entita' in realta' indeterminabile (la "dose media giornaliera"). E pertanto, alla illegittima, ma certa, determinazione di carattere normativo di tale elemento della fattispecie da parte della p.a., si sostituirebbe una altrettanto illegittima, perche' del tutto discrezionale, determinazione da parte del giudice, al cui potere (e non a quello della legge) finirebbe con il risalire la configurazione, caso per caso, della fattispecie punibile, che perderebbe i suoi caratteri di tipicita' e determinatezza. La questione di legittimita' costituzionale per violazione della riserva di legge stabilita nell'art. 25, si riaprirebbe, quindi, sotto il profilo della assoluta indeterminatezza della figura di reato prevista nel coordinato disposto degli artt. 73, 75 e 78. E si ricadrebbe in una situazione di incertezza piu' grave di quella lamentata, sotto il vigore della legge n. 685/1975, in relazione alla "modica quantita'", che secondo il giudizio del nuovo legislatore (v. sul punto la citata relazione al Senato, pp. 8 e 11, nonche' l'intervento del sen. Casoli dell'11 giugno 1990, p. 7 del res. sten.), aveva costituito la causa determinante del fallimento dell'intervento giudiziario sul problema droga. Per le stesse ragioni, a ricondurre il denunciato complesso normativo nell'ambito della legittimita' costituzionale, non basterebbe neppure la dichiarazione di illegittimita' dell'art. 78 nei limiti in cui rimette alla p.a., senza determinazione di criteri, la quantificazione della "dose media giornaliera". Il risultato sarebbe, infatti, pur sempre la rimessione della determinazione di un elemento normativo della fattispecie alla piena discrezionalita' del giudice, che quindi sarebbe investito non solo di poteri di accertamento del fatto, ma anche di un improprio potere costitutivo della fattispecie medesima. La verita' e' che nella materia de qua, la legittimita' costituzionale puo' essere ripristinata solo fissando il discrimine tra consumo (non punibile) e spaccio (punibile) non in base alla finzione della "dose media giornaliera", ma in base alla realta', da accertarsi secondo i criteri propri dell'accertamento giudiziario, basterebbe neppure la dichiarazione di illegittimita' dell'art. 78 nei limiti in cui rimette alla p.a., senza determinazione di criteri, la riquantificazione della "dose media giornaliera". Il risultato sarebbe, infatti, pur sempre la rimessione della determinazione di un elemento normativo della fattispecie alla piena discrezionalita' del giudice, che quindi sarebbe investito non solo di poteri di accertamento del fatto, ma anche di un improprio potere costitutivo della fattispecie medesima. La verita' e' che il discrimine tra consumo (non punibile) e spaccio (punibile) non puo' essere efficacemente determinato, senza violare la Costituzione, ne' in base alla finzione della dmg, ne' in base ad altro criterio quantitativo. Il discrimine basato sulla quantita', infatti, non esce da questa alternativa: se e' fissato con criteri di larghezza, si rivela inutile, perche' si presta ad essere utilizzato come copertura per l'attivita' di spaccio; se e' fissato invece con criteri di rigore, coinvolge inevitabilmente il consumo nella sanzione penale, con violazione dei principi costituzionali. L'unico modo di ricondurre la materia de qua nell'ambito della legalita' costituzionale e', dunque, quello di fondare il discrimine tra il punibile (lo spaccio) e il non punibile (il consumo) non su arbitrarie o inutili equazioni tra quantita' e spaccio, ma sulla realta', da accertarsi secondo i criteri propri dell'accertamento giudiziario, nell'ambito del quale la quantita' di droga detenuta potrebbe costituire, nel concreto contesto del fatto, uno degli elementi di prova. La previsione normativa di cui si denuncia in via principale l'incostituzionalita', e' pertanto quella che fonda il discrimine del penalmente rilevante non sul tipo di condotta (destinazione allo spaccio o al consumo), ma sulla "dose media giornaliera". Tecnicamente il complesso normativo denunciato (artt. 73, 75 e 78) potrebbe ricondursi a conformita' alla Costituzione, mediante l'eliminazione dall'art. 75 dell'inciso "in dose non superiore a quella media giornaliera, determinata in base ai criteri indicati al primo comma dell'art. 78". Quel che occorre, in ogni caso, e' ripristinare il rispetto del principio di eguaglianza (che non consente di riservare al consumo giudizialmente accertato lo stesso trattamento riservato allo spaccio), del principio di necessaria offensivita' (che vieta la punizione dei fatti contro se' stessi o privi di concreta pericolosita' per beni altrui) e del principio di legalita' dei comportamenti punibili (la cui determinatezza non puo' essere sostituita da una certezza illegalmente determinata). Certo, venendo a mancare l'ausilio probatorio costituito dalla (arbitraria) presunzione di spaccio connessa alla eccedenza dalla dmg, la gia' infima percentuale di piccoli spacciatori attualmente perseguiti diminuirebbe ulteriormente. Ma non puo' considerarsi secondario il fatto che ne guadagnerebbe per converso la non punibilita' di altrettanti soggetti che - secondo l'opinione (sia pur normativamente mal tradotta) del legislatore ordinario, secondo il comune sentire di quanti riflettono sul problema droga e, per quanto qui decisamente rileva, secondo la Costituzione - non meritano la sanzione penale. Del resto - se e' consentita in questa sede una riflessione di politica criminale - la flessione della repressione penale del piccolo spaccio non muterebbe i termini generali del contributo che l'intervento giudiziario puo' dare alla risoluzione del problema droga. Gia' oggi, infatti, nonostante il supporto probatorio della dmg, l'area di impunita' del piccolo spaccio e' vastissima e, d'altra parte, sulla ben piu' grave manifestazione criminale costituita dal grande traffico, l'incidenza della repressione penale e', a fronte della imponenza del fenomeno, poco piu' che simbolica. Il fatto e' che la risoluzione di simili problemi non puo' essere affidata in via esclusiva (come accade oggi nella concreta realta'), al processo penale, giacche' esso, per sua natura, come autorevolmente osserva il Consiglio superiore della magistratura (Relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, 1986-1990, in Quaderni del C.S.M., giugno 1990, p. 45), puo' e deve perseguire "non gia' il fenomeno criminale, bensi' i concreti comportamenti criminosi". Il che "pone in luce i limiti del contributo che la giurisdizione penale puo' fornire alla risoluzione dei problemi che hanno radici profonde e diffuse nella struttura della societa'".