Ricorso per conflitto di attribuzioni della regione Emilia-Romagna,
 in  persona  del presidente della giunta regionale pro-tempore Enrico
 Boselli, autorizzato con deliberazione della giunta regionale n.  530
 del 12 marzo 1991, rappresentata e difesa, come da mandato a margine,
 dall'avv.  Giandomenico Falcon di Padova, con domicilio eletto presso
 l'avv. Luigi Manzi, di Roma, via Confalonieri 5, contro il Presidente
 del Consiglio dei Ministri per la dichiarazione che non  spetta  allo
 Stato, ai sensi degli artt. 5 e 117, primo comma, e 118, primo comma,
 della  Costituzione, e della legislazione ordinaria di attuazione (ed
 in particolare degli artt. 2 e 5 del  d.P.R.  6  settembre  1989,  n.
 322), il potere di disciplinare con atto di indirizzo e coordinamento
 l'organizzazione   degli   uffici   regionali   di   statistica,  con
 riferimento quanto disposto dal decreto del Presidente del  Consiglio
 dei  Ministri 10 gennaio 1991 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.
 12 del 15 gennaio 1991), in  relazione  alle  seguenti  disposizioni,
 sotto  i  profili  e per le ragioni specificati nell'illustrazione in
 diritto: art. 1, primo  comma,  secondo  periodo,  e  secondo  comma,
 secondo  periodo,  art.  2, terzo comma, art. 3, art. 5 art. 6, terzo
 comma,  nonche'  di  conseguenza  per  l'annullamento  del   predetto
 decreto,  nelle  specifiche  disposizioni  impugnate,  per violazione
 degli  stessi  articoli  della  Costituzione,  e  della  legislazione
 ordinaria  di  attuazione,  in quanto esso illegittimamente invade le
 prerogative e le competenze costituzionali della regione.
                               F A T T O
    Il decreto legislativo 6 settembre 1989, n.  322,  istitutivo  del
 sistema  statistico  nazionale, prevede che di questo facciano parte,
 tra l'altro, "gli uffici di statistica delle regioni" (art. 2,  primo
 comma).  L'art.  5,  primo  comma, precisa poi che "spetta a ciascuna
 regione..  .. .. istituire con propria legge uffici di statistica": e
 codesta  Corte  costituzionale  ha  avuto  modo  di  precisare  nella
 sentenza  n.  139/1990,  fondamentale  nella materia, che con cio' la
 legge intende affermare che saranno le regioni (e province  autonome)
 a  costituire  tali uffici "in base alle norme regolatrici delle loro
 competenze".
    L'art. 5, secondo  comma,  del  decreto  legislativo  n.  322/1989
 stabilisce  poi  che  "il  Consiglio  dei  Ministri  adotta  atti  di
 indirizzo e coordinamento ai sensi dell'art. 2,  terzo  comma,  lett.
 d),  della  legge  23 agosto 1988, n. 400, per assicurare unicita' di
 indirizzo dell'attivita' statistica di  competenza  delle  regioni  e
 delle  province  autonome".  Questa  disposizione  fu  specificamente
 impugnata  dalla  ricorrente  regione   Emilia-Romagna,   in   quanto
 istitutiva  di  un  potere di indirizzo e coordinamento assolutamente
 generico ed innominato, in contrasto con il  principio  di  legalita'
 (secondo  quanto  sancito  sin  dalla  sentenza  n.  150/1982); ed in
 relazione  a  tale  censura,  codesta  Corte  costituzionale,   nella
 ricordata  sentenza  n.  139/1989,  preciso'  che "la disposizione in
 parola non e' rivolta a istituire un determinato e particolare potere
 di indirizzo e coordinamento", ma che essa si limita a ribadire  "che
 l'esercizio  di  tale funzione governativa esige la deliberazione del
 Consiglio dei Ministri".
    Cionondimeno, con l'impugnato d.P.C.M. 10 gennaio 1991 lo Stato ha
 ritenuto di disciplinare l'organizzazione e l'attivita' degli  uffici
 regionali  di statistica, adottando un determinato e particolare atto
 di indirizzo e coordinamento proprio ed esclusivamente sul fondamento
 normativo di tale art. 5, secondo comma, come emerge con evidenza dal
 preambolo dell'impugnato decreto.
    Nello stesso preambolo, inoltre, si afferma che  "in  tale  senso"
 sarebbe intervenuta "intesa" con i rappresentanti delle regioni. Ora,
 rimandando  all'esame  in  diritto la questione della possibilita' (o
 meglio  dell'impossibilita')  giuridica  di  legittimare   attraverso
 l'intesa  delle  regioni  l'esercizio  di  un  potere  di indirizzo e
 coordinamento  altrimenti  non  legittimato,  e  dei  requisiti   che
 dovrebbero  comunque  richiedersi  all'intesa  a  questo fine, qui va
 semplicemente  osservato  che  nessuna  intesa  e'  in   alcun   modo
 intervenuta  in  relazione  al  contenuto  espresso  nel  d.P.C.M. 10
 gennaio 1991.
    Infatti, se e' vero che la conferenza Stato-regioni  nella  seduta
 del  6  marzo  1990 ha approvato una "Ipotesi di intesa Stato-regioni
 sul Sistema statistico nazionale", e' anche vero che il testo di tale
 intesa (a prescindere dal suo valore giuridico) e' del tutto  diverso
 da quanto stabilito con il d.P.C.M. del 10 gennaio 1991.
    In  queste  condizioni,  l'impugnato decreto si appalesa del tutto
 illegittimo  ed  invasivo  delle  competenze   costituzionali   della
 regione,  ed  in  particolare del potere di organizzazione dei propri
 uffici e di disciplina  della  relativa  attivita':  e  cio'  sia  in
 relazione  a  vizi  che  attengono  all'atto  considerato  nella  sua
 interezza, in quanto emanato nell'assenza dello specifico potere, sia
 in relazione a vizi propri dei singoli  contenuti  di  esso,  secondo
 quanto verra' meglio specificato nella parte in diritto.
    Merita  anche  sottolineare  che la ricorrente regione non difende
 solo  astratte  competenze,  ma  competenze  da  tempo  esercitate  e
 tradotte in un assetto gia' funzionante sia dei servizi di statistica
 regionale,  sia  dei rapporti tra regione ed enti locali, nell'ambito
 del sistema informativo regionale istituito con  legge  regionale  26
 luglio 1988, n. 30, e dai relativi atti attuativi.
                             D I R I T T O
    1.  -  Illegittimita'  costituzionale di tutte le disposizioni del
 d.P.C.M. 10 gennaio 1991 impugnate, in quanto questo e' stato assunto
 in assenza di uno specifico conferimento di potere.
    In primo luogo, tutte le disposizioni impugnate  sono  illegittime
 in  quanto  il  d.P.C.M.  10  gennaio  1991  difetta  di  un  proprio
 fondamento giuridico, e viola  percio'  il  principio  di  legalita',
 secondo  quanto  sancito da codesta Corte costituzionale con sentenza
 n. 150/1982.
    Invero esso afferma di rinvenire il proprio  fondamento  giuridico
 nell'art.  5,  secondo  comma,  del d.lgs. n. 322/1990. Ma si e' gia'
 ricordato che tale disposizione, secondo quanto affermato da  codesta
 Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.  139/1990,  non  ha  altro
 significato che quello di ribadire la competenza  del  Consiglio  dei
 Ministri, con espressa esclusione che essa sia in alcun modo "rivolta
 a  istituire  un  determinato  e  particolare  potere  di indirizzo e
 coordinamento".
    Dunque,  l'impugnato  atto  e'  privo  di   qualunque   fondamento
 giuridico,  ed  e'  percio' nella sua interezza illegittimo, eccezion
 fatta, se si vuole, per  le  parti  nelle  quali  esso  si  limiti  a
 richiamare la disciplina legislativa vigente, senza nessun intento di
 "novarne"  la  fonte:  ma  per  tali  parti  esso  sarebbe, comunque,
 radicalmente inutile.
    La mancanza di fondamento  giuridico  non  viene  attenuata  dalla
 considerazione  che nella stessa citata sentenza n. 139/1989 si parla
 talora di poteri di indirizzo e coordinamento politico-amministrativo
 che "il legislatore statale o il Governo  possono  esercitare,  entro
 determinati  limiti,  nei confronti delle regioni". Tale affermazione
 infatti si limita a riaffermare la possibilita' di principio  che  il
 Governo  sia  investito  di  tali  poteri,  ma  non  elimina certo il
 requisito dell'apposito  conferimento  e  disciplina  legislativa  di
 essi.
    Forse  per  la  consapevolezza  di  tale  mancanza  di  fondamento
 giuridico, l'impugnato  decreto  si  sforza  di  trovare  altrove  il
 proprio  fondamento,  affermando  "che  in  tale senso e' intervenuta
 intesa con i rappresentanti delle regioni".
    Ora, sarebbe qui sufficiente  affermare  che  in  realta'  nessuna
 intesa, che avesse ad oggetto la disciplina approvata con l'impugnato
 decreto,  e'  intervenuta  tra  lo  Stato  e  "rappresentanti"  delle
 regioni, in qualunque modo  legittimati  (almeno  soggettivamente)  a
 concluderla: ed e' semplicemente deplorevole e non certo corretto che
 il  contrario  si  affermi  o si lasci intendere in un atto ufficiale
 dello Stato.
    Ma c'e' di piu': occorre infatti affermare con  chiarezza  che  le
 competenze   costituzionali   delle   regioni  non  sono  liberamente
 disponibili nemmeno da parte delle interessate,  e  che  nemmeno  una
 vera  intesa, che fosse il frutto della volonta' di ciascuna regione,
 espressa  nel  modo  piu'  solenne  e  legittimato  (ad  esempio,  su
 deliberazione del consiglio regionale), potrebbe conferire allo Stato
 un  potere  di  indirizzo  e  coordinamento  che la legge statale non
 prevede.
    Infatti, gli atti di  indirizzo  e  coordinamento  non  sono  atti
 qualsivoglia,   che   manifestano   la   semplice  esistenza  di  una
 concordanza, sin tanto che essa duri, ma corrispondono, nei limiti in
 cui sono previsti e nei modi costituzionalmente ammessi, ad un potere
 proprio e specifico dello Stato, produttivo di caratteristici effetti
 di vincolo, diretto o indiretto, su tutte le potesta'  regionali.  Ed
 e'  ovvio  che nulla di cio' puo' essere creato attraverso presunte o
 anche reali "intese" tra Stato e regioni.
    Cio' non significa che intese - anche intese dotate di un grado di
 formalita' minimo - non possano esistere, e non  possano  anche,  sul
 piano  pratico,  essere  utilissime:  significa  invece  che esse non
 possono incidere sulle competenze costituzionali  ne'  delle  regioni
 ne'  dello  Stato, ma devono rimanere nell'ambito loro proprio di una
 informale concordanza, che opera  efficacemente  quale  strumento  di
 autocoordinamento consensuale.
    Cio'  detto, risulterebbe del tutto inutile da parte statale anche
 un tentativo  -  che  peraltro  non  potrebbe  avere  successo  -  di
 dimostrare   che   una   intesa   fosse   stata   mai  raggiunta  con
 "rappresentanti" regionali, la cui legittimazione rimarrebbe comunque
 del tutto incerta.
    Dunque, le disposizioni impugnative  sono  tutte  illegittime  per
 questo  solo  ed  assorbente  motivo,  che  difettava  al  Governo lo
 specifico potere di assumerle. Ogni altro rilievo ha dunque carattere
 puramente aggiuntivo.
    2. - Illegittimita' dell'art. 3 del d.P.C.M. 10 gennaio 1991,  per
 invasione del potere regionale di organizzazione dei propri uffici.
    L'organizzazione   degli   uffici   regionali   di  statistica  e'
 disciplinata dalle disposizioni dell'art. 3 del d.P.C.M.  10  gennaio
 1991.  Ma  queste  appaiono  illegittime  ed  invasive sotto distinti
 profili.
    In primo luogo, infatti, va sottolineato che - se gia' in generale
 manca ogni  fondamento  giuridico  all'atto  impugnato  -  a  maggior
 ragione  esso  manca  in  relazione  all'organizzazione  degli uffici
 regionali di statistica.
    Infatti, lo stesso art. 5, secondo comma, del d.lgs. n.  322/1990,
 cui  si  richiama l'atto impugnato (benche' vanamente, secondo quanto
 si e' sopra argomentato), si riferisce all'"indirizzo  dell'attivita'
 statistica di competenza delle regioni", che esse svolgono attraverso
 i  propri  uffici  di  statistica, ed in nessun modo ad indirizzi che
 possano riferirsi all'organizzazione degli uffici stessi.
    Non solo, dunque, la  disposizione  ora  detta  non  fonda  nessun
 particolare potere di indirizzo, ma e' a maggior ragione evidente che
 essa   non   fonda   uno   specifico  potere  di  indirizzo  relativo
 all'organizzazione degli uffici di statistica regionale, che  risulta
 anzi implicitamente esclusa.
    Anche sotto questo profilo, dunque, la pretesa di disciplinare con
 atto  governativo  di  indirizzo  e  coordinamento l'"organizzazione"
 degli uffici di statistica,  dettandone,  come  afferma  di  fare  il
 d.P.C.M.  impugnato,  i  "criteri informativi", e' del tutto priva di
 consistenza.
    In secondo luogo, l'art. 3 stabilisce in via amministrativa, senza
 nessun  fondamento  legislativo, "criteri direttivi" che direttamente
 ed esplicitamente si riferiscono alla potesta' legislativa regionale.
 La violazione dell'autonomia legislativa regionale e' palese. E' vero
 che il primo comma dell'art. 3 afferma che le regioni disciplinano la
 materia  "tenendo  conto"  dei  criteri  direttivi  cosi'  stabiliti,
 suggerendo cosi' che esse non sono tenute ad una piena conformazione.
 Senonche',   anche  un  vincolo  generico  ed  indeterminato  sarebbe
 illegittimo, proprio in quanto atipico e lesivo del  principio  della
 certezza  del diritto. Inoltre, la presunta flessibilita' del vincolo
 derivante alle regioni e' poi smentita dal tenore stesso dei criteri,
 che si presentano piuttosto come  una  vera  normativa,  definita  in
 termini perentori, analitici e dettagliati.
    Cosi'  e'  per  la  lett.  a),  secondo  la  quale  "l'ufficio  di
 statistica e' unico ed  e'  posto,  nell'ambito  organizzativo  della
 presidenza  della  giunta  regionale,  alle  dirette  dipendenze  del
 presidente della giunta regionale", mentre "necessita'  organizzative
 e  funzionali possono consentire la costituzione di sezioni operative
 distaccate dell'ufficio di statistica, da questo  dipendenti,  presso
 singole strutture dell'organizzazione regionale".
    Sia  consentito osservare che simili ingerenze nell'organizzazione
 regionale,  e  simili  penetranti  discipline  di  essa  non  trovano
 corrispondenza  in  nessuna  necessita'  di conformita' relativa allo
 specifico settore statistico, e come tali non sono consentite nemmeno
 alla legge ordinaria dello Stato (meno  ancora  ad  un  atto  nemmeno
 fondato sulla legge).
    In  concreto,  poi,  le  esigenze  di coordinamento e razionalita'
 organizzativa possono ben portare le regioni a soluzioni  diverse  da
 quella che verrebbe cosi' imposta.
    Nella  regione  Emilia-Romagna, in particolare, la legge regionale
 n. 30/1988 ha  costituito  (art.  14)  quale  servizio  regionale  il
 servizio  informatico e statistico (che dunque, come tutti i servizi,
 mette capo alla giunta regionale): il che e' del tutto comprensibile,
 se si considera che oggi una parte enorme  dei  dati  statistici  non
 deriva (e non puo' razionalmente derivare) da apposite "rilevazioni",
 ma  ben  piu'  direttamente  dell'informatizzazione  delle  procedure
 gestionali le quali  -  dunque  -  producono  i  dati  come  prodotto
 accessorio  della  normale  routine. Ed e' entro tale servizio che il
 presidente della giunta regionale individua con proprio  decreto  "il
 dirigente  responsabile  della adozione delle procedure per la tutela
 del segreto statitico, della riservatezza dei dati e delle misure che
 assicurano l'acquisizione, vidimazione e trasmissione all'Istat"  dei
 dati  dovuti  (art.  24,  quinto  comma,  della l.r. n. 44/1984, come
 modificato dall'art. 14 della l.r. n. 30/1988).
    Ne' vi e' alcuna ragione per la quale altre unita'  organizzative,
 che  in  altri  servizi  abbiano  ad  occuparsi di dati debbano venir
 concepite quali "sezioni" dell'ufficio  di  statistica,  introducendo
 una formula organizzativa che non ha riscontro nella regione.
    Considerazioni  simili a quelle svolte per la lett. a) valgono per
 la lett. b) dell'art. 3, secondo cui "agli uffici di statistica  deve
 essere   assicurata,   nell'ambito   dell'organizzazione   regionale,
 autonomia organizzativa, tecnica e finanziaria, anche  attraverso  la
 costituzione  di  appositi fondi di bilancio e gestione separata". In
 piu', tale disposizione e' anche espressiva della tendenza, che trova
 riscontro in altre disposizioni dell'impugnato decreto,  a  costruire
 gli  uffici regionali di statistica come solo formalmente incardinati
 nella regione, ma in realta' come strutture  del  tutto  autonome  da
 essa,  e collegate invece verticalmente con l'Istat. Che l'ufficio di
 statistica abbia un ruolo particolare, che discende direttamente  dal
 decreto  legislativo  n. 322/1989, non si nega certo: ma e' del tutto
 illegittima l'imposizione di ulteriori limitazioni in  questo  senso,
 che  non  si  fondino  invece  affatto  sulle  previsioni legislative
 regolative della materia.
    Considerazioni identiche a quelle relative alla lett. a)  richiede
 ancora  il  disposto della lett. c), secondo il quale "all'ufficio di
 statistica e' preposto un funzionario dell'amministrazione regionale,
 nominato dal presidente della giunta regionale.. ..  ..".  Anche  qui
 infatti  e'  evidente  l'ingiustificata  intromissione  negli assetti
 organizzativi regionali.
    Ed anche la altre specificazioni della lett. c), benche' in  larga
 misura corrispondenti ad ovvieta' (che sia nominato un funzionario di
 particolare   competenza,   preferibilmente   laureato   in   scienze
 statistiche, economiche o affini), non hanno alcuna ragione di essere
 imposte dall'esterno alle regioni con un simile atto.
    Particolari considerazioni aggiuntive  richiedono  per  contro  le
 lettere  d)  ed  e),  nelle  quali  il  decreto non solo si ingerisce
 nell'organizzazione dell'ufficio, ma crea addirittura dei  poteri  in
 capo all'Istat.
    Da  una  parte,  infatti,  viene  a  questo riservato il potere di
 determinare  "l'attrezzatura   minima   telefonica,   informatica   e
 telematica  di  ciascun  ufficio",  e  cio'  (si  afferma),  ai sensi
 dell'art. 5, terzo comma,  del  d.lgs.  n.  322/1989.  Ora,  che  una
 particolare  dotazione  tecnica, entro certi limiti uniforme, sia una
 conseguenza di fatto necessaria della stessa interconnessione, e' per
 se' evidente. Tutt'altro pero' e'  trasformare  cio'  in  un  formale
 potere  giuridico di ingerenza dell'Istat, un potere che non e' certo
 compreso in quello di  "rendere  omogenee  le  metodologie"  previsto
 dalla disposizione cui vanamente ci si richiama.
    D'altra  parte,  poi  (lett.  e), viene previsto persino un potere
 dell'Istat di definire  l'articolazione  dell'ufficio  regionale  per
 personale   e   per   sezioni.  Ora,  un  simile  potere  contraddice
 frontalmente  quanto  stabilito  da  codesta  eccellentissima   Corte
 costituzionale  con  la  sentenza  n.  139/1989,  ove era chiaramente
 stabilito che i poteri del comitato di indirizzo, di cui all'art.  21
 del  decreto  n.  322/1989, riguardano "i criteri che presiedono alla
 scelta  e  alle   modalita'   di   applicazione   delle   metodologie
 statistiche"  (punto  7),  e non l'organizzazione degli uffici. Ed e'
 troppo meschino espediente che l'impugnato decreto  si  riferisca  ai
 poteri  previsti  dall'art.  17  del  decreto n. 322/1989, anziche' a
 quelli previsti dall'art. 21: perche' l'art. 21 non fa  che  definire
 nel contenuto i poteri dell'art. 17.
    3.  -  Illegittimita'  dell'art.  5  del d.P.C.M. 10 gennaio 1991,
 secondo, terzo  e  quinto  comma,  per  illegittima  ingerenza  nella
 disciplina delle rilevazioni statistiche di interesse regionale.
    Non  meno  grave e diretta appare la lesione portata all'autonomia
 regionale  dell'art.  5,  il  quale  pretende  di   disciplinare   le
 rilevazioni  statistiche  di interesse regionale, al solo ed evidente
 scopo  di  porre  anche  queste,  in  realta',  sotto  la   direzione
 dell'Istat.
    Si  cominci  dal  primo  e secondo comma: i quali per un verso non
 contengono, nella sostanza, che banali ovvieta' quali  l'affermazione
 che  "i  prodotti  statistici ufficiali dell'ufficio statistica della
 regione  costituiscono  patrimonio  conoscitivo   della   regione   e
 principale  fonte  informativa  della  stessa",  e  che  l'ufficio di
 statistica  della  regione  effettua   "anche"   (l'uso   di   questa
 espressione  e'  gia' di per se' significativo dell'idea degli uffici
 regionali di statistica propria del  decreto  impugnato)  rilevazioni
 statistiche  ed altre indagini di interesse statistico disposte dalla
 regione. Ma tali ovvieta' vengono enunciate solo per far da  supporto
 alla   disposizione  secondo  cui  "nell'esercizio  di  tali  compiti
 l'ufficio si adegua alle metodologie  di  rilevazione  e  trattamento
 dati, alle classificazioni e nomenclature fissate dall'Istat ai sensi
 dell'art. 5, terzo comma, del d.lgs. n. 322/1989".
    Anche tale disposizione contraddice i criteri stabiliti da codesta
 Corte  costituzionale  con la citata sentenza n. 139/1989. Se infatti
 "ciascun  sistema  statistico,  avendo  il  proprio   fondamento   in
 competenze  costituzionalmente  distinte.. .. .. consta di funzioni e
 di procedimenti a se' stanti", ne deve necessariamente  derivare  che
 non  si  puo'  sottrarre  al  livello  regionale,  nell'ambito  delle
 rilevazioni  di  interesse   regionale,   il   potere   di   adeguare
 metodologie,  classificazioni  e  nomenclature  alle  esigenze  dello
 specifico oggetto dell'indagine. In fatto, poi, sono  soprattutto  le
 classificazioni  e  le  nomenclature  stabilite a livello centrale ad
 essere inadatte molto spesso, per eccessiva genericita' ed  ampiezza,
 alle  esigenze di indagini il cui ambito e' piu' ristretto, ed il cui
 oggetto e' piu' specifico.
   Con cio' la ricorrente regione non intende mettere  in  discussione
 l'opportunita'  di una vasta integrabilita' tra i dati appartenenti a
 diversi sistemi locali e i dati del sistema nazionale: essa stessa ha
 anzi sancito e fatto propria fin dal 1988 tale finalita'  nell'ambito
 della  disciplina  del proprio sistema informativo (art. 3, lett. d),
 della l.r. 26 luglio 1988, n.  30).  Ma  altro  e'  condividere  tale
 esigenza,  e  su base volontaria farla propria - con la flessibilita'
 richiesta  dalle  situazioni  specifiche  -   altro   irrigidirla   e
 tramutarla  in  un  generale dovere di subordinazione, in relazione a
 tali oggetti, del livello regionale a quello centrale.
    Egualmente illegittimo e' il secondo comma dell'art. 3, secondo il
 quale "le rilevazioni di cui al secondo comma" (cioe'  sempre  quelle
 di interesse regionale) "devono essere comunicate all'Istat, che puo'
 autorizzare  la regione ad avvalersi, per le rilevazioni stesse anche
 di altri uffici facenti parte del sistema statistico nazionale,  pre-
 via intesa con l'amministrazione interessata".
    Da  una  parte,  viene  posto  a  carico  delle regioni un obbligo
 generale di comunicare all'Istat le proprie rilevazioni, che e'  gia'
 in  se'  inaccettabile.  D'altra  parte,  e  soprattutto,  totalmente
 arbitraria e' la pretesa di sottoporre ad  autorizzazione  dell'Istat
 l'utilizzazione da parte regionale della rete statistica locale.
    L'impugnato  decreto sembra partire da una idea secondo la quel in
 sostanza l'Istat sarebbe una sorta di  "proprietario"  di  tutti  gli
 uffici  statistici  che  secondo l'art. 2, primo comma, del d.lgs. n.
 322/1989 fanno parte del  sistema  statistico  nazionale,  dimodoche'
 tali   uffici   solo   con   l'autorizzazione  dell'Istat  potrebbero
 interagire tra di loro.
    E'  vero  invece  il  contrario,  che  secondo la legge il sistema
 statistico nazionale e' composto da un insieme di uffici che sono  in
 primo  luogo  propri  degli  enti  cui  appartengono. E se cio' nulla
 toglie alla profondita' del loro inserimento  nella  rete  nazionale,
 comporta  pero'  che  essi,  in  tutto  quanto non faccia parte delle
 rilevazioni di interesse nazionale, siano indipendenti  e  liberi  di
 intrattenere tra di loro relazioni di collaborazione.
    A  questa  stregua,  e'  del  tutto  da  escludere  che gli uffici
 statistici regionali, per poter collaborare  con  quelli  degli  enti
 locali, abbiano bisogno di alcuna autorizzazione da parte dell'Istat,
 oltre  che del consenso dell'ente interessato. Cio' per non dire che,
 nelle materie di propria competenza, non si puo' non riconoscere alla
 regione un potere pieno  di  ottenere  anche  dagli  enti  locali  le
 informazioni connesse all'esercizio delle funzioni.
    Egualmente   evidente   poi   e'   il   carattere  invasivo  della
 disposizione  del  quinto  comma  dell'art.  3,  secondo   la   quale
 "l'affidamento   da   parte  della  regione  di  singole  rilevazioni
 statistiche ad organizzazioni  esterne  potra'  avere  luogo,  previa
 comunicazione  all'Istat,  in  casi  del  tutto  eccezionali  e nella
 oggettiva impossibilita'  da  parte  dell'ufficio  di  statistica  di
 provvedere  nei  dovuti  tempi  alla  rilevazione richiesta, anche in
 considerazione dell'assoluta specialita' dell'oggetto".
    Notato che anche in questo caso si  tratta  delle  rilevazioni  di
 interesse  regionale,  non  si  vede  -  a  parte  ogni questione sul
 fondamento del potere - in relazione  a  quale  necessita'  lo  Stato
 debba ingerirsi a disciplinare una materia che non puo' non rientrare
 nella  piena  discrezionalita'  regionale. Il criterio di affidare le
 rilevazioni  allo  stesso  ufficio  regionale  e  solo  in  caso   di
 necessita'   all'esterno   potra'   anche   essere   tenuto  presente
 (d'altronde non solo in questo caso), ma essa  e'  in  ogni  modo  un
 problema  di  organizzazione  del  lavoro regionale, da disciplinarsi
 dalla legge regionale senza vincoli non previsti dalla legge statale.
    4. - Illegittimita' dell'art. 5  del  d.P.C.M.  10  gennaio  1991,
 commi  quarto,  quinto,  secondo  periodo,  e  sesto, per illegittima
 ingerenza nella disciplina della diffusione di dati delle rilevazioni
 statistiche di interesse regionale.
    Specifiche considerazioni richiede quella parte del quinto  comma,
 secondo   la   quale   i   prodotti  delle  rilevazioni  affidate  ad
 organizzazioni  esterne  "non  possono  essere  diffusi   come   tali
 statistici  ufficiali".  Questa  disposizione  si  collega  a  quanto
 disposto dal quarto comma, secondo il quale "la diffusione, come dati
 statistici ufficiali,  dei  prodotti  delle  rilevazioni  di  cui  al
 secondo  comma  puo'  essere  assentita,  su richiesta del presidente
 della giunta regionale, dal responsabilita' dell'ufficio".
    Infatti, le due disposizioni compongono una disciplina  dei  "dati
 statistici ufficiali" che risulta insieme invasiva ed arbitraria.
    Del  tutto illegittima, in primo luogo e sotto piu' profili, e' la
 previsione di un "potere" del responsabile dell'ufficio di statistica
 regionale di "assentire" la diffusione di dati come dati ufficiali, a
 richiesta del presidente della giunta regionale.
    Ovvia  ictu  oculi  e'   l'invasivita'   dell'individuazione   del
 presidente della giunta quale organo competente, essendo evidente che
 tale  competenza  non  puo'  che essere determinata dalla regione, in
 conformita' al proprio statuto ed alle proprie  leggi.  Ma  l'aspetto
 piu'  grave  sta  nel  preteso  potere  di "assenso", che finisce per
 sovraordinare il responsabile  dell'ufficio  statistico  alle  stesse
 autorita'  istituzionali  della  regione:  il  che  corrisponde  alla
 concezione, propria del decreto, dell'ufficio statistico come ufficio
 nella regione, collegato verticalmente con  l'Istat,  piu'  che  come
 ufficio della regione, manon certo alla Costituzione ed alla legge.
    Non  si  nega  certo  che  nessun  dato  puo'  essere  considerato
 "ufficiale" se non e' validato nei modi previsti dall'ordinamento, ed
 in primo luogo attraverso le verifiche dell'ufficio di statistica; ma
 cio' non porta affatto alla costruzione di "potere di assenso", ma al
 contrario al principio che le regioni sono perfettamente  libere  nel
 disporre la diffusione come dati ufficiali dei dati validati.
    Ne'  si  comprende  per  quale  ragione  non  potrebbero acquisire
 carattere di ufficialita' dati  rilevati  con  la  collaborazione  di
 privati.  Cio'  che  conta,  ai  fini  della qualita' del dato, e' la
 disciplina  della  rilevazione,  e   non   il   soggetto   che   solo
 materialmente  la compie: e nella esclude che, come in altri settori,
 i  privati  possano  essere  chiamati  a  collaborare  a  rilevazioni
 ufficiali delle regioni.
    Il  quarto  e  sesto  comma  dell'art.  5  disciplinano  infine la
 "diffusione  all'esterno"  come  "dati  conoscitivi"  di   dati   non
 ufficiali.  Secondo  il  quarto  comma,  in mancanza dell'assenso del
 responsabile dell'ufficio statistico alla divulgazione dei dati quali
 dati ufficiali, questi non possono essere diffusi nemmeno  come  dati
 conoscitivi.  E'  palese  l'irrazionalita' di questa disposizione, in
 virtu' della quale se un dato non e'  ufficiale,  esso  dovrebbe  per
 forza   rimanere   segreto.   In  realta',  qualunque  dato  che  sia
 attendibile puo' valere come dato conoscitivo, purche' all'atto della
 diffusione si dia informazione della provenienza  e  del  valore  non
 ufficiale del dato stesso.
    Secondo  il  sesto  comma,  poi  "l'utilizzazione  da  parte della
 regione di dati  statistici  provvisori,  elaborati  dall'ufficio  di
 statistica,   puo'   essere   consentita   in   via  eccezionale  dal
 responsabile dell'ufficio di statistica",  ma  "tali  dati  non  sono
 considerati  a nessun effetto dati statistici ufficiali e non possono
 essere diffusi all'esterno come dati conoscitivi".
    Ora, a parte che anche  in  questo  caso  il  decreto  prevede  un
 inammissibile   "provvedimento"   del  responsabile  dell'ufficio  di
 statistica, avente come destinatario la regione - secondo la tendenza
 alla cui complessiva illegittimita' e' gia' stata illustrata -  l'uso
 di dati provvisori non ha in realta' nulla di eccezionale, e fa parte
 dei  normali  poteri  delle  regioni  in  relazione  ai  dati da esse
 acquisiti attraverso le proprie rilevazioni.
    Che i dati provvisori non siano dati ufficiali e' del tutto ovvio:
 ma altrettanto e' invece  arbitrario  che  essi  non  possano  essere
 diffusi  come  dati  "conoscitivi".  Vale qui la considerazione fatta
 sopra: dovra' avvertirsi nella  diffusione  che  si  tratta  di  dati
 provvisori  suscettibili  di  verifica, ma cio' posto la responsabile
 decisione sulla loro diffusione non puo'  che  essere  assunta  dagli
 organi regionali, che soli rispondono del loro operato.
    5.  -  Illegittimita'  dell'art. 6, terzo comma, per ingerenza del
 sistema statistico regionale e per violazione dei  principi  generali
 sulla tetula della riservatezza.
    Secondo  l'art.  6,  terzo  comma,  del  decreto impugnato "i dati
 individuali, raccolti  nell'ambito  delle  rilevazioni  di  interesse
 regionale   o   comunque   disposte  dalla  regione,  sono  trasmessi
 all'Istat, su richiesta del presidente dell'Istat, ove sia necessario
 per altre rilevazioni statistiche comprese nel  programma  statistico
 nazionale".
    Ora,   fermo   restando   che,  se  effettivamente  si  tratta  di
 rilevazioni comprese nel programma  statistico  nazionale  tali  dati
 potranno comunque venire rilevati nei modi consentiti, cio' pero' non
 significa  che l'Istat possa legittimamente disporre di un potere, in
 sostanza, di ordinare l'acquisizione dei  dati  gia'  rilevati  dalla
 regione. Osta a cio' in primo luogo la considerazione - gia' espressa
 da  codesta  Corte  costituzionale  nella  sentenza n. 139/1989 - che
 ciascun sistema statistico "consta di funzioni e procedimenti  a  se'
 stanti,  sicche'  non  puo'  pretendersi  in  via  di principio che i
 soggetti del sistema statistico nazionale siano tenuti a scambiare  i
 dati  informativi  iniziali  con  i soggetti di un sistema statistico
 regionale, e viceversa".
    E  se  tale  considerazione  potrebbe  essere  attenuata,  per  le
 rilevazioni   comprese   nel   programma   statistico   nazionale   -
 dall'obbligo di collaborazione e dalla necessita'  di  non  duplicare
 inutilmente  le  procedure, vale tuttavia pur sempre anche per i dati
 raccolti  dalle  regioni  la  necessita'  di  fornire  le   "garanzie
 essenziali  a  tutela  dei  diritti  dei  singoli individui", secondo
 quanto pure sancito dalla piu' volte ricordata sentenza n. 139/1989.
    In  particolare,  non  si  puo'  ammettere  che,  in  assenza   di
 previsioni  di  legge  e  delle relative garanzie, i dati individuali
 nominativi vengano trasmessi al di fuori dell'istituzione che  li  ha
 raccolti,  e  percio'  stesso al di fuori dell'uso per il quale erano
 stati raccolti, ed in vista del quale il cittadino li ha forniti.
    Si tratta qui di quel diritto fondamentale che  nella  letteratura
 specializzata  viene  definito  come diritto alla "autodeterminazione
 informativa"; un diritto che e' stato ufficialmente riconosciuto,  ad
 esempio,  nella Repubblica federale tedesca da una nota decisione del
 Bundesverfassungsgericht  del   15   dicembre   1983,   relativa   al
 censimento,  e  che certo trova almeno implicito riconoscimento anche
 nella Carta costituzionale italiana.
    Certamente tale diritto fondamentale non impedisce al  legislatore
 -  in Italia come in Germania - di disciplinare anche la trasmissione
 di dati tra amministrazioni, e per  scopi  diversi  da  quelli  della
 raccolta  iniziale,  ma  altrettanto  certamente  si  richiede  che a
 disporre cio'  sia,  appunto,  il  legislatore,  e  non  un  atto  di
 indirizzo, oltretutto privo di base legislativa.
    D'altronde,   il   semplice  confronto  con  il  comma  successivo
 dell'art. 6 mostra la iniqua disparita' di trattamento riservata alle
 regioni: dato che nel caso della circolazione in  senso  opposto  (da
 Istat a regioni) le esigenze della tutela della riservatezza si fanno
 subito   imperiose,  nonostante  che  gli  uffici  di  statistica,  a
 qualunque soggetto appartengano,  siano  tutti  soggetti  al  segreto
 d'ufficio allo stesso modo, secondo l'art. 8 del d.lgs. n. 322/1989.
    6.  -  Illegittimita' dell'art. 1, primo comma, secondo periodo, e
 secondo comma, secondo periodo, del d.P.C.M. 10 gennaio 1991.
    Secondo  l'art.  1,  primo  comma, secondo periodo, dell'impugnato
 decreto  gli   uffici   regionali   di   statistica   "sono   l'unico
 interlocutore   del   sistema  statistico  nazionale  per  quanto  di
 pertienza delle rispettive regioni".
    In altre e piu' esplicite parole, l'Istat non  vuole  aver  a  che
 fare  con  gli organi istituzionali della regione, ma vuole "parlare"
 soltanto con gli uffici statistici  regionale,  che  d'altronte  esso
 considera,  secondo  quanto  disposto  dal  decreto, piu' come organi
 collegati con lo stesso Istat che come uffici davvero regionali.
    Ma questa pretesa di aver di fronte solo gli uffici statistici,  e
 non  le  regioni,  non  trova  conforto nell'assetto costituzionale e
 legislativo,  e  comunque  non  puo'   formularsi   in   termini   di
 esclusivita'. A tacer d'altro, sara' pur sempre necessaria una intesa
 con    la   regione   interessata   sulle   modalita'   organizzative
 dell'avvalimento degli uffici regionali da parte dell'Istat, e  sugli
 aspetti  finanziari,  evidentemente importanti, anche se non trattati
 nell'impugnato decreto.
    Con cio' si e' in  parte  illustrata  anche  l'illegittimita'  del
 secondo  comma, secondo periodo, dello stesso articolo, in virtu' del
 quale degli  uffici  regionali  "si  puo'  avvalere  l'Istat  per  le
 rilevazioni  statistiche  interessanti  le  materie  di  attribuzione
 regionale": ove non  risulta  neppure  chiaro  che  tale  avvalimento
 riguarda  pur  sempre,  come  previsto dall'art. 15, terzo comma, del
 d.lgs. n. 322/1989, l'attuazione del programma statistico nazionale.
    Inoltre, come gia' accennato, nel  contesto  della  normativa  del
 d.P.C.M.  sembra quasi che l'Istat direttamente si avvalga e disponga
 degli uffici regionali, senza  un'intesa  con  le  regioni.  Cio'  e'
 chiaro  anche  dal  contrasto  con l'art. 5, terzo comma, del decreto
 impugnato, ove si  scrive  invece  chiaramente  che  l'uso  da  parte
 regionale  di  uffici  di statistica locali richiede la previa intesa
 con le amministrazioni interessate.
    Ne'  si  potrebbe  obbiettare  che  gia'  il  d.lgs.  n.  322/1990
 prevedeva  l'avvalimento  senza accennare all'intesa: perche' in quel
 diverso contesto la  legge  mirava  solo  a  stabilire  il  principio
 dell'avvalimento, senza disciplinarne in concreto le modalita' opera-
 tive.
    In  sostanza,  anche  da  queste  disposizioni  appare  sempre  la
 medesima realta': che il d.P.C.M. concepisce gli uffici regionali  di
 statistica  principalmente  come  uffici collegiali all'Istat, e solo
 per mera costrizione costituzionale inquadrati formalmente presso  le
 regioni (per le quali svolgerebbero "anche" attivita'), anziche' come
 uffici a pieno titolo delle regioni, anche se pienamente inseriti nel
 sistema statistico nazionale.
    7.  - Illegittimita' dell'art. 2, terzo comma, per invasione nella
 disciplina dell'attivita' del consiglio regionale.
    Secondo l'art. 2, terzo comma,  "il  programma  delle  rilevazioni
 statistiche  di  interesse della regione e' adottato ogni anno, entro
 il 31 marzo, dal consiglio regionale o dall'organo competente secondo
 il rispettivo ordinamento".
    E' di  immediata  percezione  l'illegittimita'  nella  pretesa  di
 dettare  al consiglio regionale termini per l'approvazione di atti di
 suo proprio ed esclusivo interesse.
    Si  dira'  che  l'approvazione  del  programma  entro  il  termine
 conviene  alle  regioni  stesse,  che  solo  cosi'  potranno  vederlo
 considerato per l'elaborazione del programma statistico nazionale, ed
 alle  quali  e'  invece  offerta  una  opportunita'  che  il  decreto
 legislativo n. 322/1989 non prevedeva.
    Cio'  e' senz'altro vero, e va ascritto tra i pochi punti positivi
 dell'impugnato decreto (a prescindere dalla sua idoneita'  formale  a
 contenerli)  l'aver  previsto  un  minimo di partecipazione regionale
 alla formazione del programma statistico nazionale (anche se  non  si
 vede  per  quale  ragione  i  programmi  delle regioni debbano essere
 presentati "attraverso il proprio  ufficio  di  statistica",  secondo
 quanto dispone il secondo comma, dell'art. 2).
    Cio'  non toglie pero' che, a tal fine, non era affatto necessario
 entrare a disciplinare l'attivita' del consiglio  regionale,  essendo
 invece  sufficiente  - e tanto piu' semplice - indicare la data entro
 la quale i programmi regionali debbano pervenire all'Istat per essere
 presi in considerazione.