Ricorso per conflitto di attribuzioni della regione Emilia-Romagna, in persona del presidente della giunta regionale pro-tempore Enrico Boselli, autorizzato con deliberazione della giunta regionale n. 530 del 12 marzo 1991, rappresentata e difesa, come da mandato a margine, dall'avv. Giandomenico Falcon di Padova, con domicilio eletto presso l'avv. Luigi Manzi, di Roma, via Confalonieri 5, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri per la dichiarazione che non spetta allo Stato, ai sensi degli artt. 5 e 117, primo comma, e 118, primo comma, della Costituzione, e della legislazione ordinaria di attuazione (ed in particolare degli artt. 2 e 5 del d.P.R. 6 settembre 1989, n. 322), il potere di disciplinare con atto di indirizzo e coordinamento l'organizzazione degli uffici regionali di statistica, con riferimento quanto disposto dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 gennaio 1991 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 12 del 15 gennaio 1991), in relazione alle seguenti disposizioni, sotto i profili e per le ragioni specificati nell'illustrazione in diritto: art. 1, primo comma, secondo periodo, e secondo comma, secondo periodo, art. 2, terzo comma, art. 3, art. 5 art. 6, terzo comma, nonche' di conseguenza per l'annullamento del predetto decreto, nelle specifiche disposizioni impugnate, per violazione degli stessi articoli della Costituzione, e della legislazione ordinaria di attuazione, in quanto esso illegittimamente invade le prerogative e le competenze costituzionali della regione. F A T T O Il decreto legislativo 6 settembre 1989, n. 322, istitutivo del sistema statistico nazionale, prevede che di questo facciano parte, tra l'altro, "gli uffici di statistica delle regioni" (art. 2, primo comma). L'art. 5, primo comma, precisa poi che "spetta a ciascuna regione.. .. .. istituire con propria legge uffici di statistica": e codesta Corte costituzionale ha avuto modo di precisare nella sentenza n. 139/1990, fondamentale nella materia, che con cio' la legge intende affermare che saranno le regioni (e province autonome) a costituire tali uffici "in base alle norme regolatrici delle loro competenze". L'art. 5, secondo comma, del decreto legislativo n. 322/1989 stabilisce poi che "il Consiglio dei Ministri adotta atti di indirizzo e coordinamento ai sensi dell'art. 2, terzo comma, lett. d), della legge 23 agosto 1988, n. 400, per assicurare unicita' di indirizzo dell'attivita' statistica di competenza delle regioni e delle province autonome". Questa disposizione fu specificamente impugnata dalla ricorrente regione Emilia-Romagna, in quanto istitutiva di un potere di indirizzo e coordinamento assolutamente generico ed innominato, in contrasto con il principio di legalita' (secondo quanto sancito sin dalla sentenza n. 150/1982); ed in relazione a tale censura, codesta Corte costituzionale, nella ricordata sentenza n. 139/1989, preciso' che "la disposizione in parola non e' rivolta a istituire un determinato e particolare potere di indirizzo e coordinamento", ma che essa si limita a ribadire "che l'esercizio di tale funzione governativa esige la deliberazione del Consiglio dei Ministri". Cionondimeno, con l'impugnato d.P.C.M. 10 gennaio 1991 lo Stato ha ritenuto di disciplinare l'organizzazione e l'attivita' degli uffici regionali di statistica, adottando un determinato e particolare atto di indirizzo e coordinamento proprio ed esclusivamente sul fondamento normativo di tale art. 5, secondo comma, come emerge con evidenza dal preambolo dell'impugnato decreto. Nello stesso preambolo, inoltre, si afferma che "in tale senso" sarebbe intervenuta "intesa" con i rappresentanti delle regioni. Ora, rimandando all'esame in diritto la questione della possibilita' (o meglio dell'impossibilita') giuridica di legittimare attraverso l'intesa delle regioni l'esercizio di un potere di indirizzo e coordinamento altrimenti non legittimato, e dei requisiti che dovrebbero comunque richiedersi all'intesa a questo fine, qui va semplicemente osservato che nessuna intesa e' in alcun modo intervenuta in relazione al contenuto espresso nel d.P.C.M. 10 gennaio 1991. Infatti, se e' vero che la conferenza Stato-regioni nella seduta del 6 marzo 1990 ha approvato una "Ipotesi di intesa Stato-regioni sul Sistema statistico nazionale", e' anche vero che il testo di tale intesa (a prescindere dal suo valore giuridico) e' del tutto diverso da quanto stabilito con il d.P.C.M. del 10 gennaio 1991. In queste condizioni, l'impugnato decreto si appalesa del tutto illegittimo ed invasivo delle competenze costituzionali della regione, ed in particolare del potere di organizzazione dei propri uffici e di disciplina della relativa attivita': e cio' sia in relazione a vizi che attengono all'atto considerato nella sua interezza, in quanto emanato nell'assenza dello specifico potere, sia in relazione a vizi propri dei singoli contenuti di esso, secondo quanto verra' meglio specificato nella parte in diritto. Merita anche sottolineare che la ricorrente regione non difende solo astratte competenze, ma competenze da tempo esercitate e tradotte in un assetto gia' funzionante sia dei servizi di statistica regionale, sia dei rapporti tra regione ed enti locali, nell'ambito del sistema informativo regionale istituito con legge regionale 26 luglio 1988, n. 30, e dai relativi atti attuativi. D I R I T T O 1. - Illegittimita' costituzionale di tutte le disposizioni del d.P.C.M. 10 gennaio 1991 impugnate, in quanto questo e' stato assunto in assenza di uno specifico conferimento di potere. In primo luogo, tutte le disposizioni impugnate sono illegittime in quanto il d.P.C.M. 10 gennaio 1991 difetta di un proprio fondamento giuridico, e viola percio' il principio di legalita', secondo quanto sancito da codesta Corte costituzionale con sentenza n. 150/1982. Invero esso afferma di rinvenire il proprio fondamento giuridico nell'art. 5, secondo comma, del d.lgs. n. 322/1990. Ma si e' gia' ricordato che tale disposizione, secondo quanto affermato da codesta Corte costituzionale nella sentenza n. 139/1990, non ha altro significato che quello di ribadire la competenza del Consiglio dei Ministri, con espressa esclusione che essa sia in alcun modo "rivolta a istituire un determinato e particolare potere di indirizzo e coordinamento". Dunque, l'impugnato atto e' privo di qualunque fondamento giuridico, ed e' percio' nella sua interezza illegittimo, eccezion fatta, se si vuole, per le parti nelle quali esso si limiti a richiamare la disciplina legislativa vigente, senza nessun intento di "novarne" la fonte: ma per tali parti esso sarebbe, comunque, radicalmente inutile. La mancanza di fondamento giuridico non viene attenuata dalla considerazione che nella stessa citata sentenza n. 139/1989 si parla talora di poteri di indirizzo e coordinamento politico-amministrativo che "il legislatore statale o il Governo possono esercitare, entro determinati limiti, nei confronti delle regioni". Tale affermazione infatti si limita a riaffermare la possibilita' di principio che il Governo sia investito di tali poteri, ma non elimina certo il requisito dell'apposito conferimento e disciplina legislativa di essi. Forse per la consapevolezza di tale mancanza di fondamento giuridico, l'impugnato decreto si sforza di trovare altrove il proprio fondamento, affermando "che in tale senso e' intervenuta intesa con i rappresentanti delle regioni". Ora, sarebbe qui sufficiente affermare che in realta' nessuna intesa, che avesse ad oggetto la disciplina approvata con l'impugnato decreto, e' intervenuta tra lo Stato e "rappresentanti" delle regioni, in qualunque modo legittimati (almeno soggettivamente) a concluderla: ed e' semplicemente deplorevole e non certo corretto che il contrario si affermi o si lasci intendere in un atto ufficiale dello Stato. Ma c'e' di piu': occorre infatti affermare con chiarezza che le competenze costituzionali delle regioni non sono liberamente disponibili nemmeno da parte delle interessate, e che nemmeno una vera intesa, che fosse il frutto della volonta' di ciascuna regione, espressa nel modo piu' solenne e legittimato (ad esempio, su deliberazione del consiglio regionale), potrebbe conferire allo Stato un potere di indirizzo e coordinamento che la legge statale non prevede. Infatti, gli atti di indirizzo e coordinamento non sono atti qualsivoglia, che manifestano la semplice esistenza di una concordanza, sin tanto che essa duri, ma corrispondono, nei limiti in cui sono previsti e nei modi costituzionalmente ammessi, ad un potere proprio e specifico dello Stato, produttivo di caratteristici effetti di vincolo, diretto o indiretto, su tutte le potesta' regionali. Ed e' ovvio che nulla di cio' puo' essere creato attraverso presunte o anche reali "intese" tra Stato e regioni. Cio' non significa che intese - anche intese dotate di un grado di formalita' minimo - non possano esistere, e non possano anche, sul piano pratico, essere utilissime: significa invece che esse non possono incidere sulle competenze costituzionali ne' delle regioni ne' dello Stato, ma devono rimanere nell'ambito loro proprio di una informale concordanza, che opera efficacemente quale strumento di autocoordinamento consensuale. Cio' detto, risulterebbe del tutto inutile da parte statale anche un tentativo - che peraltro non potrebbe avere successo - di dimostrare che una intesa fosse stata mai raggiunta con "rappresentanti" regionali, la cui legittimazione rimarrebbe comunque del tutto incerta. Dunque, le disposizioni impugnative sono tutte illegittime per questo solo ed assorbente motivo, che difettava al Governo lo specifico potere di assumerle. Ogni altro rilievo ha dunque carattere puramente aggiuntivo. 2. - Illegittimita' dell'art. 3 del d.P.C.M. 10 gennaio 1991, per invasione del potere regionale di organizzazione dei propri uffici. L'organizzazione degli uffici regionali di statistica e' disciplinata dalle disposizioni dell'art. 3 del d.P.C.M. 10 gennaio 1991. Ma queste appaiono illegittime ed invasive sotto distinti profili. In primo luogo, infatti, va sottolineato che - se gia' in generale manca ogni fondamento giuridico all'atto impugnato - a maggior ragione esso manca in relazione all'organizzazione degli uffici regionali di statistica. Infatti, lo stesso art. 5, secondo comma, del d.lgs. n. 322/1990, cui si richiama l'atto impugnato (benche' vanamente, secondo quanto si e' sopra argomentato), si riferisce all'"indirizzo dell'attivita' statistica di competenza delle regioni", che esse svolgono attraverso i propri uffici di statistica, ed in nessun modo ad indirizzi che possano riferirsi all'organizzazione degli uffici stessi. Non solo, dunque, la disposizione ora detta non fonda nessun particolare potere di indirizzo, ma e' a maggior ragione evidente che essa non fonda uno specifico potere di indirizzo relativo all'organizzazione degli uffici di statistica regionale, che risulta anzi implicitamente esclusa. Anche sotto questo profilo, dunque, la pretesa di disciplinare con atto governativo di indirizzo e coordinamento l'"organizzazione" degli uffici di statistica, dettandone, come afferma di fare il d.P.C.M. impugnato, i "criteri informativi", e' del tutto priva di consistenza. In secondo luogo, l'art. 3 stabilisce in via amministrativa, senza nessun fondamento legislativo, "criteri direttivi" che direttamente ed esplicitamente si riferiscono alla potesta' legislativa regionale. La violazione dell'autonomia legislativa regionale e' palese. E' vero che il primo comma dell'art. 3 afferma che le regioni disciplinano la materia "tenendo conto" dei criteri direttivi cosi' stabiliti, suggerendo cosi' che esse non sono tenute ad una piena conformazione. Senonche', anche un vincolo generico ed indeterminato sarebbe illegittimo, proprio in quanto atipico e lesivo del principio della certezza del diritto. Inoltre, la presunta flessibilita' del vincolo derivante alle regioni e' poi smentita dal tenore stesso dei criteri, che si presentano piuttosto come una vera normativa, definita in termini perentori, analitici e dettagliati. Cosi' e' per la lett. a), secondo la quale "l'ufficio di statistica e' unico ed e' posto, nell'ambito organizzativo della presidenza della giunta regionale, alle dirette dipendenze del presidente della giunta regionale", mentre "necessita' organizzative e funzionali possono consentire la costituzione di sezioni operative distaccate dell'ufficio di statistica, da questo dipendenti, presso singole strutture dell'organizzazione regionale". Sia consentito osservare che simili ingerenze nell'organizzazione regionale, e simili penetranti discipline di essa non trovano corrispondenza in nessuna necessita' di conformita' relativa allo specifico settore statistico, e come tali non sono consentite nemmeno alla legge ordinaria dello Stato (meno ancora ad un atto nemmeno fondato sulla legge). In concreto, poi, le esigenze di coordinamento e razionalita' organizzativa possono ben portare le regioni a soluzioni diverse da quella che verrebbe cosi' imposta. Nella regione Emilia-Romagna, in particolare, la legge regionale n. 30/1988 ha costituito (art. 14) quale servizio regionale il servizio informatico e statistico (che dunque, come tutti i servizi, mette capo alla giunta regionale): il che e' del tutto comprensibile, se si considera che oggi una parte enorme dei dati statistici non deriva (e non puo' razionalmente derivare) da apposite "rilevazioni", ma ben piu' direttamente dell'informatizzazione delle procedure gestionali le quali - dunque - producono i dati come prodotto accessorio della normale routine. Ed e' entro tale servizio che il presidente della giunta regionale individua con proprio decreto "il dirigente responsabile della adozione delle procedure per la tutela del segreto statitico, della riservatezza dei dati e delle misure che assicurano l'acquisizione, vidimazione e trasmissione all'Istat" dei dati dovuti (art. 24, quinto comma, della l.r. n. 44/1984, come modificato dall'art. 14 della l.r. n. 30/1988). Ne' vi e' alcuna ragione per la quale altre unita' organizzative, che in altri servizi abbiano ad occuparsi di dati debbano venir concepite quali "sezioni" dell'ufficio di statistica, introducendo una formula organizzativa che non ha riscontro nella regione. Considerazioni simili a quelle svolte per la lett. a) valgono per la lett. b) dell'art. 3, secondo cui "agli uffici di statistica deve essere assicurata, nell'ambito dell'organizzazione regionale, autonomia organizzativa, tecnica e finanziaria, anche attraverso la costituzione di appositi fondi di bilancio e gestione separata". In piu', tale disposizione e' anche espressiva della tendenza, che trova riscontro in altre disposizioni dell'impugnato decreto, a costruire gli uffici regionali di statistica come solo formalmente incardinati nella regione, ma in realta' come strutture del tutto autonome da essa, e collegate invece verticalmente con l'Istat. Che l'ufficio di statistica abbia un ruolo particolare, che discende direttamente dal decreto legislativo n. 322/1989, non si nega certo: ma e' del tutto illegittima l'imposizione di ulteriori limitazioni in questo senso, che non si fondino invece affatto sulle previsioni legislative regolative della materia. Considerazioni identiche a quelle relative alla lett. a) richiede ancora il disposto della lett. c), secondo il quale "all'ufficio di statistica e' preposto un funzionario dell'amministrazione regionale, nominato dal presidente della giunta regionale.. .. ..". Anche qui infatti e' evidente l'ingiustificata intromissione negli assetti organizzativi regionali. Ed anche la altre specificazioni della lett. c), benche' in larga misura corrispondenti ad ovvieta' (che sia nominato un funzionario di particolare competenza, preferibilmente laureato in scienze statistiche, economiche o affini), non hanno alcuna ragione di essere imposte dall'esterno alle regioni con un simile atto. Particolari considerazioni aggiuntive richiedono per contro le lettere d) ed e), nelle quali il decreto non solo si ingerisce nell'organizzazione dell'ufficio, ma crea addirittura dei poteri in capo all'Istat. Da una parte, infatti, viene a questo riservato il potere di determinare "l'attrezzatura minima telefonica, informatica e telematica di ciascun ufficio", e cio' (si afferma), ai sensi dell'art. 5, terzo comma, del d.lgs. n. 322/1989. Ora, che una particolare dotazione tecnica, entro certi limiti uniforme, sia una conseguenza di fatto necessaria della stessa interconnessione, e' per se' evidente. Tutt'altro pero' e' trasformare cio' in un formale potere giuridico di ingerenza dell'Istat, un potere che non e' certo compreso in quello di "rendere omogenee le metodologie" previsto dalla disposizione cui vanamente ci si richiama. D'altra parte, poi (lett. e), viene previsto persino un potere dell'Istat di definire l'articolazione dell'ufficio regionale per personale e per sezioni. Ora, un simile potere contraddice frontalmente quanto stabilito da codesta eccellentissima Corte costituzionale con la sentenza n. 139/1989, ove era chiaramente stabilito che i poteri del comitato di indirizzo, di cui all'art. 21 del decreto n. 322/1989, riguardano "i criteri che presiedono alla scelta e alle modalita' di applicazione delle metodologie statistiche" (punto 7), e non l'organizzazione degli uffici. Ed e' troppo meschino espediente che l'impugnato decreto si riferisca ai poteri previsti dall'art. 17 del decreto n. 322/1989, anziche' a quelli previsti dall'art. 21: perche' l'art. 21 non fa che definire nel contenuto i poteri dell'art. 17. 3. - Illegittimita' dell'art. 5 del d.P.C.M. 10 gennaio 1991, secondo, terzo e quinto comma, per illegittima ingerenza nella disciplina delle rilevazioni statistiche di interesse regionale. Non meno grave e diretta appare la lesione portata all'autonomia regionale dell'art. 5, il quale pretende di disciplinare le rilevazioni statistiche di interesse regionale, al solo ed evidente scopo di porre anche queste, in realta', sotto la direzione dell'Istat. Si cominci dal primo e secondo comma: i quali per un verso non contengono, nella sostanza, che banali ovvieta' quali l'affermazione che "i prodotti statistici ufficiali dell'ufficio statistica della regione costituiscono patrimonio conoscitivo della regione e principale fonte informativa della stessa", e che l'ufficio di statistica della regione effettua "anche" (l'uso di questa espressione e' gia' di per se' significativo dell'idea degli uffici regionali di statistica propria del decreto impugnato) rilevazioni statistiche ed altre indagini di interesse statistico disposte dalla regione. Ma tali ovvieta' vengono enunciate solo per far da supporto alla disposizione secondo cui "nell'esercizio di tali compiti l'ufficio si adegua alle metodologie di rilevazione e trattamento dati, alle classificazioni e nomenclature fissate dall'Istat ai sensi dell'art. 5, terzo comma, del d.lgs. n. 322/1989". Anche tale disposizione contraddice i criteri stabiliti da codesta Corte costituzionale con la citata sentenza n. 139/1989. Se infatti "ciascun sistema statistico, avendo il proprio fondamento in competenze costituzionalmente distinte.. .. .. consta di funzioni e di procedimenti a se' stanti", ne deve necessariamente derivare che non si puo' sottrarre al livello regionale, nell'ambito delle rilevazioni di interesse regionale, il potere di adeguare metodologie, classificazioni e nomenclature alle esigenze dello specifico oggetto dell'indagine. In fatto, poi, sono soprattutto le classificazioni e le nomenclature stabilite a livello centrale ad essere inadatte molto spesso, per eccessiva genericita' ed ampiezza, alle esigenze di indagini il cui ambito e' piu' ristretto, ed il cui oggetto e' piu' specifico. Con cio' la ricorrente regione non intende mettere in discussione l'opportunita' di una vasta integrabilita' tra i dati appartenenti a diversi sistemi locali e i dati del sistema nazionale: essa stessa ha anzi sancito e fatto propria fin dal 1988 tale finalita' nell'ambito della disciplina del proprio sistema informativo (art. 3, lett. d), della l.r. 26 luglio 1988, n. 30). Ma altro e' condividere tale esigenza, e su base volontaria farla propria - con la flessibilita' richiesta dalle situazioni specifiche - altro irrigidirla e tramutarla in un generale dovere di subordinazione, in relazione a tali oggetti, del livello regionale a quello centrale. Egualmente illegittimo e' il secondo comma dell'art. 3, secondo il quale "le rilevazioni di cui al secondo comma" (cioe' sempre quelle di interesse regionale) "devono essere comunicate all'Istat, che puo' autorizzare la regione ad avvalersi, per le rilevazioni stesse anche di altri uffici facenti parte del sistema statistico nazionale, pre- via intesa con l'amministrazione interessata". Da una parte, viene posto a carico delle regioni un obbligo generale di comunicare all'Istat le proprie rilevazioni, che e' gia' in se' inaccettabile. D'altra parte, e soprattutto, totalmente arbitraria e' la pretesa di sottoporre ad autorizzazione dell'Istat l'utilizzazione da parte regionale della rete statistica locale. L'impugnato decreto sembra partire da una idea secondo la quel in sostanza l'Istat sarebbe una sorta di "proprietario" di tutti gli uffici statistici che secondo l'art. 2, primo comma, del d.lgs. n. 322/1989 fanno parte del sistema statistico nazionale, dimodoche' tali uffici solo con l'autorizzazione dell'Istat potrebbero interagire tra di loro. E' vero invece il contrario, che secondo la legge il sistema statistico nazionale e' composto da un insieme di uffici che sono in primo luogo propri degli enti cui appartengono. E se cio' nulla toglie alla profondita' del loro inserimento nella rete nazionale, comporta pero' che essi, in tutto quanto non faccia parte delle rilevazioni di interesse nazionale, siano indipendenti e liberi di intrattenere tra di loro relazioni di collaborazione. A questa stregua, e' del tutto da escludere che gli uffici statistici regionali, per poter collaborare con quelli degli enti locali, abbiano bisogno di alcuna autorizzazione da parte dell'Istat, oltre che del consenso dell'ente interessato. Cio' per non dire che, nelle materie di propria competenza, non si puo' non riconoscere alla regione un potere pieno di ottenere anche dagli enti locali le informazioni connesse all'esercizio delle funzioni. Egualmente evidente poi e' il carattere invasivo della disposizione del quinto comma dell'art. 3, secondo la quale "l'affidamento da parte della regione di singole rilevazioni statistiche ad organizzazioni esterne potra' avere luogo, previa comunicazione all'Istat, in casi del tutto eccezionali e nella oggettiva impossibilita' da parte dell'ufficio di statistica di provvedere nei dovuti tempi alla rilevazione richiesta, anche in considerazione dell'assoluta specialita' dell'oggetto". Notato che anche in questo caso si tratta delle rilevazioni di interesse regionale, non si vede - a parte ogni questione sul fondamento del potere - in relazione a quale necessita' lo Stato debba ingerirsi a disciplinare una materia che non puo' non rientrare nella piena discrezionalita' regionale. Il criterio di affidare le rilevazioni allo stesso ufficio regionale e solo in caso di necessita' all'esterno potra' anche essere tenuto presente (d'altronde non solo in questo caso), ma essa e' in ogni modo un problema di organizzazione del lavoro regionale, da disciplinarsi dalla legge regionale senza vincoli non previsti dalla legge statale. 4. - Illegittimita' dell'art. 5 del d.P.C.M. 10 gennaio 1991, commi quarto, quinto, secondo periodo, e sesto, per illegittima ingerenza nella disciplina della diffusione di dati delle rilevazioni statistiche di interesse regionale. Specifiche considerazioni richiede quella parte del quinto comma, secondo la quale i prodotti delle rilevazioni affidate ad organizzazioni esterne "non possono essere diffusi come tali statistici ufficiali". Questa disposizione si collega a quanto disposto dal quarto comma, secondo il quale "la diffusione, come dati statistici ufficiali, dei prodotti delle rilevazioni di cui al secondo comma puo' essere assentita, su richiesta del presidente della giunta regionale, dal responsabilita' dell'ufficio". Infatti, le due disposizioni compongono una disciplina dei "dati statistici ufficiali" che risulta insieme invasiva ed arbitraria. Del tutto illegittima, in primo luogo e sotto piu' profili, e' la previsione di un "potere" del responsabile dell'ufficio di statistica regionale di "assentire" la diffusione di dati come dati ufficiali, a richiesta del presidente della giunta regionale. Ovvia ictu oculi e' l'invasivita' dell'individuazione del presidente della giunta quale organo competente, essendo evidente che tale competenza non puo' che essere determinata dalla regione, in conformita' al proprio statuto ed alle proprie leggi. Ma l'aspetto piu' grave sta nel preteso potere di "assenso", che finisce per sovraordinare il responsabile dell'ufficio statistico alle stesse autorita' istituzionali della regione: il che corrisponde alla concezione, propria del decreto, dell'ufficio statistico come ufficio nella regione, collegato verticalmente con l'Istat, piu' che come ufficio della regione, manon certo alla Costituzione ed alla legge. Non si nega certo che nessun dato puo' essere considerato "ufficiale" se non e' validato nei modi previsti dall'ordinamento, ed in primo luogo attraverso le verifiche dell'ufficio di statistica; ma cio' non porta affatto alla costruzione di "potere di assenso", ma al contrario al principio che le regioni sono perfettamente libere nel disporre la diffusione come dati ufficiali dei dati validati. Ne' si comprende per quale ragione non potrebbero acquisire carattere di ufficialita' dati rilevati con la collaborazione di privati. Cio' che conta, ai fini della qualita' del dato, e' la disciplina della rilevazione, e non il soggetto che solo materialmente la compie: e nella esclude che, come in altri settori, i privati possano essere chiamati a collaborare a rilevazioni ufficiali delle regioni. Il quarto e sesto comma dell'art. 5 disciplinano infine la "diffusione all'esterno" come "dati conoscitivi" di dati non ufficiali. Secondo il quarto comma, in mancanza dell'assenso del responsabile dell'ufficio statistico alla divulgazione dei dati quali dati ufficiali, questi non possono essere diffusi nemmeno come dati conoscitivi. E' palese l'irrazionalita' di questa disposizione, in virtu' della quale se un dato non e' ufficiale, esso dovrebbe per forza rimanere segreto. In realta', qualunque dato che sia attendibile puo' valere come dato conoscitivo, purche' all'atto della diffusione si dia informazione della provenienza e del valore non ufficiale del dato stesso. Secondo il sesto comma, poi "l'utilizzazione da parte della regione di dati statistici provvisori, elaborati dall'ufficio di statistica, puo' essere consentita in via eccezionale dal responsabile dell'ufficio di statistica", ma "tali dati non sono considerati a nessun effetto dati statistici ufficiali e non possono essere diffusi all'esterno come dati conoscitivi". Ora, a parte che anche in questo caso il decreto prevede un inammissibile "provvedimento" del responsabile dell'ufficio di statistica, avente come destinatario la regione - secondo la tendenza alla cui complessiva illegittimita' e' gia' stata illustrata - l'uso di dati provvisori non ha in realta' nulla di eccezionale, e fa parte dei normali poteri delle regioni in relazione ai dati da esse acquisiti attraverso le proprie rilevazioni. Che i dati provvisori non siano dati ufficiali e' del tutto ovvio: ma altrettanto e' invece arbitrario che essi non possano essere diffusi come dati "conoscitivi". Vale qui la considerazione fatta sopra: dovra' avvertirsi nella diffusione che si tratta di dati provvisori suscettibili di verifica, ma cio' posto la responsabile decisione sulla loro diffusione non puo' che essere assunta dagli organi regionali, che soli rispondono del loro operato. 5. - Illegittimita' dell'art. 6, terzo comma, per ingerenza del sistema statistico regionale e per violazione dei principi generali sulla tetula della riservatezza. Secondo l'art. 6, terzo comma, del decreto impugnato "i dati individuali, raccolti nell'ambito delle rilevazioni di interesse regionale o comunque disposte dalla regione, sono trasmessi all'Istat, su richiesta del presidente dell'Istat, ove sia necessario per altre rilevazioni statistiche comprese nel programma statistico nazionale". Ora, fermo restando che, se effettivamente si tratta di rilevazioni comprese nel programma statistico nazionale tali dati potranno comunque venire rilevati nei modi consentiti, cio' pero' non significa che l'Istat possa legittimamente disporre di un potere, in sostanza, di ordinare l'acquisizione dei dati gia' rilevati dalla regione. Osta a cio' in primo luogo la considerazione - gia' espressa da codesta Corte costituzionale nella sentenza n. 139/1989 - che ciascun sistema statistico "consta di funzioni e procedimenti a se' stanti, sicche' non puo' pretendersi in via di principio che i soggetti del sistema statistico nazionale siano tenuti a scambiare i dati informativi iniziali con i soggetti di un sistema statistico regionale, e viceversa". E se tale considerazione potrebbe essere attenuata, per le rilevazioni comprese nel programma statistico nazionale - dall'obbligo di collaborazione e dalla necessita' di non duplicare inutilmente le procedure, vale tuttavia pur sempre anche per i dati raccolti dalle regioni la necessita' di fornire le "garanzie essenziali a tutela dei diritti dei singoli individui", secondo quanto pure sancito dalla piu' volte ricordata sentenza n. 139/1989. In particolare, non si puo' ammettere che, in assenza di previsioni di legge e delle relative garanzie, i dati individuali nominativi vengano trasmessi al di fuori dell'istituzione che li ha raccolti, e percio' stesso al di fuori dell'uso per il quale erano stati raccolti, ed in vista del quale il cittadino li ha forniti. Si tratta qui di quel diritto fondamentale che nella letteratura specializzata viene definito come diritto alla "autodeterminazione informativa"; un diritto che e' stato ufficialmente riconosciuto, ad esempio, nella Repubblica federale tedesca da una nota decisione del Bundesverfassungsgericht del 15 dicembre 1983, relativa al censimento, e che certo trova almeno implicito riconoscimento anche nella Carta costituzionale italiana. Certamente tale diritto fondamentale non impedisce al legislatore - in Italia come in Germania - di disciplinare anche la trasmissione di dati tra amministrazioni, e per scopi diversi da quelli della raccolta iniziale, ma altrettanto certamente si richiede che a disporre cio' sia, appunto, il legislatore, e non un atto di indirizzo, oltretutto privo di base legislativa. D'altronde, il semplice confronto con il comma successivo dell'art. 6 mostra la iniqua disparita' di trattamento riservata alle regioni: dato che nel caso della circolazione in senso opposto (da Istat a regioni) le esigenze della tutela della riservatezza si fanno subito imperiose, nonostante che gli uffici di statistica, a qualunque soggetto appartengano, siano tutti soggetti al segreto d'ufficio allo stesso modo, secondo l'art. 8 del d.lgs. n. 322/1989. 6. - Illegittimita' dell'art. 1, primo comma, secondo periodo, e secondo comma, secondo periodo, del d.P.C.M. 10 gennaio 1991. Secondo l'art. 1, primo comma, secondo periodo, dell'impugnato decreto gli uffici regionali di statistica "sono l'unico interlocutore del sistema statistico nazionale per quanto di pertienza delle rispettive regioni". In altre e piu' esplicite parole, l'Istat non vuole aver a che fare con gli organi istituzionali della regione, ma vuole "parlare" soltanto con gli uffici statistici regionale, che d'altronte esso considera, secondo quanto disposto dal decreto, piu' come organi collegati con lo stesso Istat che come uffici davvero regionali. Ma questa pretesa di aver di fronte solo gli uffici statistici, e non le regioni, non trova conforto nell'assetto costituzionale e legislativo, e comunque non puo' formularsi in termini di esclusivita'. A tacer d'altro, sara' pur sempre necessaria una intesa con la regione interessata sulle modalita' organizzative dell'avvalimento degli uffici regionali da parte dell'Istat, e sugli aspetti finanziari, evidentemente importanti, anche se non trattati nell'impugnato decreto. Con cio' si e' in parte illustrata anche l'illegittimita' del secondo comma, secondo periodo, dello stesso articolo, in virtu' del quale degli uffici regionali "si puo' avvalere l'Istat per le rilevazioni statistiche interessanti le materie di attribuzione regionale": ove non risulta neppure chiaro che tale avvalimento riguarda pur sempre, come previsto dall'art. 15, terzo comma, del d.lgs. n. 322/1989, l'attuazione del programma statistico nazionale. Inoltre, come gia' accennato, nel contesto della normativa del d.P.C.M. sembra quasi che l'Istat direttamente si avvalga e disponga degli uffici regionali, senza un'intesa con le regioni. Cio' e' chiaro anche dal contrasto con l'art. 5, terzo comma, del decreto impugnato, ove si scrive invece chiaramente che l'uso da parte regionale di uffici di statistica locali richiede la previa intesa con le amministrazioni interessate. Ne' si potrebbe obbiettare che gia' il d.lgs. n. 322/1990 prevedeva l'avvalimento senza accennare all'intesa: perche' in quel diverso contesto la legge mirava solo a stabilire il principio dell'avvalimento, senza disciplinarne in concreto le modalita' opera- tive. In sostanza, anche da queste disposizioni appare sempre la medesima realta': che il d.P.C.M. concepisce gli uffici regionali di statistica principalmente come uffici collegiali all'Istat, e solo per mera costrizione costituzionale inquadrati formalmente presso le regioni (per le quali svolgerebbero "anche" attivita'), anziche' come uffici a pieno titolo delle regioni, anche se pienamente inseriti nel sistema statistico nazionale. 7. - Illegittimita' dell'art. 2, terzo comma, per invasione nella disciplina dell'attivita' del consiglio regionale. Secondo l'art. 2, terzo comma, "il programma delle rilevazioni statistiche di interesse della regione e' adottato ogni anno, entro il 31 marzo, dal consiglio regionale o dall'organo competente secondo il rispettivo ordinamento". E' di immediata percezione l'illegittimita' nella pretesa di dettare al consiglio regionale termini per l'approvazione di atti di suo proprio ed esclusivo interesse. Si dira' che l'approvazione del programma entro il termine conviene alle regioni stesse, che solo cosi' potranno vederlo considerato per l'elaborazione del programma statistico nazionale, ed alle quali e' invece offerta una opportunita' che il decreto legislativo n. 322/1989 non prevedeva. Cio' e' senz'altro vero, e va ascritto tra i pochi punti positivi dell'impugnato decreto (a prescindere dalla sua idoneita' formale a contenerli) l'aver previsto un minimo di partecipazione regionale alla formazione del programma statistico nazionale (anche se non si vede per quale ragione i programmi delle regioni debbano essere presentati "attraverso il proprio ufficio di statistica", secondo quanto dispone il secondo comma, dell'art. 2). Cio' non toglie pero' che, a tal fine, non era affatto necessario entrare a disciplinare l'attivita' del consiglio regionale, essendo invece sufficiente - e tanto piu' semplice - indicare la data entro la quale i programmi regionali debbano pervenire all'Istat per essere presi in considerazione.