IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento civile promosso dalla S.C.I. S.p.a. in persona dell'amministratore unico Luigino Giuseppe Beghetto, elettivamente domiciliata in Genova, via Cesarea, 5.16 presso e nello studio dell'avv. Fulvio Marelli che la rappresenta in giudizio, e con la difesa dell'avv. Piero Castellini del foro di Padova, attrice, contro l'Amministrazione delle finanze elettivamente domiciliata in Genova, c/o l'avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege, convenuta. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione notificato il 29 novembre 1985 la S.C.I. S.p.a., corrente in Cittadella (Padova), sulla premessa di aver corrisposto alle dogane di Genova, Imperia e Ventimiglia nel periodo gennaio 1976-dicembre 1976 l'importo complessivo di L. 5.883.580, a titolo di diritti sanitari riscossi all'atto di importazione di merci, riconosciuti illegittimi per effetto di varie pronuncie della Corte costituzionale e della Corte di giustizia delle Comunita' europee nonche' dallo stesso legislatore nazionale (legge 14 novembre 1977, n. 889), conveniva in giudizio dinanzi a questo tribunale il Ministero delle finanze per sentirlo condannare alla restituzione della somma anzidetta, interessi e rivalutazione monetaria. Si costituiva l'amministrazione convenuta formulando ampie riserve al riguardo della legitimatio ad causam e della titolarita' dei crediti vantati in capo all'attrice, cosi' come al riguardo degli asseriti pagamenti, tutti da verificare sulla scorta degli originali delle bollette doganali. Eccepiva la prescrizione decennale di quanto riscosso anteriormente al 29 novembre 1985, l'inammissibilita' della richiesta degli interessi e l'infondatezza della rivalutazione monetaria. Nel merito osservava che doveva presumersi l'avvenuta traslazione dell'imposta sui clienti della societa' importatrice cui comunque incombeva dimostrare di non aver praticato la traslazione anzidetta; traslazione che sarebbe stata di ostacolo al chiesto rimborso che, di fatto, si sarebbe tradotto in un arricchimento senza causa della societa' interessata. In via istruttoria chiedeva disporsi c.t.u. per l'esame delle bollette doganali che parte attrice avrebbe dovuto produrre in originale. In corso di causa le parti si accordavano per far esaminare a mezzo di propri incaricati l'anzidetta documentazione; quindi la causa, sulle conclusioni come sopra trascritte, e' stata trattenuta in decisione all'odierna udienza collegiale. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - Sono noti al collegio i termini della controversia per essere stati piu' volte esaminati e risolti in altre cause consimili. Come e' noto il diritto di visita sanitaria sulle merci importate, previsto nella legislazione interna dal r.d. 27 luglio 1931, n. 1265, successivamente modificato dal d.l.C.P.S. 27 settembre 1947, n. 1099, dalla legge 23 gennaio 1968, n. 30 e dalla legge 30 dicembre 1970, n. 1239, e' venuto all'attenzione della giurisprudenza, nella nuova prospettiva comunitaria, quale tassa di effetto equivalente ai dazi doganali, come tale contrastante con la disciplina dettata dal Trattato di Roma e dai regolamenti volti specificatamente a disciplinare l'organizzazione comune dei mercati dei singoli prodotti. Di questo e' stato consapevole anche il legislatore nazionale il quale, con legge 14 novembre 1979, n. 889, ha finalmente operato l'armonizzazione del diritto italiano con il diritto comunitario abrogando il tributo in tutto l'ambito in cui la preesistente legislazione confliggeva con il divieto posto da specifici atti normativi comunitari (si veda, nel settore delle carni, il regolamento del Consiglio della C.E. 13 giugno 1967, n. 123). In seguito e' stato approvato il d.-l. 30 settembre 1982, n. 688, il cui art. 19 subordinava il diritto degli importatori al rimborso delle somme indebitamente pagate, anche anteriormente all'entrata in vigore di quel decreto, per effetto di tributi contrastanti con l'ordinamento comunitario alla prova documentale - evidentemente a carico dell'importatore - di non aver trasferito in qualsiasi modo il tributo su altri soggetti. E sono noti i gravi problemi sorti in sede di applicazione di tale disposizione, sospettata (a ragione) di contrastare con i principi comunitari affermati da alcune sentenze interpretative della Corte di giustizia delle C.E. Quest'ultima, infatti, ha affermato (v. sentenze 10 luglio 1980, nn. 811 e 826) che nulla impedisce, dal punto di vista comunitario, che i giudici nazionali tengano conto conformemente al loro diritto interno del fatto che tasse indebitamente percepite abbiano potuto essere incorporate nei prezzi dell'impresa assoggettata alla tassa e trasferite sugli acquirenti; ed ha riconosciuto che e' l'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato che designa il giudice competente e stabilisce le modalita' procedurali delle azioni giudiziarie intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi efficacia diretta. Ma ha poi precisato che tali modalita' (e le condizioni cui l'azione di ripetizione e' subordinata) non possono essere meno favorevoli di quelle relative ad analoghe azioni del sistema processuale nazionale ne', in alcun caso, possono essere strutturate in modo da rendere praticamente impossibile l'esercizio dei diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare. Ancora, la stessa Corte - investita della questione in una controversia vertente (non diversamente da quella in esame) sulla ripetizione di oneri fiscali scontati indebitamente dagli importatori su merci soggette al regime del mercato comune (sentenza 9 novembre 1983, n. 199/82) con riferimento all'art. 10 del d.-l. 10 luglio 1982, n. 430, poi decaduto, recante disposizioni sostanzialmente identiche a quelle di cui all'art. 19 anzidetto - ha ribadito che e' incompatibile con il diritto comunitario ogni disposizione legislativa nazionale la quale in punto di presunzioni o di condizioni di prova lasci al contribuente l'onere di dimostrare che i tributi indebitamente versati non sono stati trasferiti su altri soggetti ovvero ponga particolari limitazioni in merito alla prova da fornire come l'esclusione di qualsiasi prova non documentale. E la Corte costituzionale, pur essa investita della questione, con due sentenze (nn. 170/1984 e 113/1985) innovative della sua precedente giurisprudenza circa gli effetti nell'ordinamento interno del conflitto tra norma comunitaria e norma nazionale (considerato per il passato sotto il profilo della incostituzionalita' della norma interna successiva per violazione dell'art. 11 della Costituzione) ha stabilito che, in vista della immediata e diretta applicabilita' sul territorio nazionale delle disposizioni comunitarie la norma interna incompatibile con quella comunitaria non viene in rilievo per la definizione della controversia dinanzi al giudice nazionale, donde il difetto di rilevanza della questione di legittimita' costituzionale salvo che si tratti (ipotesi comunque non ricorrente nel caso in esame) di disposizione diretta ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del trattato istitutivo della C.E.E. in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi. Ed ha altresi' stabilito come il principio secondo cui la norma comunitaria entra e permane in vigore nel nostro territorio senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato vale non soltanto per la disciplina prodotta dagli organi della C.E.E. mediante regolamento ma anche per le statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte di giustizia ed ha quindi dichiarato inammissibili le questioni di costituzionalita' pure in riferimento agli altri parametri diversi dall'art. 11 che erano stati invocati nelle ordinanze di rinvio trattandosi di specie ricadente sotto il disposto del diritto comunitario destinato a ricevere immediata e necessaria applicazione nell'ambito territoriale dello Stato. E' poi noto che, in relazione all'orientamento espresso dalla Corte costituzionale, la Corte di cassazione, procedendo ad un confronto diretto ed autonomo dell'art. 19 del d.-l. anzidetto con i principi comunitari, ne ha constatato l'irrimediabile conflitto. Ha infatti identificato nell'art. 2033 del c.c. la norma generale interna che regola la materia di ripetizioni di indebito in assenza di una disciplina comunitaria, la quale richiede soltanto la prova del pagamento indebito; ed ha constatato come l'art. 19 anzidetto si presenti, invece, con spiccate caratteristiche di specialita' richiedendo che il solvens provi, anche retroattivamente, la non avvenuta traslazione dell'imposta su altri soggetti. L'anzidetta constatazione discriminatoria nei confronti di un diritto di credito che impinge nella materia comunitaria ha, cosi', indotto la s.C. ha riconoscere incompatibile con il diritto comunitario l'art. 19 del d.-l. n. 688/1982 anzidetto (cfr. Cass. 7 aprile 1986, n. 2415). E' saliente rilevare come, sulla scia di tale autorevole orientamento, all'applicabilita' della disciplina dell'art. 2033 del c.c. nell'ipotesi di ripetizione di imposte indebitamente corrisposte da importatori si derivata, per conseguenza, anche la disciplina della prescrizione ordinaria decennale; per cui ad ogni soggetto che abbia indebitamente versato le somme anzidette doveva - e deve tuttora, secondo il collegio - ritenersi assegnato il normale lasso temporale di dieci anni per ripetere le somme versate. Cio' e' stato affermato costantemente sia dalla giurisprudenza della s.C. che di questo stesso tribunale; e cio' sino all'entrata in vigore della legge 29 dicembre 1990, n. 428, e di cui in appresso. 3. - In comparsa conclusionale la difesa erariale ha eccepito per la prima volta la decadenza dell'attrice domanda per effetto dell'art. 29 della legge n. 428/1990 anzidetta, entrata in vigore nelle more processuali pochi mesi prima della presente decisione. Tale disposizione stabilisce, infatti, al primo comma che il termine quinquennale di decadenza previsto dall'art. 91 del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, deve intendersi applicabile a tutte le domande ed azioni esperibili per il rimborso di quanto pagato in relazione ad operazioni doganali. Al secondo comma il medesimo articolo prevede, tra l'altro, che i diritti doganali all'importazione nonche' i diritti erariali riscossi in applicazione di disposizioni nazionali incompatibili con norme comunitarie sono rimborsati a meno che il relativo onere non sia stato trasferito su altri soggetti. Per effetto di tale ultimo comma, pertanto, viene legislativamente risolto, per quanto possa occorrere, il problema del riparto dell'onere probatorio in tema di richiesta di rimborso di somme indebitamente percette al riguardo della traslazione del carico tributario afferente ad un prodotto importato e poi rivenduto, nel senso di attribuire tale onere all'amministrazione convenuta che ne eccepisca l'avvenuto trasferimento. E nel caso di specie a detto onere parte convenuta non risulta aver minimamente assolto poiche' essa si e' semplicemente limitata a supporre, in comparsa di risposta, il riversamento del carico tributario senza fornire la benche' minima dimostrazione di tale supposizione. Ne', poi, puo' condividersi la tesi sviluppata in comparsa conclusionale dalla difesa erariale secondo cui la prova della mancata traslazione graverebbe sempre ed ancora sull'importatore che agisce in ripetizione come condizione dell'azione. Siffatta tesi, infatti, finirebbe per confliggere irrimediabilmente con i principi comunitari precedentemente richiamati in occasione dell'esegesi dell'art. 19 del d.-l. n. 873/1982 del quale non potrebbe che condividere le sorti; e comunque essa non sembra affatto trasparire da una lettura dell'art. 29 della legge n. 428/1990 dal quale, anzi, si ricava il postulato che - come d'altro canto e' canone fondamentale in materia di prova per cui, come spetta all'attore dimostrare i fatti costitutivi della propria pretesa, cosi' incombe al convenuto provare i fatti modificativi ed estintivi della domanda - grava sulla parte che contesti la fondatezza dell'azione in ripetizione la dimostrazione dell'avvenuta traslazione. Cio' precisato deve, cosi', rilevarsi che nessun ostacolo sembrerebbe frapporsi all'accoglimento della domanda se si eccettua, appunto, l'innovativa introduzione da parte del legislatore del termine di "decadenza" quinquennale previsto dall'art. 91 del t.u. delle leggi doganali. Trattasi di una disposizione sulla cui costituzionalita' il collegio e' indotto a dubitare. Va subito osservato che, se e' vero - come e' stato affermato da una giurisprudenza della s.C. ormai consolidata - che l'istituto applicabile al rimborso di imposte doganali indebitamente versate e' la condictio indebiti modellata sullo schema della ripetizione dell'indebito di cui all'art. 2033 del c.c., nessuna decadenza viene comminata in base al diritto comune a carico e a danno del solvens che abbia indebitamente pagato somme delle quali richieda la restituzione all'indebito percettore (come sopra rilevato, infatti, l'unico termine imposto dalla disciplina generale e' quello prescrizionale decennale). Nel caso di specie, invece, il legislatore ha introdotto, tra l'altro nel corso del giudizio, un termine di decadenza per l'esercizio di una azione di indebito nei confronti di un particolare soggetto (lo Stato) rendendo in tal modo deteriore la condizione di colui che agisce in ripetizione verso di esso rispetto a tutti gli altri. Tale atteggiamento discriminatorio non puo' che essere ritenuto contrastante con il principio di uguaglianza stabilito dall'art. 3 della Costituzione poiche' viene a danneggiare un soggetto creditore sol perche' vanta un particolare credito (una imposta doganale indebitamente percetta) verso un particolare debitore (lo Stato, indebito percettore) a differenza di coloro che vantano un credito tout court verso un qualsiasi loro debitore. La disposizione di pone, poi, in contrasto con l'art. 24 della Costituzione perche', imponendo a chi agisce in ripetizione per tali crediti l'osservanza di un termine di decadenza ormai abbondantemente scaduto senza colpa del creditore, rappresenta di fatto una insormontabile preclusione all'esercizio del suo diritto di credito, pregiudicando in tal modo il suo diritto di difesa, costituzionalmente garantito. La questione e' rilevante nel caso in esame perche', se non esistesse la norma di sbarramento sopradenunziata, nessun ostacolo si frapporrebbe all'accoglimento delle attrici pretese; e non appare manifestamente infondata per i motivi di cui innanzi. E', quindi, d'uopo rimettere gli atti al giudizio della Corte costituzionale per la soluzione della questione di costituzionalita' prospettata.