IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di Lanternari Marco, imputato: a) del reato di cui agli artt. 586 e 589 del c.p. perche', mediante vendita di sostanza stupefacente del tipo eroina, cosi' come indicato nel capo C) che segue, cagionava la morte di Pignoloni Tito; b) del reato di cui agli artt. 586 e 590 del c.p. perche', a seguito di vendita di sostanza stupefacente del tipo eroina, cosi' come indicato nel capo C) che segue, cagionava lesioni a Pignoloni Riccardo, consistite nel ridurlo in uno stato di intossicazione acuta da stupefacente, guaribile in giorni due; c) del reato di cui all'art. 71, primo comma, legge n. 685/1975, modificata dalla legge n. 162/1990, per avere venduto a Pignoloni Tito e Pignoloni Riccardo sostanza stupefacente del tipo eroina per la somma di lire 70.000. Fatti tutti commessi in Acilia il 14 luglio 1990. OSSERVA IN FATTO Il 14 luglio 1990 veniva ricoverato in ospedale il giovane Pignoloni Riccardo in stato di intossicazione acuta da eroina; poche ore dopo il Pignoloni Tito, fratello del primo giovane, decedeva a causa di intossicazione acuta da assunzione della medesima sostanza stupefacente (overdose di eroina). A seguito di attivita' di indagini preliminari il g.i.p., su richiesta del p.m. emetteva, il 19 novembre 1990, decreto dispositivo di giudizio nei confronti dell'odierno imputato Lanternari. Apertosi il dibattimento, il p.m. in sede di esposizione introduttiva ex art. 493 del c.p.p. ha rappresentato che il 14 luglio 1990 era stato ricoverato presso il Pronto Soccorso di Acilia tale Pignoloni Riccardo, che si era sentito male dopo l'assunzione di eroina; in particolare, il Pignoloni Riccardo era stato accompagnato dal fratello, Pignoloni Tito, il quale - secondo la esposizione del p.m. - aveva riferito ai Carabinieri che il Riccardo, appunto, si era sentito male dopo aver assunto della eroina, che era stata loro ceduta da certo "medusa"; nel mentre i militari dell'Arma si attivavano per rintracciare detto "medusa", a loro noto ed identificato nel Lanternari Marco, accadeva che il Pignoloni Tito, che aveva assunto anche lui eroina assieme al Riccardo, veniva colto da malore per una gravissima intossicazione da eroina, che lo traeva a morte nelle prime ore della sera; al contrario Pignoloni Riccardo (e cioe' il giovane nel quale per primo si era manifestato lo shock da overdose, secondo l'accusa) si riprendeva e veniva sentito a s.i.t. dai carabinieri prima, poi dal p.m., dichiarando, nella sostanza, che tanto egli quanto il fratello deceduto avevano acquistato, assieme, due dosi di eroina da tale "medusa", dopo di che avevano cominciato ad iniettarsela, iniziando prima lui aiutato dal fratello; dopo l'endovena, pero', egli si era sentito quasi subito male e aveva perso i sensi. Proseguendo nella sua esposizione, il p.m. ha aggiunto che nella stanza dei fratelli erano state sequestrate n. 2 siringhe con avanzi di eroina e che la consulenza tecnica effettuata ex art. 360 del c.p.p. aveva concluso individuando le cause della morte del Pignoloni Tito in una intossicazione acuta da eroina. Passando alla indicazione dei mezzi di prova, il p.m. con specifico riferimento alla prova in ordine all'autore del fatto (cfr. la richiesta di autorizzazione alla citazione) ha ribadito l'indicazione, quali testi, e del Pignoloni Riccardo e degli ufficiali di polizia giudiziaria Santodonato e Coppola, in servizio presso la Stazione cc. di Acilia. Pignoloni Riccardo, indicato dal p.m. quale parte lesa e quale testimone diretto dell'acquisto della sostanza stupefacente e della successiva assunzione da parte sua e del fratello, ha reso le dichiarazioni di cui ai verbali di udienza, il cui contenuto e attendibilita' saranno valutati in sede di decisione. Chiamato a deporre il brigadiere Coppola, e' emerso dalle domande delle parti che costui aveva parlato con il Pignoloni Tito - poi deceduto dopo qualche ora - subito dopo il ricovero del fratello Riccardo e quindi nell'immediatezza del fatto; e' altresi' emerso che di tale esame testimoniale, effettuato ex art. 351 del c.p.p. era stato formato verbale ex art. 357, lettera c), verbale non allegato al fascicolo di ufficio; e' altresi' emerso che l'ufficiale di p.g. aveva espressamente chiesto al Pignoloni Tito chi aveva fornito la droga assunta prima del malore da Pignoloni Riccardo; risulta inoltre che dopo tali informative, i militari si erano posti alla ricerca del Lanternari Marco, loro noto con il soprannome "medusa". Allorche' il brigadiere Coppola e' stato sul punto di riferire il contenuto delle dichiarazioni rese dal Pignoloni Tito - poco dopo deceduto e quindi non esaminato dal p.m. ne', ovviamente, esaminabile dal Tribunale - la difesa dell'imputato ha eccepito il divieto di deposizione de relato ex art. 195, n. 4 del c.p.; allorche' il p.m. ha chiesto l'allegazione al fascicolo di ufficio del verbale di esame del Pignoloni Tito, sentito ex art. 351 del c.p.p. e verbalizzato ex art. 357, lett. c), quale atto irripetibile - essendo sopravvenuta la morte del teste - giusta il disposto dell'art. 431, lett. b), la difesa si e' opposta, eccependo che a norma dell'art. 512 del c.p.p. puo' farsi luogo a lettura solo degli atti compiuti dal p.m. (o dal giudice), allorche' gli stessi siano divenuti irripetibili, ed eccependo altresi' che dei verbali redatti ex art. 357, lett. c) e' consentita l'allegazione al fascicolo solo dopo che gli stessi sono stati utilizzati per le contestazioni, ex art. 500, quarto comma del c.p.p. e poiche', nella specie, essendo deceduto il Pignoloni Tito, ovviamente non vi era stato ne' esame ne' contestazioni, il verbale redatto ex art. 357, lett. c) dal brigadiere Coppola, nell'immediatezza del fatto e poche ore prima della morte della parte lesa e teste, non poteva trovare ingresso ne' utilizzazione processuale. Ammesso l'esame di altri due carabinieri, che avrebbero ricevuto dichiarazioni di Tito Pignoloni in ordine all'acquisto dello stupefacente, sono state prospettate analoghe opposizioni alle loro disposizioni su dichiarazioni ricevute dal defunto. RILEVA IN DIRITTO Tanto premesso sulla situazione processual-probatoria, va sottolineata la evidente rilevanza, ai fini della valutazione della fondatezza della pretesa punitiva, del contenuto delle dichiarazioni rese dal Pignoloni Tito, nella immediatezza dell'assunzione della sostanza stupefacente e poche ore prima di morire. Appare al Collegio la non manifesta infondatezza del dubbio sulla legittimita' costituzionale del congegno normativo voluto dal legislatore delegato (articoli 195 n. 4, 500 n. 4 e 512 del c.p.p.) in attuazione della direttiva n. 31 dell'art. 2, legge delega, nella parte in cui tale congegno impedisce, comunque e sotto ogni aspetto, l'utilizzazione delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, nella immediatezza del fatto e sul luogo, dalla persona offesa o dal testimone diretto di un delitto, nonostante la sopravvenuta irripetibilita' in sede dibattimentale di tali dichiarazioni per la morte del dichiarante. Tale congegno normativo e' cosi' articolato: 1) divieto (art. 195 n. 4 del c.p.p.) assoluto per il testimone- ufficiale o agente di polizia giudiziaria di deporre sulle dichiarazioni ricevute; 2) divieto di lettura del verbale redatto ex art. 357, lett. c), nonostante la sopravvenuta irripetibilita' delle dichiarazioni (art. 512 del c.p.p.) consentendosi solo la lettura degli atti divenuti irripetibili - assunti dal p.m. o dal giudice; nonche' 3) divieto (art. 500 n. 4 del c.p.p.) di acquisizione al fascicolo processuale dei verbali ex art. 357, lett. c) ove non siano stati utilizzati per le contestazioni, e cio' anche quando la contestazione non e' piu' possibile perche' l'esame stesso non e' piu' effettuabile. Tale congegno di sbarramento in primo luogo appare violare il principio di ragionevolezza e di eguaglianza a pari dignita' sociale dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3 della Costituzione) in quanto discrimina i cittadini chiamati a testimoniare. Invero, viene vietato, senza alcuna concreta e ragionevole giustificazione, al teste che sia anche appartenente alla polizia giudiziaria cio' che invece viene consentito al teste non qualificato. Infatti, l'art. 195, n. 3 del c.p.p. consente la c.d. testimonianza indiretta, qualora la "fonte" non sia piu' esaminabile per morte, infermita' o irreperibilita'. Tale deroga, pero', vale solo per i testimoni "comuni", ma non per gli appartenenti alla polizia giudiziaria, per i quali, invece, e' riservato il divieto categorico di cui al successivo n. 4 del medesimo articolo. E che tale divieto copra anche la deroga di cui al precedente n. 3 risulta per l'interprete indiscutibile, atteso il perentorio periodare della norma in questione, del resto pedissequamente ossequiente all'altrettanto perentorio divieto formulato dalla direttiva n. 31 dell'art. 2 della legge delega. Tale diversita' di trattamento (oltre che incidere nella pratica giudiziaria quotidiana, assai gravemente sulla effettivita' della giurisdizione penale in situazioni particolari, ma frequenti) sembra realizzare una vera e propria discriminazione, irrazionale, perche' non rispondente ad alcuna concreta situazione personale differenziale tra i soggetti chiamati a deporre, a meno che non si voglia sostenere apertis verbis che se il cittadino testimone e' anche appartenente alla polizia giudiziaria, allora diviene in se' inattendibile o comunque meno attendibile degli altri cittadini. Atteso che certamente non e' dato rinvenire tra i principi generali dell'ordinamento giuridico positivo una presupposizione generale di sfiducia nelle attivita' o comportamenti dei pubblici funzionari appartenenti alla polizia giudiziaria, sembrerebbe tangibile l'arbitrarieta' immotivata della scelta del legislatore che sta a monte della discriminazione in esame. Ed infatti, una volta che, stabilira' il divieto della testimonianza de relato, si e' poi, giustamente e per ovvie considerazioni di realismo, derogato a tale divieto ove il teste primario sia poi deceduto o irreperibile, non ha alcuna razionale giustificazione la discriminazione che si e' voluta porre verso i cittadini appartenenti alla polizia giudiziaria, soltanto per i quali la predetta deroga non viene consentita, essendo sancito il perentorio divieto ex art. 195 n. 4 del c.p.p. I profili di dubbia costituzionalita' del divieto in parola, nei casi di cui si discute, non sembrano limitarsi solo all'art. 3 della Costituzione. Sembra infatti al collegio che il divieto ex art. 194 n. 5 nelle ipotesi di successiva impossibilita' di esaminare il teste primario offenda anche l'art. 24 della Costituzione, comprimendo i diritti di difesa della parte civile e vulnerando in ogni caso la parita' tra accusa, pubblica o privata, e difesa dell'imputato. Invero, si provoca, attraverso il divieto de quo, una compromissione, grave e sostanziale, del diritto alla prova del p.m. e della parte civile. Infatti e' chiara la disparita' di posizione nella quale si trovano tali parti processuali, sotto l'aspetto del diritto alla prova relativa alla pretesa di cui sono portatori, in tutti quei casi in cui, a seguito del fatto successivo ed imprevedibile della morte della parte lesa e/o testimone in immediato (come nella specie), le dichiarazioni da costoro rese per esigenze di giustizia possono entrare o meno nel processo - ed eventualmente giocare un ruolo probatorio piu' o meno decisivo ai fini della affermazione della pretesa punitiva o della domanda di risarcimento del danno - a seconda che tali dichiarazioni in immediato siano state recepite da un comune cittadino ovvero da un appartenente alla polizia giudiziaria. Poiche' gli appartenenti alla polizia giudiziaria, proprio per il loro dovere di ricevere informazioni utili all'accertamento del reato e alla individuazione dei responsabili, sono normalmente e per cosi' dire funzionalmente i testi della accusa pubblica e anche di quella privata, sembra palese la discriminazione, quanto al diritto alla prova tra le parti del processo, in violazione dell'art. 24 della Costituzione e quale conseguenza immediata del divieto ad personam di cui all'art. 195 n. 4 del c.p.p. Inoltre, ritiene il collegio che il perentorio divieto ex art. 195 n. 4 del c.p.p. riverberi la propria incostituzionale irrazionalita' anche sugli artt. 500 n. 4 e 512 del c.p.p. Infatti i divieti posti da tali ultime norme si sommano con quello di cui al piu' volte citato art. 195 n. 4 e tutti insieme finiscono per formare uno sbarramento assoluto alla utilizzazione processuale proprio di quelle dichiarazioni che, per essere state rese nella immediatezza (a "sorpresa") vengono guardate con piu' favore dal legislatore perche' ritenute, giustamente, piu' attendibili, rispetto alle altre sommarie informazioni testimoniali, tanto che la legge solo alle prime, anche se raccolte dalla polizia giudiziaria, consente "l'ingresso" nel fascicolo processuale, mediante l'acquisizione del verbale ex art. 357 lettera c), secondo le modalita' di cui all'art. 500 n. 4 del c.p.p. Orbene, qualora il teste esaminato nella immediatezza e sul luogo sia deceduto o divenga irreperibile, si verifica, per il denunciato congegno normativo, la irrimediabile "perdita" processuale proprio di queste piu' utili e attendibili dichiarazioni, dal momento che (oltre al divieto ex art. 195 n. 4) il verbale redatto ex art. 357, lettera c), non puo' essere acquisito ex art. 500, n. 4, in quanto manca l'esame del teste con le relative contestazioni, e in quanto l'art. 512 del c.p.p. non consente, nell'attuale formulazione, la lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, quando per fatti o circostanze imprevedibili - e tale e' certamente la morte del teste assunto ex art. 357, lettera c) - ne e' divenuta impossibile la ripetizione. Poiche', nelle ipotesi citate, tali dichiarazioni sono state raccolte da un agente o ufficiale di polizia giudiziaria, per il quale vige anche il divieto ad personam di cui al citato art. 195, n. 4 e percio' non e' nemmeno ammessa la testimonianza, finisce per accadere - e assai sovente accade - che proprio le predette dichiarazioni "a sorpresa", spesse le uniche raccolte e raccoglibili, vanno perdute per sempre. Sembra percio' chiara l'influenza complementare delle norme indicate, i cui divieti si assommano e producono il risultato illustrato. Tale risultato suscita seri dubbi di legittimita' costituzionale anche per gli articoli 500, n. 4 e 512 del c.p.p. sempre sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza (art. 3) e del diritto alla difesa (art. 24, primo e secondo comma della Costituzione) ma anche sotto il profilo della violazione di un principio di costituzione materiale sotteso dagli artt. 24 e 112 della Costituzione e che puo' sinteticamente essere riassunto come l'esigenza fondamentale dello Stato - cui corrispondono legittime aspettative dei cittadini - di assicurare l'effettivo e concreto esercizio della giurisdizione penale. Il legislatore, riconoscendone la insopprimibilita' ai fini di un realistico svolgimento della istruttoria processuale, ha previsto la possibilita' di utilizzare atti divenuti irripetibili, anche prescindendo dall'esame incrociato dei soggetti le cui dichiarazioni sono riportate negli atti medesimi, derogando per necessita' razionale al c.d. "metodo orale" di cui alla direttiva n. 2 dell'art. 2 della legge delega (vedi artt. 511, n. 2; 512; 431, lett. b). Il legislatore, sempre in vista delle inderogabili necessita' con- crete di cui sopra, ha addirittura consentito la testimonianza de relato, ove il teste "primario" sia non piu' ascoltabile. Da cio' consegue che si e' voluto prevedere e saggiamente evitare che le evenienze imprevedibili della vita conducessero a sbarramenti processuali generatori di una vera e propria denegazione di giustizia. Se e' cosi', appare evidente la assoluta incongruita' e irrazionalita' della scelta legislativa di tagliare fuori dal processo tutte le dichiarazioni in questione in quei casi in cui tali dichiarazioni, rese nell'immediatezza e sul luogo, sono state raccolte non da un qualunque passante, ma sono state ricevute e legittimamente conservate dalla polizia giudiziaria, organo dello Stato cui incombe l'obbligo, penalmente sanzionato, di raccogliere ogni elemento utile per la ricostruzione del fatto e la individuazione del colpevole. E cosi' (il caso si e' gia' verificato e analoghi episodi quotidianamente accadono e frustrano la domanda di giustizia con violazione dell'art. 2 della Costituzione) ove il moribondo, vittima di un delitto, sia soccorso non da un privato cittadino, che puo' deporre de relato, ma da un appartenente alla polizia giudiziaria, sara' doppiamente colpito dalla sorte perche' il combinato disposto dagli artt. 195, n. 4; 500, n. 4 e 512 del c.p.p. non consentira' che le utili e sovente uniche dichiarazioni raccoglibili possano avere uno sbocco processuale; compromettendo cosi', a parere del Collegio, in modo spesso irreparabile l'esercizio della giurisdizione penale, in diretta conseguenza di una irrazionale e contraddittoria oltre che discriminante, scelta del legislatore. Rilevante appare inoltre, una ulteriore considerazione, l'applicazione del congegno normativo teste' illustrato conduce ad un condizionamento, razionalmente ingiustificato, dello stesso esercizio della funzione giurisdizionale anche sotto il profilo dell'art. 111, primo comma, della Costituzione, in quanto il divieto di assumere e valutare le disposizioni di cittadini al corrente di fatti rilevanti ai fini della decisione, comporta l'impossibilita' di una corretta ed adeguata motivazione in violazione del citato art. 111. Le considerazioni che precedono inducono a sollevare ex officio la questione di legittimita' costituzionale degli articoli 195, n. 4; 500, n. 4 e 512 del c.p.p. nonche' dell'art. 2, n. 31 della legge 16 febbraio 1987, n. 81, in relazione agli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 111 e 112 della Costituzione, nei sensi e termini in precedenza denunciati.