LA CORTE DI ASSISE D'APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza. F A T T O Pietro Ragagnin, imputato di uxoricidio aggravato dalla premeditazione, commesso il 21 aprile 1990, il 31 ottobre 1990 e' stato giudicato con rito abbreviato dal giudice dell'udienza preliminare presso il tribunale di Pordenone e condannato alla pena di 30 anni di reclusione. Quel giudice gli ha negato le attenuanti generiche ed inflitto anche le pene accessorie dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, della decadenza dalla sua potesta' di genitore e della pubblicazione della sentenza di condanna, oltre a condannarlo al risarcimento dei danni verso le figlie minori ed il suocero, parti civili nel processo. Proposto appello, il Raganin - detenuto a Padova - ha reso al giudice di sorveglianza dichiarazione agli atti, seguita da un suo scritto difensivo. Con la convocazione delle Parti ai sensi dell'art. 127 del c.p.p. non venne disposta la sua traduzione a Trieste per l'udienza in camera di consiglio; ha tuttavia chiesto di presenziare, come da istanza che la direzione della casa circondariale di Padova ha fatto pervenire tempestivamente a questa Corte. Nell'udienza camerale, prima della relazione, i difensori delle parti private hanno mosso eccezione di legittimita' costituzionale degli artt. 127, terzo e quarto comma, 599, secondo c.p.p. in rapporto agli artt. 3, 24 della Costituzione giacche' sarebbe violato il principio di uguaglianza ed il diritto di difesa dell'imputato che, per essere detenuto in luogo non compreso nella circoscrizione del giudice, ha soltanto diritto di essere sentito dal giudice di sorveglianza del luogo anziche' quello di essere presente nell'udienza davanti al giudice dell'appello e di fare in camera di consiglio le dichiarazioni che ritiene opportune a sua difesa. Il procuratore generale si e' associato al rilievo di incostituzionalita'. D I R I T T O Le norme di cui si tratta disciplinano in vario modo gli effetti del mancato intervento delle parti in camera di consiglio. Premesso che, in generale, la presenza in udienza dei destinatari dell'avviso non e' necessaria (art. 127/3) ed essi possono presentare memorie (art. 127/2), l'assenza dell'imputato (o del condannato) impone il rinvio dell'udienza se abbia chiesto di essere sentito personalmente e sussista un suo legittimo impedimento (art. 127/4). Tuttavia tale rinvio e' consentito soltanto se egli, detenuto o internato, non si trovi in un luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice. Con riguardo al giudizio di appello le disposizioni predette trovano applicazione in virtu' del richiamo di cui all'art. 599/1 del c.p.p. nondimeno (secondo comma) "l'udienza e' rinviata se sussiste un legittimo impedimento dell'imputato che ha manifestato la volonta' di comparire". Il confronto fra le due norme rende gia' manifesta una diversita': nella prima si e' tenuto conto della richiesta dell'imputato di "essere sentito personalmente", nella seconda ha rilievo la manifestata "volonta' di comparire", sufficiente a far rinviare l'udienza in caso di legittimo impedimento. Ma la distinzione in realta' non ha pratico effetto in quanto, se compare, l'imputato deve essere sentito (art. 127/3). Si sa che il diverso trattamento fra l'imputato detenuto nel luogo in cui ha sede il giudice e quello detenuto altrove era stato rilevato a proposito dell'art. 630 del c.p.p. abr. (procedimento per gli incidenti di esecuzione) e che la Corte costituzionale si pronuncio' per l'infondatezza della questione di legittimita' costituzionale (sentenze n. 5/1970 e n. 208/1972). In seguito la Corte corresse il proprio giudizio e con sentenza 7/20 maggio 1982 n. 98 dichiaro' l'illegittimita' costituzionale dell'art. 630 secondo comma del c.p.p. "nella parte in cui non prevede il rinvio della trattazione dell'incidente di esecuzione ove l'imputato o il condannato, che abbia fatto domanda di essere udito personalmente, non compaia per legittimo impedimento". Di tale ultima sentenza della Corte costituzionale ha tenuto conto il legislatore del nuovo codice con la norma dell'art. 599/2 del c.p.p. (v. relazione in Gazzetta Ufficiale n. 93/1988 pag. 131). Tuttavia il richiamo al legittimo impedimento non appare comprensivo del caso in cui l'imputato sia detenuto, in quanto disciplinato esaurientemente dall'art. 127, terzo e quarto comma del c.p.p. di cui lo stesso art. 599/1 prevede l'applicazione. In contrario si potrebbe osservare come la formulazione dell'art. 599/2, che ricalca quella dell'art. 127/4 ma senza le limitazioni che questo contempla, sarebbe pleonastica se la norma non si intendesse nel senso che nella procedura camerale in appello qualsiasi impedimento legittimo valga ad imporre un rinvio dell'udienza, dunque anche quello costituito dalla detenzione in luogo diverso. Tale interpretazione, tuttavia, non si puo' condividere in quanto, nel coesistere dell'applicazione di ambo le norme nell'art. 599, si deve tener conto della specialita' dell'impedimento a carico dell'imputato detenuto, diverso da qualsiasi altro e disciplinato in modo autonomo in forza dell'esigenza di speditezza cui e' ispirata la procedura camerale. Scartata, quindi, la possibilita' di interpretare l'art. 599/2 c.p.p. nel senso esposto, la Corte rileva che la questione posta dalle Parti private e' rilevante e non manifestamente infondata. La presenza dell'imputato attiene al suo diritto di difendersi anche con le sue dichiarazioni, oltre che con la difesa tecnica. Il fatto che egli non fosse stato tradotto in udienza e che se ne fossero acquisite soltanto le dichiarazioni riportate nel verbale del giudice di sorveglianza e' rilevante ai fini della decisione con riguardo non solo al diritto di difesa in se' ma pure alla particolare composizione del collegio giuidicante, costituito anche da giudici non professionisti con possibile maggiore influenza dell'autodifesa sul formarsi del loro convincimento. Le norme denunciate si presentano in contrasto con quelle di cui agli artt. 3, 24 della Costituzione. Infatti contrasta con il principio di eguaglianza la citata disciplina dell'art. 127/3 e 4 del c.p.p. in quanto prevede diversita' di trattamento fra imputati che siano detenuti in luogo diverso da quello dove ha sede il giudice oppure nello stesso luogo. Nel primo caso sono sentiti dal giudice di sorveglianza, nel secondo dallo stesso giudice del fatto per il quale sono accusati. La disparita' di trattamento, se ispirata da esigenze di speditezza, viola il principio di uguaglianza e non e' neppure sostenuta da ragionevolezza. Infatti la traduzione di imputati detenuti oramai poco intralcia il regolare corso dei processi, e' sempre possibile ed e' regolarmente eseguita nei processi ordinari. In piu' il diverso luogo nel quale l'imputato e' detenuto dipende da provvedimenti discrezionali dell'amministrazione penitenziaria, alle volte sorretti da oggettive esigenze di distribuzione dei detenuti fra i vari istituti di detenzione, ma in sostanza sottratti a verifica. Il contrasto delle citate norme si pone anche con l'art. 24 della Costituzione in quanto la loro applicazione pregiudica il diritto inviolabile dell'imputato di difendersi, con l'impedirgli di essere presente nell'udienza davanti al giudice e confiscandogli la possibilita' di esprimere direttamente davanti a lui le sue difese orali (v. Corte costituzionale n. 98/1982 cit.). Pertanto il processo deve essere sospeso e la questione rimessa al giudizio della Corte costituzionale.