ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  443,  quarto
 comma,  del codice di procedura penale, con riferimento agli artt. 76
 e 77 della Costituzione e in relazione agli artt. 1 e 2, comma primo,
 primo inciso e numeri 53 e 93 della legge 16  febbraio  1987,  n.  81
 (Delega al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice
 di procedura penale), promossi con le seguenti ordinanze:
      1) ordinanza emessa il 25 ottobre 1990 dalla Corte di Appello di
 Catanzaro  nel  procedimento  penale  a  carico  di De Domenico Mario
 iscritta al n. 751 del registro ordinanze  1990  e  pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  1,  prima serie speciale,
 dell'anno 1991;
      2) ordinanza emessa il 16 novembre 1990 dalla Corte  di  Appello
 di  Torino  nel  procedimento  penale  a  carico di De Maria Giuseppe
 iscritta al n. 61 del registro  ordinanze  1991  e  pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  7,  prima serie speciale,
 dell'anno 1991;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del  10  aprile  1991  il  Giudice
 relatore Enzo Cheli;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Nel  processo d'appello avverso la sentenza di condanna per
 detenzione e porto illegale di armi e munizioni emessa a  seguito  di
 giudizio abbreviato dal Tribunale di Catanzaro nei confronti di Mario
 De  Domenico,  la  Corte d'Appello di Catanzaro, con ordinanza del 25
 ottobre 1990 (R.O. n.  751  del  1990),  ha  sollevato  questione  di
 legittimita'  costituzionale  della  disposizione contenuta nell'art.
 443, quarto comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui
 prescrive che il giudizio di appello si svolga nelle  forme  previste
 dall'art.  599 dello stesso codice, anche fuori dei casi elencati nel
 primo comma di detto articolo,  con  riferimento  all'art.  76  della
 Costituzione  ed  in  relazione  agli artt. 1 e 2, comma primo, primo
 inciso e numeri 53 e 93, della legge 16 febbraio 1987, n. 81  (Delega
 al  Governo  della  Repubblica  per  l'emanazione del nuovo codice di
 procedura penale).
    Premette il giudice remittente che la legge n. 81 del 1987 - anche
 per il richiamo contenuto nel primo comma dell'art.  2,  "alle  norme
 delle  convenzioni  internazionali ratificate dall'Italia relative al
 processo penale" - risulta informata al principio  della  pubblicita'
 della  trattazione  del  merito  dei  procedimenti  penali e che tale
 principio generale subisce deroghe solo nelle  ipotesi  espressamente
 previste nella stessa legge di delegazione.
    Nell'ordinanza  di  rinvio  si afferma inoltre che la direttiva di
 cui all'art. 2, n. 53, della legge  di  delegazione,  concernente  il
 giudizio  abbreviato,  non  prevede,  per  il procedimento d'appello,
 l'adozione  del  rito  camerale,  mentre  le  ipotesi  di  deroga  al
 principio della trattazione pubblica nel giudizio d'appello sarebbero
 solo quelle menzionate nella direttiva di cui all'art. 2, n. 93, dove
 si prevede il procedimento in camera di consiglio nel contraddittorio
 tra le parti solo quando l'impugnazione abbia per oggetto la specie o
 la  misura  della  pena,  la concessione delle attenuanti generiche o
 l'applicabilita'  di  sanzioni  sostitutive,  o  la  concessione  dei
 benefici  di legge. E poiche' tale elencazione sarebbe da considerare
 tassativa anche alla luce della recente  giurisprudenza  della  Corte
 Costituzionale  (sentenza  n.  435  del  1990), il giudice remittente
 prospetta il dubbio che  la  disposizione  contenuta  nell'art.  443,
 quarto  comma,  del  codice  di procedura penale - nella parte in cui
 prescrive che il giudizio di appello si svolga nelle  forme  previste
 dall'art.  599  dello stesso codice anche fuori dei casi elencati nel
 primo  comma  dello  stesso  articolo  -  violi   l'art.   76   della
 Costituzione,  in  relazione  agli  artt.  1  e 2, comma primo, primo
 inciso e nn. 53 e  93,  della  legge  di  delegazione,  ponendosi  in
 contrasto   con   i   criteri  direttivi  enunciati  dal  legislatore
 delegante.
    2. - Nel giudizio dinanzi alla Corte  ha  spiegato  intervento  il
 Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
 dall'Avvocatura generale dello  Stato,  per  sostenere  la  manifesta
 infondatezza della questione.
    Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato la direttiva dell'art. 2, n.
 93,  della  legge di delegazione si riferirebbe alla impugnazione dei
 provvedimenti emessi secondo il  modello  ordinario  e  non  potrebbe
 essere  correttamente  applicata  alle  ipotesi di impugnazione di un
 provvedimento emesso a  seguito  di  un  procedimento  speciale  gia'
 definito   in  primo  grado,  in  ossequio  alla  direttiva  espressa
 nell'art.  2,  n.  53,  con  il  rito  camerale.   Aggiunge   inoltre
 l'Avvocatura  che sarebbe stata singolare e contraria al principio di
 "massima semplificazione", che ispira il nuovo  processo  penale,  la
 previsione  di  una  diversificazione  della forma di trattazione dei
 procedimenti di appello rispetto a quelli  di  primo  grado:  e  cio'
 soprattutto  ove  si  consideri  che  vige  nel nostro ordinamento un
 principio generale di estensione delle norme sul  giudizio  di  primo
 grado  al  giudizio  di  appello (v. art. 519 del codice di procedura
 penale del 1930 ed ora art. 598 del nuovo codice). Il richiamo a tale
 principio spiegherebbe anche - secondo l'Avvocatura dello Stato -  il
 silenzio  della  direttiva  n.  53  sulle  forme  di celebrazione del
 procedimento  d'appello  nel  giudizio  abbreviato,  in  quanto  tale
 direttiva  doveva soltanto fissare il principio "innovativo" del rito
 camerale per il procedimento di primo grado, mentre  l'estensione  di
 tale   rito   al   procedimento   di  appello  sarebbe  da  ritenersi
 "conseguenziale" sulla base delle  regole  generali  tradizionalmente
 recepite.
    3. - Nel processo d'appello avverso la sentenza di condanna emessa
 a  seguito  di  giudizio  abbreviato  dal  Tribunale  di  Torino  nei
 confronti di Giuseppe De Maria, la Corte  d'Appello  di  Torino,  con
 ordinanza  del  16  novembre 1990 (R.O. n. 61 del 1991), ha sollevato
 d'ufficio questione  di  legittimita'  costituzionale  nei  confronti
 dell'art.  443,  quarto  comma,  del  codice di procedura penale, con
 riferimento agli artt. 76 e 77 della  Costituzione  ed  in  relazione
 alle  direttive  di  cui  all'art.  2,  nn.  53  e 93, della legge 16
 febbraio 1987, n. 81.
    Nell'ordinanza di rinvio, il giudice a quo  rileva  che,  in  base
 all'art.  443,  quarto  comma,  del  codice  di  procedura penale, il
 giudizio di appello deve svolgersi, qualunque sia la doglianza  mossa
 con  il  gravame,  con le forme previste dall'art. 599 e cioe' con il
 rito della camera di consiglio regolato dall'art.  127  dello  stesso
 codice:  tale  rito  comporta una deroga sia al principio di garanzia
 della difesa (data la non necessita' della presenza  dell'imputato  e
 dei   suoi   difensori),  sia  al  principio  della  pubblicita'  del
 dibattimento (che viene tenuto senza la presenza  del  pubblico).  La
 deroga  a  tali  principi,  in  determinate  circostanze, puo' essere
 consentita alla  luce  del  diverso  principio  della  celerita'  dei
 procedimenti richiamato nell'art. 2, n. 1, della legge di delegazione
 n.   81  del  1987:  ma  in  ogni  caso  senza  pregiudicare  diritti
 costituzionalmente garantiti e senza estendere le deroghe al  di  la'
 dei  limiti  fissati  dal legislatore delegante. Ora, la direttiva di
 cui all'art. 2, n. 53, della legge n. 81  del  1987,  concernente  il
 giudizio  abbreviato,  non  prevede,  per il procedimento di appello,
 l'adozione del rito camerale, mentre la direttiva di cui all'art.  2,
 n.  93, della suddetta legge circoscrive il procedimento in camera di
 consiglio in grado d'appello  a  ipotesi  ben  determinate,  con  una
 elencazione da ritenere tassativa, alla luce dei lavori preparatori e
 della  giurisprudenza  costituzionale sull'argomento (sentenza n. 435
 del 1990).
    Il giudice remittente - attraverso il raffronto tra le  previsioni
 della  legge di delegazione e l'art. 443, quarto comma, del codice di
 procedura  penale  -  giunge  alla  conclusione  che  il  legislatore
 delegato,  da  un  lato,  avrebbe  ampliato  le  deroghe  ai principi
 generali operate dalla  direttiva  n.  53,  aggiungendo  disposizioni
 concernenti  il procedimento di secondo grado, e, dall'altro, avrebbe
 esteso le ipotesi di rito camerale in appello al di la'  dei  precisi
 confini tracciati dalla direttiva n. 93.
    Tale  estensione del procedimento camerale - ad avviso del giudice
 a quo - sarebbe ingiustificata sotto vari aspetti.
    Innanzitutto, essa non garantirebbe  una  maggiore  celerita'  del
 processo  nei  casi  in  cui  debbano  essere  trattate  in camera di
 consiglio questioni di rilevante importanza, quali  quelle  attinenti
 alla  responsabilita' ed al titolo del reato.  Anzi, il rito camerale
 si  rivelerebbe  addirittura  controproducente  qualora  il   giudice
 d'appello  stabilisse  di non poter decidere senza l'assunzione delle
 prove non esperite in primo grado per effetto  della  scelta  per  il
 giudizio  abbreviato:  e cio' perche', in tal caso, l'obbligatorieta'
 di nuove citazioni e notifiche renderebbe il rito camerale piu' lungo
 di un dibattimento secondo il rito ordinario.
    In secondo luogo,  la  denunciata  estensione  del  rito  camerale
 comprimerebbe  il  diritto  di difesa, giacche' la disciplina dettata
 dall'art. 127, terzo comma, del codice di procedura  penale,  sarebbe
 giustificabile  alla  luce  delle esigenze di speditezza del processo
 quando l'impugnazione verta su elementi non essenziali  della  causa,
 ma  non  lo  sarebbe  piu'  allorche'  sia in contestazione la stessa
 responsabilita' dell'appellante.
    Infine - sempre secondo  il  giudice  a  quo  -  non  si  potrebbe
 sostenere  che  la norma impugnata costituisca il naturale corollario
 della disciplina che regola lo svolgimento, secondo il rito camerale,
 del  giudizio  abbreviato,  poiche'  le  parti,  quando  pongono   in
 discussione con i loro atti di impugnazione elementi essenziali della
 causa,  vengono  a porsi in contraddizione con le premesse stesse del
 rito abbreviato.
    Da tutte queste considerazioni la Corte d'Appello di  Torino  trae
 la  conclusione che l'art. 443, quarto comma, del codice di procedura
 penale - laddove dispone che, in grado di appello, si debba procedere
 con il rito in camera  di  consiglio  anche  al  di  fuori  dei  casi
 previsti dall'art. 599, primo comma, dello stesso codice - si pone al
 di  fuori  delle  prescrizioni  contenute nelle direttive nn. 53 e 93
 della legge di delegazione n. 81 del 1987, violando, di  conseguenza,
 gli artt. 76 e 77 della Costituzione.
    4. - Anche in questo giudizio ha spiegato intervento il Presidente
 del  Consiglio  dei  ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
 Generale  dello  Stato,   per   sostenere   che   la   questione   e'
 manifestamente  infondata,  sulla  scorta  delle  argomentazioni gia'
 sviluppate in relazione  alla  questione  sollevata  dalla  Corte  di
 appello di Catanzaro.
                        Considerato in diritto
    1.  -  Le  ordinanze  in  esame  pongono  la  stessa  questione di
 legittimita' costituzionale, diretta a censurare l'art.  443,  quarto
 comma,  del  nuovo  codice  di  procedura penale per violazione degli
 artt. 76 e 77 della Costituzione, in relazione  agli  artt.  1  e  2,
 comma  primo, primo inciso e numeri 53 e 93, della delega legislativa
 al Governo approvata con legge 16 febbraio 1987, n. 81.
    I giudizi relativi vanno, pertanto, riuniti per essere decisi  con
 un'unica pronuncia.
    2.  -  Il  quarto  comma  dell'art.  443  c.p.p.  dispone che, nel
 giudizio abbreviato di cui agli artt. 438 e ss. di  tale  codice,  la
 fase  dell'appello  "si  svolge con le forme previste dall'art. 599".
 Quest'ultimo articolo, a sua volta, stabilisce, al primo  comma,  che
 "quando l'appello ha esclusivamente per oggetto la specie o la misura
 della  pena,  anche  con  riferimento al giudizio di comparazione fra
 circostanze,  o   l'applicabilita'   delle   circostanze   attenuanti
 generiche,  di  sanzioni  sostitutive, della sospensione condizionale
 della pena o della non menzione della condanna  sul  certificato  del
 casellario  giudiziale,  la corte provvede in camera di consiglio con
 le forme dell'art. 127": forme che comportano  la  presenza  soltanto
 eventuale  delle  parti e dei difensori e lo svolgimento dell'udienza
 senza la presenza del pubblico.
    Il rinvio  operato  dalla  norma  impugnata  alle  forme  previste
 dall'art.  599 impone, dunque, l'adozione del rito camerale per tutti
 i  casi  di  appello  contro  le  sentenze  adottate   con   giudizio
 abbreviato,  anche  al di fuori dei limiti di oggetto specificati nel
 primo comma  dello  stesso  art.  599.  Questa  estensione  del  rito
 camerale  anche al di la' di tali limiti verrebbe a violare - secondo
 le ordinanze di rimessione - i principi e criteri  direttivi  fissati
 nella  legge  di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81, con riferimento
 particolare a quanto specificato, in tema di appello, dalla direttiva
 di cui all'art. 2, n. 93 (dove la previsione di  un  procedimento  in
 camera   di   consiglio   e'  riferita  esclusivamente  alle  ipotesi
 particolari indicate nel primo comma dell'art.  599  c.p.p.),  e,  in
 tema di giudizio abbreviato, dalla direttiva di cui all'art. 2, n. 53
 (dove  si  indirizza  il  legislatore delegato verso la previsione di
 limiti alla appellabilita' della sentenza adottata in tale  giudizio,
 senza,  peraltro,  fare alcun richiamo alle forme del procedimento di
 appello). Dal  che  la  conseguente  violazione  dell'art.  76  della
 Costituzione per eccesso di delega.
    3. - La questione non e' fondata.
    Le  due  ordinanze  di  rimessione  muovono dal presupposto che la
 direttiva espressa nell'art. 2, n. 93,  della  legge  di  delegazione
 debba  intendersi  riferita  non  soltanto  all'appello  nel giudizio
 ordinario, ma anche  all'appello  nel  giudizio  abbreviato,  con  la
 conseguenza che, in ambedue i giudizi, l'adozione del procedimento in
 camera  di  consiglio dovrebbe incontrare i limiti di oggetto fissati
 in tale direttiva e recepiti puntualmente, per il giudizio ordinario,
 nel primo comma dell'art. 599 c.p.p.
    Ambedue le ordinanze ritengono altresi'  di  poter  avallare  tale
 convincimento con il richiamo alla sentenza n. 435 del 1990 di questa
 Corte,  che, nel dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art.
 599, quarto e quinto comma,  c.p.p.,  ha  sottolineato  il  carattere
 tassativo  dell'elencazione  formulata  nella  direttiva  n. 93 della
 legge di delegazione in ordine all'adozione del rito  camerale  nella
 fase  di  appello,  dal  momento che dai lavori preparatori del nuovo
 codice di procedura penale e' possibile desumere "la precisa volonta'
 del legislatore delegante  di  delimitare  rigorosamente  i  casi  di
 decisione in camera di consiglio degli appelli".
    Tale  lettura  della  direttiva  n.  93  -  anche  alla  luce  del
 precedente giurisprudenziale richiamato - non puo', peraltro,  essere
 condivisa.
    Nessun elemento, ne' letterale ne' sistematico, induce, infatti, a
 ritenere  che il legislatore delegante, nel formulare la direttiva in
 questione, abbia inteso riferirsi a tutti i possibili tipi di appello
 (ivi compreso l'appello proprio del rito abbreviato, di cui  all'art.
 443  c.p.p.)  e  non al solo appello proponibile nell'ambito del rito
 ordinario. Al contrario, la stessa collocazione della direttiva n. 93
 nel quadro delle direttive in tema di impugnazione connesse  al  rito
 ordinario  (v.  nn.  83 e ss.) convince del fatto che i principi ed i
 criteri espressi in tale direttiva non siano estensibili  anche  agli
 appelli  proposti  nell'ambito  dei  procedimenti  speciali,  la  cui
 disciplina e' stata fatta salva, come differenziata,  dall'art.  593,
 primo  comma,  c.p.p.:  e questo tanto piu' ove si consideri che, per
 quanto concerne il giudizio abbreviato, la materia ha formato oggetto
 della direttiva specificamente enunciata nell'art. 2,  n.  53,  della
 legge   di   delegazione,  dove  risulta  formulata  una  indicazione
 particolare anche per quanto concerne la fase dell'appello, sia  pure
 con riferimento ad un aspetto diverso dalla forma del procedimento.
    Ne'  la  limitazione  della  direttiva  n. 93 al solo procedimento
 ordinario e' tale da confliggere con quanto enunciato da questa Corte
 nella richiamata sentenza n. 435  del  1990,  dove  l'interpretazione
 tassativa  e  restrittiva  delle  ipotesi di ricorso al rito camerale
 elencate in tale direttiva risulta chiaramente riferita  al  giudizio
 ordinario,   senza   investire   in  alcun  modo  il  problema  della
 applicabilita' della stessa direttiva anche ai giudizi speciali.
    4. - Esclusa, dunque, l'applicabilita' - per la  diversita'  degli
 oggetti  - della direttiva n. 93 alla norma espressa nel quarto comma
 dell'art. 443 c.p.p., occorre verificare se tale norma  possa  essere
 censurata  per  eccesso  di  delega sotto il profilo della violazione
 della direttiva  n.  53,  formulata  dal  legislatore  delegante  con
 riferimento specifico al giudizio abbreviato.
    In  proposito, va ricordato che la direttiva in questione prevede,
 per il rito abbreviato, "limiti all'appellabilita'  delle  sentenze",
 ma  non  enuncia  alcun criterio in ordine al rito da adottare per la
 fase di appello di tale giudizio.
    Nel silenzio del legislatore delegante su questo aspetto  occorre,
 dunque,  verificare  -  sempre  ai  fini  dell'accertamento del vizio
 denunciato di eccesso di  delega  -  se  la  soluzione  adottata  dal
 legislatore  delegato  con il richiamo generalizzato al rito camerale
 risulti o meno in contrasto con altri criteri, espliciti o impliciti,
 desumibili dagli indirizzi formulati nella legge  di  delegazione  in
 tema di giudizio abbreviato.
    Tale  verifica,  mentre,  da  un lato, non consente di individuare
 motivi di contrasto tra la norma impugnata ed  i  contenuti  espressi
 dalla legge di delegazione con la direttiva n. 53, dall'altro conduce
 a  rilevare  come  la  soluzione adottata dal legislatore delegato in
 tema di  forma  dell'appello  nel  giudizio  abbreviato  si  presenti
 rispondente  alla  natura stessa di questo giudizio, che trova la sua
 base in quella esigenza di "massima semplificazione nello svolgimento
 del  processo  con  eliminazione  di  ogni  atto  o   attivita'   non
 essenziale"  richiamata dal legislatore delegante, nell'art. 2, n. 1,
 della  legge  n.  81  del  1987, come il primo dei criteri ispiratori
 della riforma.
    Su questo piano,  l'adozione  del  rito  camerale  nella  fase  di
 appello  del  giudizio  abbreviato  -  oltre  che  ad  un criterio di
 economicita'  -  finisce  per  rispondere  anche  ad   una   esigenza
 razionale, quale quella che si collega all'unita' del processo penale
 nelle  sue  varie  fasi  e  che  ispira  un principio consolidato nel
 diritto positivo, secondo cui al giudizio  di  appello  si  estendono
 normalmente,  in quanto applicabili, le norme relative al giudizio di
 primo grado (v. l'art. 598 c.p.p. vigente e, in precedenza, art.  519
 c.p.p. del 1930).
    In  altri  termini,  l'esigenza  di accelerazione del procedimento
 che, nel giudizio abbreviato, viene  a  giustificare  il  ricorso  in
 primo  grado al rito camerale (con le conseguenti limitazioni in tema
 di difesa e di pubblicita') risulterebbe frustrata  ove  non  dovesse
 produrre  il suo effetto - nel caso di permanenza dei presupposti che
 hanno dato luogo alla scelta del rito abbreviato  in  primo  grado  -
 anche  in  relazione  alla  fase dell'appello. Rispetto a questa fase
 risulta, d'altro canto, chiaro che il legislatore delegante,  con  la
 direttiva n. 53, pur senza toccare l'aspetto del rito, ha limitato la
 proponibilita'  dell'appello  proprio  in  relazione  agli  specifici
 presupposti del rito abbreviato.