IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Letta la richiesta di archiviazione proposta dal p.m., depositata in data 26 marzo 1991; Esaminati gli atti; O S S E R V A Le norme che regolano la chiusura delle indagini preliminari prevedono che il p.m. eserciti l'azione penale o richieda l'archiviazione nel termine di sei mesi dalla data di iscrizione del nome della persona alla quale e' attribuito il reato nel registro delle notizie di reato. Il termine in questione, infatti, e' previsto non solo ai fini della utilizzazione degli atti di indagine (art. 407, terzo comma, del c.p.p.), ma, specificamente, anche in relazione alla richiesta di rinvio a giudizio (art. 405, secondo comma, del c.p.p.), alla richiesta di archiviazione (art. 408 e, per il richiamo al primo, 411 del c.p.p.) ed alla richiesta di archiviazione o di autorizzazione a proseguire le indagini a carico di ignoti (art. 415 del c.p.p.). Questa disciplina si applica anche al procedimento dinanzi al pre- tore, per il richiamo di carattere generale dell'art. 549 del c.p.p. e per quello specifico dell'art. 553, primo comma, del c.p.p. L'esistenza del termine e la sua operativita' in relazione a tutti i possibili esiti delle indagini preliminari e' positivamente e puntualmente confermata dalle norme che prevedono la proroga del termine, che il giudice puo' disporre "prima della scadenza" (art. 406, primo comma, del c.p.p.). Un'ulteriore conferma e' fornita dalle norme che regolano l'ipotesi in cui il giudice respinga la richiesta di proroga o quella di archiviazione. In questi casi, infatti, si prevede che il giudice fissi al p.m. un apposito termine non solo ai fini dello svolgimento di indagini (art. 409, quarto comma, del c.p.p.), ma anche al solo fine di formulare le richieste a norma dell'art. 405 (art. 406, settimo comma, del c.p.p. quanto all'ordinanza che respinge la richiesta di proroga) ed al fine di formulare l'imputazione (art. 409, quinto comma, del c.p.p. nel caso di mancato accoglimento della richiesta di archiviazione). Questa disciplina non avrebbe alcuna giustificazione, sul piano logico e pratico, qualora il p.m. mantenesse il potere di presentare le sue richieste anche dopo la chiusura delle indagini preliminari. Sempre in relazione alla disciplina dei termini ed alla sua portata, si deve poi fare riferimento, per ulteriore conferma, alle previsioni dell'art. 258 delle disposizioni di attuazione e transitorie del c.p.p., come modificate dal recente d.lgs. 7 dicembre 1990, n. 369. Questa norma (in particolare cfr. il quarto comma), nel prevedere una proroga dei termini, ne individua la apremessa nel fato che "alla scadenza dei termini per le indagini preliminari il pubblico ministero non abbia esercitato l'azione penale o richiesto l'archiviazione" e stabilisce che "il procuratore generale presso la corte di appello ha facolta' di avocare le indagini preliminari qualora il pubblico ministero non abbia esercitato l'azione penale o richiesto l'archiviazione nei termini". La stessa relazione al codice parla espressamente, a tale riguardo di "decadenza del pubblico ministero dal potere di presentare al giudice le richieste". La previsione del termine non sembra compatibile con il principio di obbligatorieta' dell'azione penale previsto dall'art. 112 della Costituzione, sia per quanto riguarda la preclusione allo svolgimento di indagini, sia per quanto riguarda il promovimento dell'azione penale o la proposizione della richiesta di archiviazione, che impone al giudice il controllo della sua fondatezza, anche allo scopo di disporre il promovimento dell'azione penale o lo svolgimento di ulteriori indagini. La disciplina dei termini, in pratica, tenendo conto delle sole norme gia' ricordate, produrrebbe la decadenza del p.m. dal potere di esercitare l'azione penale, cosi' violando in modo evidente la norma costituzionale gia' ricordata. La previsione del potere di avocazione spettante al procuratore generale presso la corte di appello, contenuta nell'art. 412 del c.p.p., non sembra poter modificare le conclusioni appena esposte, pur trattandosi di una previsione che la relazione al codice, gia' citata, afferma essere stata introdotta proprio allo scopo di evitare la decadenza del p.m. dai poteri a lui attribuiti. La norma dell'art. 412, pur prevedendo che il procuratore generale disponga l'avocazione delle indagini preliminari "se il pubblico ministero non esercita l'azione penale o non richiede l'archiviazione nel termine stabilito dalla legge prorogato dal giudice", richiede a tale scopo l'emissione di "decreto motivato", e limita ad un periodo di trenta giorni il tempo concesso al p.g. per svolgere le indagini indispensabili e formulare le richieste. L'avocazione, pertanto, come e' evidente per la previsione del termine di trenta giorni, ha effetto dal momento dell'adozione del decreto motivato che la dispone, senza alcuna retroattivita', e si deve dunque concludere che, anche nel caso in ci l'avocazione sia disposta, esista pur sempre un periodo di tempo, intercorrente tra il decorso del termine delle indagini prelimiari e l'adozione del decreto di avocazione, nel quale non e' individuabile alcun organo del p.m. competente all'adozione dei provvedimenti lui attribuiti, provvedimenti che possono anche non consistere solamente nello svolgimento di indagini differibili ad epoca successiva a quella dell'avocazione o nelle richieste che concludono la fase delle indagini, ma identificarsi in attivita' indifferibili. L'esistenza di un termine di operativita' iniziale dell'avocazione, senza alcuna retroattivita', porterebbe a configurare l'avocazione prevista dall'art. 412 piu' come un'ipotesi di riapertura delle indagini che come una vera e propria forma di avocazione, se non si ammettesse che, prima dell'intervento del provvedimento di avocazione, permanesse la competenza del p.m. competente nel periodo delle indagini preliminari. La disciplina dell'avocazione, in ogni caso, malgrado l'apparente necessarieta' dell'istituto, ai fini della definizione del procedimento, non prevede alcun automatismo, non sol, come gia' osservato, in relazione al momento dell'avocazione, ma neppure in relazione alla stessa effettiva adozione del provvedimento che la dispone. L'art. 127 delle disposizioni di attuazione del c.p.p. si limita a prevedere la trasmissione settimanale al p.g. dell'elenco delle notizie di reato contro persone note per le quali non e' stata esercitata l'azione penale o richiesta l'archiviazione nel termine di legge, o in quello prorogato. E si consideri che la disposizione dell'art. 413 del c.p.p. che regola la richiesta di avocazione rivolta al p.g. dalla persona sottoposta alle indagini o dalla persona offesa (per gli stessi casi previsti dall'art. 412) sembra in contraddizione con una configurazione dell'avocazione come strumento necessario per la definizione del procedimento in caso di superamento dei termini, non apparendo giustificabile se non in relazione ad una avocazione semplicemente facoltativa. Anche il riferimento alla semplice "facolta'" del procuratore generale di avocare le indagini, nell'ipotesi di proroga legale delle indagini prevista dal gia' ricordato d.lgs. n. 369/1990, non sembra fornire un elemento decisivo, sul piano interpretativo, per concludere che, negli altri casi, l'avocazione sia obbligatoria. La deroga di cui parla la disposizione, infatti, puo' correttamente essere riferita non alla regola ordinaria della obbligatorieta' dell'avocazione, ma al fatto che, trattandosi di indagini prorogate, non sarebbe legittimo, ordinariamente, procedere alla loro avocazione. Quello che sembra determinante agli effetti del giudizio da formulare sulla efficacia del meccanismo dell'avocazione al fine di garantire il rispetto dell'obbligatorieta' dell'azione penale, in ogni caso, e' che, mancando qualunque termine per disporre l'avocazione, ne' prevedendosi un apposito meccanismo che ricolleghi l'avocazione al superamento dei termini, automaticamente, e senza soluzione di continuita', non si puo' ritenere assicurata neppure una qualunque definizione del procedimento, dato che, in ogni caso, il decreto di avocazione non potrebbe correttamente piu' adottarsi una volta decorsi i termini di durata massima delle indagini previsti dall'art. 407 del c.p.p., a meno di stravolgere l'intero meccanismo previsto dal codice. Il problema della violazione della norma del'art. 112 della Costituzione, certamente ipotizzabile, sulla base delle considerazioni che precedono, puo' tuttavia trovare una soluzione interpretativa, cosi' escludendosi la sua rilevanza. Non esiste, infatti, alcuna specifica previsione che sancisca la decadenza del p.m. dal potere di chiedere l'archiviazione del procedimento o da quello di esercitare l'azione penale, e che imponga al giudice la declaratoria di inammissibilita' della richiesta di archiviazione, o della richiesta di rinvio a giudizio, o del decreto di citazione. Trattandosi di decadenza, infatti, occorrerebbe riferirsi ad ipotesi tassative, per quanto disposto dall'art. 173, primo comma, del c.p.p., considerando anche che si tratterebbe di giungere ad un'interpretazione che comporterebbe la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale delle norme che regolano i termini di chiusura delle indagini. Si puo' dunque concludere che, anche in caso di superamento dei termini, ordinari o prorogati, delle indagini preliminari, il p.m. conservi il potere-dovere di richiedere al giudice l'archiviazione o di promuovere l'azione penale, salvo il potere di avocazione spettante al p.g. L'unico effetto preclusivo, dunque, almeno qualora si concordi con le considerazioni espresse in precedenza, si produce in relazione alla possibilita', per il p.m., di svolgere indagini utilizzabili. Nel caso concreto emerge, appunto, la necessita' di ulteriori indagini, a seguito della richiesta di archiviazione proposta dal p.m. In particolare, nel caso concreto, il procedimento trae origine dalla morte di Rosa Frezza, che, alla guida di un'autovettura, sulla quale erano trasportate anche la madre, Giuseppa Zambella, e Marina Turelli Busti, anch'essa deceduta dopo alcuni giorni, e' uscita di strada nel transitare su un ponte che attraversa il fiume Fine, nel territorio del comune di Rosignano Marittimo. Dalle indagini svolte e documentate in atti, emerge che l'autovettura stava percorrendo la strada comunale denominata "via per Rosignano", e che aveva iniziato l'attraversamento del "guado" sul fiume Fine, costituito da una struttura in cemento della larghezza di ml 3,20 e della lunghezza di ml 18,20, sul quale il traffico si svolgeva a senso unico alternato. Il ponte, che e' realizzato in modo tale che, in caso di piena, l'acqua lo sommerga senza incontrare un ostacolo che la faccia uscire dagli argini, e che si trova ad un livello inferiore a quello della strada nei tratti precedente e successivo, era delimitato, in entrata ed in uscita, da grossi paracarri in cemento, ma era privo di protezioni laterali per tutta la sua lunghezza (cfr. comunicazione del corpo vigili urbani del comune di Rosignano Marittimo in data 16 luglio 1990). Secondo le dichiarazioni rese da Giuseppe Zampella alla sezione di p.g. presso la procura della Repubblica presso la pretura circondariale di Livorno in data 12 dicembre 1990, su delega del p.m., l'incidente si e' verificato in questo modo: mentre l'auto sulla quale si trovava, condotta dalla figlia Rosa Frezza, stava avvicinandosi al ponte sul fiume Fine, avevano visto sopraggiungere, dalla direzione opposta, a grande velocita', un'altra autovettura, che, dopo avere superato altre tre auto che la precedevano, aveva attraversato il ponte. La figlia, pur avendo diritto di precedenza, si era accostata al ciglio della strada proprio nel punto in cui aveva inizio l'attraversamento del ponte. Ripresa la marcia, l'autovettura condotta dalla figlia si muoveva con fatica, per un non meglio precisato ostacolo sulle ruote posteriori, superato dalla conducente accelerando il piu' possibile, senza accorgersi, pero', sempre secondo le dichirazioni, di G. Zampella, di essere terminata, con le ruote di destra, anteriore e posteriore, al di la' del margine destro del ponte. Dopo pochi metri, urtato un piolo la conducente non era riuscita a controllare l'auto, che era precipitata nel fiume (cfr. dichiarazioni in atti). Il p.m. ha richiesto l'archiviazione deducendo che la causa dell'uscita di strada dell'autovettura deve essere attribuita alla distrazione della conducente o ad un'errata manovra alla quale quest'ultima sarebbe stata costretta dal sopraggiungere dell'altra autovettura. A parere di questo giudice, peraltro, si puo' certamente ipotizzare un profilo di responsabilita' collegato alla mancata predisposizione di idonee protezioni laterali, sul ponte, al fine di evitare l'uscita di strada dei veicoli che lo percorrevano. L'esistenza di tali protezioni, nel caso specifico, avrebbe potuto evitare l'incidente, almeno stando a quanto desumibile dagli atti. Tuttavia, non risulta, dagli atti, che siano state svolte indagini per accertare, in primo luogo, anche avvalendosi di esperti della materia, le caratteristiche strutturali del ponte, e la sua rispondenza alle regole costruttive e di sicurezza, sia intrinsecamente, sia in relazione al collegamento con i due tratti di strada che congiunge, e, secondariamente, quali fossero i soggetti tenuti all'adozione dei provvedimenti relativi alle opere eventualmente da eseguire sulla struttura, ai fini della sicurezza stradale, e di quelli concernenti l'utilizzazione del ponte ai fini della circolazione, anche allo scopo di determinare se, come emerge dall'articolo di stampa presente in atti in copia, siano gia' accaduti altri incidenti sul ponte, e se gli organi competenti ad adottare i provvedimenti sia sulle opere sia sulla circolazione ne fossero a conoscenza, e quali iniziative abbiano eventualmente adottato. Sulla base di tali indagini, a parere di questo giudice, si potrebbe valutare, in concreto, l'ipotizzabilita' di una responsabilita', a titolo di colpa, a carico dei soggetti cosi' individuati, qualora, naturalmente, le risultanze delle indagini non impongano di escludere l'esistenza della colpa, o del nesso di causalita'. Di fronte a tale necessita', tuttavia, si pone l'ostacolo rappresentato dalla gia' ricordata norma dell'art. 407, terzo comma, del c.p.p., che esclude la possibilita' dello svolgimento di indagini oltre il termine ordinario o prorogato, o, meglio, sancisce l'"inutilizzabilita'" delle indagini svolte in violazione di tale divieto. Ed e' appena il caso di notare che, nell'ipotesi della richiesta di supplemento di indagini, si tratta di atti di indagine destinati ad essere comunque utilizzati, ai fini della successiva decisione di promuovere l'azione penale o di richiedere l'archiviazione. In questo caso, la formulazione delle norme ed il dato sistematico impediscono, secondo questo giudice, qualunque diversa interpretazione. Il dato ricavabile dal testo dell'art. 407, infatti, non si presta ad equivoci, non solo nel prevedere l'inutilizzabilita' degli atti di indagine, ma anche nel ricollegarla, piu' che al superamento dei termini in assoluto, al fatto che il p.m., entro tali termini, non abbia esercitato l'azione penale o richiesto l'archiviazione. In altre parole, una volta richiesta nei termini l'archiviazione, si possono certamente svolgere atti di indagine utilizzabili, e non esiste, pertanto, per il giudice, alcun ostacolo al riguardo, anche se il suo provvedimento fissi un termine per le indagini che superi quello ordinario, o prorogato (salvo esaminare se tale possibilita' comporti anche il superamento del termine di durata massima). In ogni caso, peraltro, occorre che le determinazioni sull'esercizio dell'azione penale siano state prese dal p.m. nei termini stabiliti. Un'interpretazione diversa, pertanto, cozzerebbe contro il dato estremamente chiaro dell'art. 407, terzo comma. Si porrebbe, inoltre, contro l'intero sistema delineato dal codice in relazione alla chiusura delle indagini preliminari ed alle vicende successive. Non sembra che la disposizione possa essere interpretata come riferita solo alle indagini disposte dal p.m., escludendosi il caso del supplemento di indagini disposto dal giudice. A parte la mancanza di qualunque eccezione in proposito, nel testo della norma, lo stesso riferimento alla tempestivita' delle determinazioni del p.m. quale condizione per lo svolgimento successivo di indagini utilizzabili depone proprio nel senso contrario, coordinandosi in modo molto coerente con i poteri del giudice a seguito della richiesta di archiviazione, e delineando un meccanismo che non prevede soluzioni di continuita'. Ritenendo invece, malgrado gli ostacoli interpretativi gia' ricordati, che il supplemento di indagini possa essere disposto sempre e comunque, dal giudice, anche nel caso di richiesta di archiviazione presentata fuori termine, sembra di poter concludere che si produrrebbe una evidente violazione sia delle norme che regolano la proroga delle indagini, consentendo una proroga tardiva, per cosi' dire, sia di quelle in materia di riapertura delle indagini, riapertura che ha presupposti certamente diversi, e che, comunque, non puo' essere disposta d'ufficio dal giudice. In ogni caso, non sembra che si possa giungere ad una simile conclusione senza una specifica pronuncia della Corte costituzionale, e sulla base del semplice strumento interpretativo. Si deve pertanto escludere che la disciplina vigente consenta al giudice di fissare al p.m. un termine per provvedere ad ulteriori indagini, una volta che la richiesta di archiviazione sia stata presentata dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari o di quello prorogato. Nel caso concreto, l'iscrizione nel registro delle notizie di reato risale a 16 luglio 1990, cosi' che, anche tenendo conto del periodo di sospensione dei termini, risulta superato, alla data del 26 marzo 1991, data del deposito della richiesta di archiviazione, il termine semestrale per le indagini preliminari. In questo caso, pertanto, al giudice resterebbe l'alternativa, per il disposto dell'art. 554, secondo comma, del c.p.p., cosi' come formulato prima delle sentenza n. 445 del 26 settembre 1990-12 ottobre 1990, tra l'archiviazione e la richiesta al p.m. di formulare l'imputazione, alternativa che la stessa Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 445, ha riconosciuto non coerente con il principio di massima semplificazione dettato dalla legge delega per il procedimento pretorile, comportando un innegabile appesantimento del numero dei dibattimenti. L'inapplicabilita' dell'art. 409, quarto comma, del c.p.p., in quanto applicabile al rito pretorile sulla base della sentenza n. 445/1990 della Corte costituzionale, in caso di richiesta di archiviazione presentata dopo il decorso dei termini per le indagini, sembra porsi in contrasto con il principio di obbligatorieta' dell'azione penale, previsto dall'art. 112 della Costituzione. Come e' generalmente riconosciuto, infatti, il rispetto di tale principio esige non solo che il p.m. eserciti l'azione penale o richieda l'archiviazione in relazione ad ogni notizia di reato, ma anche, e soprattutto, che il giudice svolga un controllo sull'esercizio di tale potere-dovere affidato al p.m. Tale controllo, per poter essere veramente tale, deve necessariamente estendersi all'uso corretto e completo del potere di accertamento dei fatti da parte del p.m. In caso contrario, infatti, il giudice finirebbe con l'essere vincolato alla richiesta del p.m., essendo quest'ultimo arbitro di fornire o meno al primo gli elementi indispensabili ai fini della decisione sulla fondatezza della notizia di reato. E' appunto la situazione che si prospetta nel caso in esame, poiche' l'avvenuto superamento del termine per le indagini preliminari impedisce al giudice l'esercizio del potere-dovere di disporre ulteriori indagini indispensabili ai fini della decisione sulla richiesta di archiviazione, potere previsto dal codice, all'art. 409, quarto comma, in applicazione del principio posto dall'art. 2, punto 50, della legge delega, ma che, per effetto della preclusione dell'art. 407, terzo comma, e' limitato ai casi di tempestiva presentazione della richiesta di archiviazione. Appare cosi' non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 409, quarto comma, e 554, del c.p.p., in relazione all'art. 407, terzo comma, del c.p.p. nella parte in cui non prevedono che il giudice per le indagini preliminari presso la pretura circondariale, di fronte ad una richiesta di archiviazione proposta dopo il decorso del termine per le indagini preliminari, se ritiene necessarie ulteriori indagini, le indichi con ordinanza al pubblico ministero, fissando il termine indispensabile per il loro compimento, in relazione all'art. 112 della Costituzione. La questione appare rilevante, nel caso concreto, sulla base di quanto gia' esposto circa le indagini che appaiono indispensabili in relazione alla richiesta di archiviazione presentata dal p.m.