IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nei confronti di Tinelli
 Antonio, nato in Sammichele di Bari il 14 febbraio 1943  e  residente
 in  Rutigliano, via S. Francesco d'Assisi n. 17, coniugato, alfabeta,
 incensurato, maresciallo capo cc. comandante della  stazione  cc.  di
 Rutigliano, libero, imputato di diffamazione aggravata duplice (artt.
 227  e  47,  n.  2, del c.p.m.p., 81, primo comma del c.p.), perche',
 maresciallo dei cc. presso la stazione cc. di Rutigliano, comunicando
 con il brig. g.d.f. Milone Antonio e con Battista Maria Marcella,  il
 3  novembre  1989,  a  bordo  della propria autovettura, sul tragitto
 Bari-Giovinazzo,  offendeva  la  reputazione  del  comandante   della
 legione  g.d.f.  di  Bari, tenente colonnello Luigi Del Gaudio, e del
 comandante della legione cc. di Bari, colonnello Agostino Lo  Giacco,
 dicendo  che  "il  tuo ed il mio comandante mi fanno un baffo perche'
 non capiscono un  cazzo",  cosi'  violando  piu'  volte  la  medesima
 disposizione di legge con un'unica azione.
    Sentito  il  p.m.,  che  ha  sollevato eccezione di illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  260,  secondo  comma,  del  c.p.m.p.,   in
 relazione  agli  artt.  97  e  3 della Costituzione, e specificamente
 nella parte in cui non prevede  che  la  potesta'  di  richiedere  in
 procedimento  non  debba  essere riconosciuta al comandante del corpo
 che  sia anche persona offesa dal reato o dai reati di cui si tratti,
 siccome e' invece avvenuto nella specie;
    Sentita la difesa, che si e' associata;
                             O S S E R V A
    Risulta dagli atti che  il  maresciallo  cc.  Tinelli  Antonio  e'
 imputato di duplice diffamazione aggravata (artt. 227, primo comma, e
 47,  n.  2,  del  c.p.m.p., 81, primo comma, del c.p.), per aver, con
 unica azione dilittuosa, commessa  il  3  novembre  1989,  offese  la
 reputazione  del  colonnello  cc.  Lo Giacco Agostino e del ten. col.
 guardia di finanza Del  Gaudio  Luigi,  comandanti  delle  rispettive
 legioni  di  Bari; e che la richiesta di procedimento, necessaria per
 la procedibilita' del reato  de  quo,  punibile  con  la  pena  della
 reclusione  militare  non  superiore nel massimo a sei mesi, e' stata
 proposta, in termini, dal suddetto colonnello Lo  Giacco,  nella  sua
 qualita' di comandante di corpo.
    E'   assodato,  quindi,  che  ricorrono  le  condizioni  di  fatto
 richiamate dal p.m.
    Ora, rammenta il tribunale che la richiesta di procedimento,  come
 disciplinata  dal secondo comma del citato art. 260 del c.p.m.p., per
 quel che qui interessa - richiesta che  autorevole  dottrina  afferma
 essere,  in  sostanza  "un  elemento  di  congiunzione tra il sistema
 penale ed il sistema disciplinare", altro non e', in estrema sintesi,
 che il mezzo che l'ordinamento giuridico si e' dato  per  consentire,
 nei  casi  concreti,  un  giudizio  di  convenienza  e  di  oggettiva
 opportunita' del processo penale in ordine a fatti essenzialmente  di
 scarsa  rilevanza; giudizio che ha attribuito al "comandante di corpo
 o di altro ente superiore" (questi quando il primo sia  l'autore  del
 reato  o dei reati, ritengono, concordi, dottrina e giurisprudenza) e
 che va formulato da tale pubblica autorita' avendo esclusivo riguardo
 alle circostanze tutte del fatto o dei fatti ed alla personalita' del
 soggetto attivo, valutata anche  tenendo  conto  degli  interessi  di
 servizio e di coesione del corpo.
    Siffatto  giudizio,  che, secondo che si concluda con la decisione
 di mantenere il fatto o i fatti nell'ambito  disciplinare  ovvero  di
 sottoporli  all'esame  giurisdizionale,  e quindi con la decisione di
 non proporre o proporre  la  richiesta  di  procedimento,  espone  il
 militare  a  sanzione,  rispettivamente,  disciplinare  o  penale,  e
 pertanto a conseguenze di natura e gravita' diverse l'una dall'altra,
 non e' richiesto che sia motivato, sicche'  non  e'  sindacabile  nel
 merito da parte del giudice.
    Ben  si  comprende, allora, come sia necessario che la valutazione
 del fatto e della personalita' del soggetto  agente,  avuti  presenti
 gli  interesi  del corpo innanzi richiamati, sia improntata a criteri
 di  serieta',  di   personale   disinteresse   e   di   imparzialita'
 nell'esercizio  del pubblico potere, del che si rileva prima garanzia
 l'estremita' al fatto di colui che tale valutazione abbia la potesta'
 di compiere, onde possa presumersi che la decisione assunta  risponda
 sempre, come deve, ad equita' e giustezza.
    Ne  deriva,  per  generali  ragioni  di  principio, che, quando la
 potesta' di proporre la richiesta di  procedimento  viene  ad  essere
 esercitata  da  chi  sia  stato  offeso dal fatto o dai fatti oggetto
 della richiesta stessa, possibile e plausibile e' il dubbio che  egli
 possa,  anche  inconsapevolmente,  essere influenzato nel giudizio da
 sentimenti  e  considerazioni  privati  e  personali,  che  non  sono
 ammissibili alla luce di una retta azione di comando e di un corretto
 esercizio di tale pubblico potere, che la legge vuole sempre ispirato
 a  criteri  di  imparzialita'  nel  pubblico  interesse; sentimenti e
 considerazioni che  tramutano  una  legale  facolta'  in  sostanziale
 arbitrio  e  che  in ogni caso non sarebbe possibile nemmeno provare,
 poiche' la legge non richiede la motivazione della richiesta.
    Tanto importa che si debba effettivamente dubitare che  la  norma,
 cosi'  come  ora strutturata, possa essere in contrasto con l'art. 97
 della Costituzione, il quale stabilisce che i pubblici  uffici  siano
 organizzati  in  modo  che  "siano  assicurati  il  buon  andamento e
 l'imparzialita' dell'amministrazione", cosa, quest'ultima,  che  deve
 essere  privilegiata e in ogni caso tutelata nell'interesse del corpo
 sociale.
    Tanto importa,  ancora,  che  mantenendosi  l'attuale  disciplina,
 sussiste  realmente  anche  pericolo di disparita' di trattamento dei
 militari davanti alla legge, le quante  volte  essi,  pur  trovandosi
 nelle  medesime  condizioni  di  servizio e disciplinari e pur avendo
 commesso fatti analoghi,  di  pari  lieve  entita',  il  che  sarebbe
 logicamente  suscettibile  di  portare  ad  identici  giudizi ai fini
 dell'art. 260 secondo  comma,  del  c.p.m.p.,  subiscano  in  effetti
 trattamenti   diversi,   per   essere  stati  taluni  giudicati  piu'
 gravemente degli altri solo perche' a farlo siano stati comandanti di
 corpo che abbiano ricevuto offesa dal reato e  che  da  tale  ragione
 siano  stati  indotti,  pur  senza  volerlo,  a  dare una valutazione
 diversa e piu' severa di quella a  cui  abbiano  ritenuto  di  dover,
 invece,  pervenire gli altri comandanti di corpo competenti, estranei
 ai fatti da loro valutati.
    Ritiene, in conclusione, il tribunale che, sussistendo  tali  con-
 crete  eventualita' ed esse ponendo in contrasto con gli artt. 97 e 3
 della Costituzione l'esaminata norma, nei limiti denunziati dal p.m.,
 e cioe' nella parte in cui non prevede che la potesta' di proporre la
 richiesta di procedimento non debba  essere  esercitata  da  chi  sia
 persona  offesa  dal reato, non manifestamente infondata si rileva la
 questione di legittimita' costituzionale sollevata.
    La quale e'  anche  rilevante  poiche',  nel  caso  di  dichiarata
 illegittimita'   costituzionale  della  norma,  invalida  sarebbe  la
 richiesta di procedimento avanzata nel  processo  e  si  dovrebbe  di
 conseguenza   disporre  il  proscioglimento  dell'imputato  ai  sensi
 dell'art. 529 del c.p.p., poiche' l'azione penale non  doveva  essere
 iniziata.