IL TRIBUNALE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla
 Corte  costituzionale nella causa penale nei confronti di: Khatib Ben
 Ayed, nato a La Chebba (Tunisia), il 30 gennaio 1964, detenuto in "R.
 Coeli" arrestato il 14 dicembre 1990, artt. 110 del c.p. e  73  della
 legge  n.  685/1975,  in  Fiumicino  il  14  dicembre  1990; Trabelsi
 Fakhgreddine Ben Abdelsalam,  nato  a  Tunisi,  il  18  agosto  1967,
 libero,  arrestato  il 14 dicembre 1990, scarcerato l'8 gennaio 1991,
 artt. 110 del c.p. e 73 della legge n. 685/1975 in  Fiumicino  il  14
 dicembre  1990 imputati del reato di cui agli artt. 110 del c.p. e 73
 della legge  n.  685/1975  e  successive  modificazioni,  perche'  in
 concorso  fra  loro detenevano gr 17 circa di eroina. In Fiumicino il
 14 dicembre 1990.
    Tratti in arresto perche' trovati in possesso di complessivi gr 17
 lordi di  eroina  (gr  6,5  di  sostanza  pura,  come  accertera'  la
 consulenza  disposta  dal p.m.), i due imputati venivano dal pubblico
 ministero presentati al tribunale per i provvedimenti in ordine  alla
 liberta'  personale  e per il contestuale giudizio direttissimo. Dopo
 la convalida dell'arresto e  l'applicazione  della  misura  cautelare
 (custodia   in   carcere),   gli   imputati  chiedevano  il  giudizio
 abbreviato, al quale si opponeva il p.m. rilevando la  necessita'  di
 assumere  nel  dibattimento la deposizione degli ufficiali di polizia
 giudiziaria, al fine di accertare la esatta dinamica dei fatti  e  le
 conseguenti   responsabilita'   di  ciascuno  dei  due  imputati.  Si
 procedeva quindi nelle forme ordinarie.
    Espletato il dibattimento - nel corso del quale  venivano  assunte
 le  deposizioni  dei  testi  indicati  dal  pubblico  ministero  - il
 tribunale, pervenuto a convinzione di  colpevolezza  degli  imputati,
 ritiene di dovere rimettere alla Corte costituzionale la questione di
 legittimita'  dell'art.  452  del  c.p.p.,  sotto  il  profilo  della
 violazione del principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) e
 del principio di stretta legalita' (art. 25 della Costituzione).
    La questione della compatibilita' con  la  Costituzione  di  forme
 pattizie  di  accertamento  della  responsabilita'  penale,  presenta
 specifici  connotati  di  sospetta  illegittimita'  in  relazione  ai
 presupposti   della   trasformazione  del  giudizio  direttissimo  in
 giudizio abbreviato.
    In  via  generale,  e'  gia'  di  per   se'   opinabile   che   la
 procedibilita'  nelle  forme del giudizio abbreviato, che comporta la
 riduzione  di  un  terzo  della  entita'  della  pena,  possa  essere
 condizionata   dalla   decidibilita'   allo   stato  degli  atti.  La
 possibilita' di definire il procedimento sulla sola base  degli  atti
 di indagine dipende infatti o dal caso (l'imputato colto in flagrante
 e',  da  questo  punto  di vista, il piu' favorito) o dalla strategia
 processuale dell'organo  dell'accusa  il  quale,  essendo  libero  di
 scegliere  se  e  quali  indagini  preliminari svolgere, se procedere
 nelle forme ordinarie o nelle forme del giudizio  direttissimo  (alla
 cui  instaurazione  non e' formalmente di ostacolo, nel nuovo codice,
 la complessita' dell'indagine),  e'  in  grado  di  precostituire  le
 condizioni della "decidibilita'" e di incidere quindi, in definitiva,
 sulla entita' della pena.
    Nel   giudizio   direttissimo,   tendenzialmente   (se   non  pure
 tassativamente:   la   questione   e'   controversa)   caratterizzato
 dall'assenza  di  indagini,  la indecidibilita' allo stato degli atti
 non costituisce  di  per  se'  un  ostacolo  alla  trasformazione  in
 giudizio  abbreviato, potendo la lacune probatorie essere colmate con
 il meccanismo previsto  nell'art.  452,  secondo  comma,  del  c.p.c.
 Percio',  a  differenza del giudizio abbreviato "tipico" (artt. 438 e
 443 del c.p.p.), in cui il giudice puo'  rigettare  la  pur  concorde
 richiesta  delle  parti  ove ritenga che il processo non possa essere
 definito allo  stato  degli  atti,  la  trasformazione  del  giudizio
 direttissimo  in  giudizio abbreviato avviene automaticamente sol che
 l'imputato ne faccia richiesta e il pubblico ministero  vi  consenta;
 il  giudice  non  puo'  rigettare la richiesta, ma puo' soltanto, nel
 caso in cui ritenga che lo stato degli atti non consenta  l'immediata
 definizione  del  procedimento,  avviare  il meccanismo di assunzione
 delle prove, anche su temi nuovi oltreche'  incompleti,  disciplinato
 nel citato art. 452.
    A  sua volta codesta Corte, con sentenza n. 183/1990, ha stabilito
 che  il  pubblico  ministero   puo'   legittimamente   opporsi   alla
 trasformazione  del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato solo
 per motivi attinenti alla decidibilita' allo stato degli atti  e  che
 il  giudice,  a  conclusione  del  dibattimento,  puo'  sindacare  la
 fondatezza del dissenso del p.m. ed applicare, in  caso  di  ritenuta
 infondatezza, al diminuente di cui all'art. 442 del c.p.p.
    In  definitiva,  dunque,  la indecidibilita' allo stato degli atti
 non impedisce in via  di  principio  la  instaurazione  del  giudizio
 abbreviato  (nel  quale si puo' supplire alla assenza o insufficienza
 delle prove necessarie per la  decisione)  ma,  contraddittoriamente,
 costituisce  (l'unica)  ragione legittima di opposizione da parte del
 pubblico ministero.
    Tale  contraddittoria  rilevanza  della  decidibilita'  allo stato
 degli  atti,  determina  una  situazione  irrazionale   in   cui   il
 trattamento  sanzionatorio dell'imputato finisce col dipendere da una
 scelta puramente discrezionale del p.m. e dalla mera etichetta  sotto
 la quale si assumono identiche attivita' probatorie.
    In  presenza  di  una  situazione  processuale che non consenta la
 decisione  sulla  base   delle   sole   risultanze   delle   indagini
 preliminari,  il pubblico ministero si trova di fronte all'insolubile
 dilemma di prestare il suo consenso alla instaurazione  del  giudizio
 abbreviato   rischiando   di   sacrificare   le   ragioni  probatorie
 dell'accusa (nel caso in cui il giudice non solleciti  la  necessaria
 integrazione  probatoria)  ovvero  di negarlo, al fine di assicurarsi
 l'assunzione di quelle stesse prove che,  mediante  l'iniziativa  del
 giudice,  potrebbero  essere  assunte  nel giudizio abbreviato. Se il
 p.m. sceglie di prestare il consenso, confidando che il  giudice  dai
 luogo  al  meccanismo  di  integrazione probatoria previsto dall'art.
 452, alla assunzione delle  prove  si  provvedera'  nelle  forme  del
 giudizio  abbreviato.  Ove  invece  il pubblico ministero - o perche'
 ritiene di non poter fare assegnamento sulla iniziativa del giudice o
 per qualunque altra ragione - non presti il suo consenso, alla stessa
 attivita'  probatoria  si  provvedera'  nelle  forme   del   giudizio
 direttissimo.  La  disparita'  di  trattamento  sanzionatorio  che ne
 deriva e' priva di giustificazione legale, atteso che nella legge non
 vi e' alcun criterio che vincoli  o  guidi  la  scelta  del  pubblico
 ministero:  la indecidibilita' allo stato degli atti - che, ripetesi,
 non costituisce un ostacolo formale alla trasformazione del  giudizio
 direttissimo  in giudizio abbreviato, essendo stato all'uopo previsto
 un apposito meccanismo  di  assunzione  probatoria  -  si  rivela  un
 parametro  inidoneo  a  determinare  scelte razionali e in definitiva
 lascia  il  p.m.  incensurabile  arbitro  della  trasformazione   del
 giudizio  direttissimo  in  giudizio abbreviato e quindi della misura
 della pena nella rilevante misura di un terzo.
    Nella concreta prassi giudiziaria avviene che, a parte i  casi  di
 coinvolgimento del giudice in anomale negoziazioni sulla integrazione
 probatoria,  ciascun  pubblico  ministero si determina alla scelta in
 ordine alla instaurazione del giudizio abbreviato secondo le  proprie
 personali   vedute.   Ne  consegue  che,  in  presenza  di  identiche
 situazioni processuali, si  provvede  alla  assunzione  delle  stesse
 prove   (consulenza  tecnica,  testimonianze,  ecc.)  a  volte  sotto
 l'etichetta del "giudizio direttissimo"  a  volte  sotto  quella  del
 "giudizio  abbreviato",  con conseguenze sanzionatorie che pongono la
 normativa che le consente (art. 452 del c.p.p.) in  contrasto  con  i
 principii  di  uguaglianza  (art.  3 della Costituzione) e di stretta
 legalita' (art. 25 della Costituzione). Nella situazione  denunciata,
 infatti,  il parametro (la "indecidibilita'") che incide sulla misura
 della pena non solo e' estraneo al fatto commesso  (cui  la  pena  e'
 vincolata  dal citato art. 25), ma, come si e' detto, non e' in alcun
 modo vincolante per la scelta dell'organo dell'accusa, il  quale,  di
 fronte  alla  "indecidibilita'",  puo' indifferentemente scegliere di
 consentire o di opporsi alla trasformazione del giudizio direttissimo
 in giudizio abbreviato. La  violazione  del  principio  di  legalita'
 delle pene e la irragionevole disparita' di trattamento sanzionatorio
 che ne derivano, sono evidenti: nella stessa situazione sostanziale e
 processuale  l'entita'  della  pena  varia  a  seconda  delle  scelte
 discrezionali del pubblico ministero e del mero nome del procedimento
 nel quale avviente l'assunzione delle prove.
    Ne'  il  differenziato  trattamento sanzionatorio potrebbe trovare
 giustificazione nelle diverse forme in cui le prove  vengono  assunte
 nei  due  giudizi  (pubblico  dibattimento  ed  esame  incrociato nel
 giudizio direttissimo; camera di consiglio e audizione  condotta  dal
 giudice  nell'abbreviato).  Come ha stabilito codesta Corte (sentenze
 nn.  183  cit.  e  n.  66  del  1990),  infatti,  l'unico   parametro
 processuale  che  puo'  giustificare  il  dissenso  del  p.m.  e'  la
 indecibilita' allo stato degli atti e non gia' i  moduli  processuali
 con cui si risolve. Del resto, anche a voler ammettere, nonostante le
 obiezioni  avanzate  in  proposito  dalla  dottrina,  che  l'economia
 processuale  possa  legittimamente  entrare   in   un   giudizio   di
 bilanciamento  dei  valori  costituzionali,  e'  palese  che  la  sua
 rilevanza  non  puo'  spingersi  fino  al  punto  di  sacrificare  il
 principio  di  legalita' delle pene a forme processuali che, sotto il
 profilo della deflazione, hanno ben scarso rilievo.
    Alla denunciata situazione di  illegittimita'  costituzionale  non
 potrebbe ovviare, allo stato della legislazione, neppure la decisione
 del giudice a conclusione del dibattimento. Come ha stabilito codesta
 Corte,  infatti,  il  giudice puo' applicare la riduzione della pena,
 nonostante che il processo si sia  svolto  nelle  forme  ordinarie  a
 causa  della  opposizione  del  p.m.  alla trasformazione in giudizio
 abbreviato, solo quando la predetta  opposizione  sia  ingiustificata
 alla  stregua  della decidibilita' della causa allo stato degli atti.
 La riduzione della pena non puo', pertanto, essere applicata quando -
 come nel caso di specie, in cui le  deposizioni  degli  ufficiali  di
 polizia  giudiziaria  si  sono  rivelate  decisive per l'accertamento
 delle specifiche responsabilita' di ciascuno dei due  imputati  -  la
 situazione  probatoria  predibattimentale  non  avrebbe consentito la
 giusta decisione.
    Ne' si potrebbe pervenire per via interpretativa a ritenere che il
 dissenso  del   p.m.   e'   ingiustificato   tutte   le   volte   che
 l'indecidibilita'  allo  stato  degli atti puo' essere colmata con il
 meccanismo integrativo  previsto  dall'art.  452.  L'indecidibilita',
 infatti,  e' sempre superabile con il predetto meccanismo, atteso che
 l'art. 452 consente di assumere tutti "gli elementi necessari ai fini
 della decisione, nelle forme" (e non anche nei limiti,  gia'  di  per
 se' normalmente sufficienti a colmare le lacune probatorie) "previste
 dall'art.  422".  Pertanto,  affermare  che  il  dissenso del p.m. e'
 ingiustificato  quando  alla  indecidibilita'  puo'  rimediarsi   con
 l'assunzione delle prove consentita dall'art. 452 equivarrebbe a dire
 che il dissenso del p.m. e', praticamente, sempre ingiustificato.
    Allo  stato  della  legislazione,  peraltro,  la  soluzione  sopra
 prospettata,  inammissibile  in  via  di  interpretazione   (che   si
 risolverebbe  in  una violazione del dato normativo, siccome emendato
 dalle  decisioni  di  codesta  Corte),  e'   quella   che,   mediante
 l'ulteriore   intervento   della   Corte   stessa,   puo'  ricondurre
 nell'ambito della legittimita'  costituzionale  la  disciplina  della
 trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato.
    Anche tale soluzione - che nella specie consentirebbe al tribunale
 di  applicare  agli  imputati la riduzione di pena prevista dall'art.
 442 del c.p.p., nonostante che il processo non si  sia  svolto  nelle
 forme   del   giudizio   abbreviato  -  equivarrebbe,  evidentemente,
 all'affermazione (normativa) di immanente  infondatezza  del  diniego
 del p.m. e cioe', in definitiva, alla eliminazione della facolta' del
 p.m.  di  opporsi  alla  instaurazione del giudizio abbreviato. Ma, a
 parte piu' radicali soluzioni legislative,  proprio  la  eliminazione
 del  consenso  del  p.m. appare allo stato l'unica via per conciliare
 con i principi costituzionali la permanenza del  giudizio  abbreviato
 nell'ordinamento processuale.
    Il principio di uguaglianza e di legalita' delle pene esige quanto
 meno  che il giudizio abbreviato sia accessibile a tutti gli imputati
 che, facendone richiesta, hanno  fatto  quanto  in  loro  potere  per
 determinare  le  condizioni  cui  la  legge,  per ragioni di economia
 processuale, ricollega il "premio". Del  resto,  nella  logica  della
 deflazione,  l'ampliamento  dell'area  di  applicazione  del giudizio
 abbreviato "integrato" (che conseguirebbe alla sua instaurazione  per
 sola    richiesta    dell'imputato),   troverebbe   pur   sempre   un
 corrispettivo,   in   termini   di   economia   processuale,    nella
 utilizzazione degli elementi probatori (spesso molto utili per quanto
 incompleti  o  insufficienti) acquisiti al fascicolo del p.m. e nella
 limitazione delle impugnazioni (art. 443  del  c.p.c.).  L'abolizione
 del  consenso del p.m. comporterebbe altresi' l'eliminazione dei casi
 in cui,  a  causa  della  ingiustificata  opposizione  del  p.m.,  la
 riduzione  della  pena  viene applicata dal giudice a conclusione del
 dibattimento  e  cioe'  dopo  una  assunzione  probatoria  rivelatasi
 inutile.
    In ogni caso, come si deduce dalle piu' volte richiamate decisioni
 di   codesta  Corte,  la  copertura  costituzionale  del  trattamento
 sanzionatorio  penale  esige  che  la  riduzione  di  pena   prevista
 dall'art.  442  del  c.p.p.  non  puo'  essere  subordinata  a scelte
 discrezionali del p.m. e deve essere riconosciuta all'imputato  anche
 in assenza di corrispettivi di deflazione.
    In  conclusione,  il  tribunale  ritiene  che  la disciplina della
 trasformazione  del  giudizio  direttissimo  in  giudizio  abbreviato
 contrasti  con  gli  artt.  3  e  25  della  Costituzione  e che tale
 contrasto  possa  essere  superato  mediante  la   dichiarazione   di
 illegittimita'  costituzionale  dell'art.  452,  secondo  comma,  del
 c.p.p., in quanto subordina l'instaurazione del  giudizio  abbreviato
 al  consenso  del pubblico ministero ovvero in quanto non consente al
 giudice  di  ritenere  ingiustificato  il  suo  dissenso  quando   la
 indecidibilita'  allo  stato  degli  atti  possa  essere  colmata dal
 meccanismo di integrazione probatoria previsto dalla predetta norma.