IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI A seguito di rapporto in data 3 agosto 1990 da parte della locale questura, i sigg. Agrippini Antonio ed Evangelista Massimo venivano sottoposti a procedimento penale, in ordine al reato di cui in epigrafe. In data 23 novembre 1990, il p.m. ne chiedeva il rinvio a giudizio, previa fissazione dell'udienza preliminare. All'esito dell'odierna udienza preliminare, viene sollevata questione di legittimita' costituzionale degli artt. 71, 72 e 72-quater della legge n. 685/1975, come modificati dalla legge n. 162/1990 e trasfusi negli artt. 73, 75 e 78 del d.P.R. n. 309/1990, nonche' dell'art. 90 del testo unico citato, in relazione agli artt. 3, 13 e 25 della Costituzione. Di conseguenza, il presente procedimento va sospeso, ordinandosi la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, la notifica della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri e la sua comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. La questione di costituzionalita', nella fattispecie, appare difatti rilevante e non manifestamente infondata. Non manifestamente infondata per i motivi che di seguito si esprorranno; rilevante perche', avuto riguardo alla contestazione mossa all'imputato, nel caso di specie si verte in processo a carico di mero detentore (detentore-consumatore) di sostanza stupefacente. All'ordierna udienza, la difesa, nel sottoporre al G.I.P. la questione di non manifesta infondatezza, ha rilevato come, a quasi un anno dalla sua emanazione "la nuova legge sugli stupefacenti non sortisce l'effetto sperato di colpire il traffico e specie il grosso traffico degli stupefacenti, ma sta comportando un incremento di processi soprattutto nei confronti di semplici consumatori di droga (incremento che peraltro dimostra come anche nei confronti dei consumatori la nuova legge non sortisce l'effetto dissuasivo sperato)". In sostanza, stando alle argomentazioni difensive, al di la' delle buone intenzioni dei compilatori la nuova legge oggettivamente non e' riuscita ad incidere in maniera sensibile sul versante dello spaccio di stupefacenti ed anzi la sua maggiore severita' (anche nei confronti dei piccoli spacciatori e degli stessi consumatori) potrebbe avere innescato il noto meccanismo: aumento dei rischi-aumento dei profitti, a tutto vantaggio del grande traffico degli stupefacenti; mentre, sul versante del consumo di stupefacenti, l'incremento dei procedimenti pendenti e specie di quelli a carico di imputati recidivi specifici per i reati di droga e di imputati detenuti (magari detenuti proprio per precedenti condanne in materia di stupefacenti) dimostrerebbe lo scarso effetto deterrente della disciplina in questione nei confronti dei consumatori ed anche l'inidoneita' di fatto della struttura carceraria ad assicurare che il consumatore detenuto non ricada nell'uso della sostanza all'interno del carcere. In simili condizioni, l'applicazione della nuova disciplina, pur producendo forse nell'opinione pubblica il sentore di un accresciuto impegno nella lotta alla droga, rischia in realta' di risolversi soprattutto nella criminalizzazione e penalizzazione delle sole fasce piu' deboli, derelitte, sventurate, emarginate e spesso disperate del complesso mondo degli stupefacenti, senza peraltro riuscire a dissuaderle efficacemente dall'uso della droga; rischia di aggravare ulteriormente la condizione ed i problemi di soggetti (i consumatori, ultimi anelli ed anelli piu' deboli della catena) che spesso gia' di per se' soffrono di situazioni di disadattamento familiare e/o sociale e che la societa', in tal modo, prima sembra emarginare e poi punire. La giustizia stessa parebbe cosi' venire ad assumere un ruolo di basso profilo (ruolo che non le e' proprio e che non puo' ne' deve esserlo proprio): quello di un potere forte con i deboli, ma incapace di scalfire o, quantomeno, di incidere in maniera veramente sensibile, dirimente e duratura sui gangli "forti" del fenomeno-droga, sul grosso mercato degli stupefacenti e sui fattori allo stesso connessi (grande criminalita' organizzata di tipo mafioso e camorristico e sua gestione del traffico internazionale di droga, grande circolazione ed accumulazione di capitali di provenienza illecita, riciclaggio degli stessi in attivita' sia lecite che illecite, formazione repentina di grossi patrimoni, nascita di nuove banche, intrecci tra criminalita' organizzata e settori consistenti dell'economia, e non solo dell'economia, e via di seguito). E non a caso, sul punto, anche il tribunale di Roma (sezione quinta), nella sua ordinanza depositata il 7 gennaio 1991, sostiene tra l'altro che, sulla grave manifestazione criminale costituita dal grosso traffico di stupefacenti, "l'incidenza della repressione penale e', a fronte della imponenza del fenomeno, poco piu' che simbolica"; e, richiamandosi alla relazione del Consiglio superiore della magistratura sullo stato della giustizia 1986-1990, sottolinea il fatto che il processo penale, per sua natura, puo' e deve perseguire "non gia' il fenomeno criminale, bensi' i concreti comportamenti criminosi" il che "pone in luce i limiti del contributo che la giurisdizione penale puo' fornire alla risoluzione dei problemi che hanno radici profonde e diffuse nella struttura della societa'". Potrebbe porsi, a questo punto, sulla premessa dell'inadeguatezza della nuova disciplina sugli stupefacenti a far fronte efficacemente ed equamente al fenomeno, il problema dell'esistenza di approcci culturali diversi e di vie alternative (che pure vi sono) in subiecta materia e, soprattutto, il problema della loro concreta praticabilita' o meno. Ma tali problemi, com'e' naturale, non possono essere affrontati in questa sede. Quel che qui rileva e', invece, valutare se, in base alle sovraesposte argomentazioni difensive o ad altre argomentazioni ancora, la nuova legge e, in particolare, gli artt. 71, 72 e 72-quater della legge n. 685/1975, come modificati dalla legge n. 162/1990 e trasfusi negli artt. 73, 75 e 78 del d.P.R. n. 309/1990, nonche' l'art. 90 del d.P.R. citato siano conformi al dettato costituzionale oppure se, al contrario, non appaia manifestamente infondata la questione della loro costituzionalita'. Ed invero, in proposito, questo g.i.p. reputa sussistere sospetto di incostituzionalita' delle norme appena richiamate sotto i diversi profili che, qui di seguito, motivamente vengono elencati. 1) Violazione dell'art. 3 della Costituzione sotto il profilo del pari trattamento legislativo delle situazioni diverse dello spacciatore e del consumatore. Possibile violazione degli artt. 25, 13 e 3 della Costituzione sotto il profilo della mancanza di offensivita' sociale della detenzione finalizzata al consumo. Bene il tribunale di Roma, nella sua citata ordinanza depositata il 7 gennaio 1991, osserva come la legge n. 685/1975 configurava, rispetto alla detenzione di droga, un reato di pericolo presunto (art. 71) ed uno di pericolo concreto (art. 72), nel senso che la detenzione era punita solo ed esclusivamente in quanto comportava il pericolo (presunto ex art. 71 e da provare ex art. 72 della sua destinazione allo spaccio, come dimostrava la non punibilita' del detentore di modica quantita' di stupefacente ad uso personale ex art. 80 nonche' la non punibilita' del consumo pregresso, quale che fosse la quantita' di droga consumata, come affermato dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 170/1982). La legge n. 162/1990, invece, nel rovesciare questa impostazione, punisce con la sanzione penale la detenzione di stupefacenti indipendentemente da una situazione di pericolo (concreto o presunto) di destinazione allo spaccio, ossia indipendentemente da una ipotetica presunzione giudiziale di spaccio. L'art. 80 della legge n. 685/1975, difatti, nel prevedere espressamente la non punibilita' del detentore- consumatore di modiche quantita' di stupefacenti, teneva giustamente nel debito conto il dato, notorio nell'esperienza giudiziaria, che i consumatori, specie quelli di cosiddette droghe leggere, si riforniscono di quantita' superiori al fabbisogno giornaliero e cio' anche al fine di evitare i rischi o i fastidi connessi ai quotidiani contatti col mondo del traffico; alla luce di tale dato, la s.C. aveva da ultimo (v. es. Cass. sezione sesta, 25 novembre 1988) rapportato il concetto di "modica quantita'" a quello della quantita' che consentisse "ad un medio assuntore di soddisfare le sue necessita' per due-tre giorni". La legge n. 162/1990, come trasfusa nel t.u. n. 309/1990, non tiene invece conto di questo innegabile dato della realta' e, nel fissare sempre e comunque la soglia di rilevanza penale della fattispecie oltre la "dose media giornaliera", finisce cosi' per punire automaticamente e sostanzialmente non solo lo spacciatore ma anche il detentore-consumatore;di tanto e' riprova nel fatto che l'art. 73 del t.u. citato si applica alla detenzione e consumo pregressi di quantita' di droga superiori alla "dose media giornaliera", e quindi a situazioni per le quali non puo' neppure ipotizzarsi un pericolo di spaccio. Dunque, la nuova norma punisce anche (e contro quella che appare essere la soggettiva intenzione del legislatore, come emergente dai lavori preparatori) la detenzione finalizzata al consumo personale. Ma, cosi' facendo, essa viene ad equiparare due situazioni sicuramente difformi, quella dello spacciatore e quella del consumatore; situazioni, queste, la cui diversita' ha carattere qualitativo e non meramente quantitativo. Vero e' che varie volte sul mercato la figura del consumatore si intreccia con quella del piccolo spacciatore; ma e' pur vero che, per quanto esposto, il nuovo art. 73 non configura un reato di pericolo e quindi non tiene conto ne' vuole tener conto di tale ipotetico intreccio (che comunque avrebbe dovuto poi essere verificato sempre volta per volta in sede di giudizio, restando sempre ferma altrimenti la cennata distinzione qualitativa tra spacciatore e consumatore nel singolo caso concreto), cosi' come e' vero che, sempre alla luce di quanto esposto, tale norma si applica anche alle fattispecie per le quali il pericolo di spaccio non e' neppure ipotizzabile e per le quali quindi quell'intreccio nel caso concreto sicuramente e' da escludere. Resta, percio', l'anzidetta distinzione qualitativa tra il consumatore e lo spacciatore, distinzione tanto piu' marcata quanto piu' vi e' la prova, nel caso concreto, che la sostanza eccedente la dose media giornaliera era sicuramente destinata (o e' stata destinata) all'uso personale del suo detentore. In contrasto con tale difformita' di carattere qualitativo, l'art. 73 del t.u. citato parifica la situazione dello spacciatore a quella del consumatore nell'ambito di un'unica fattispecie penalmente rilevante, cosi' venendosi a porre normativamente la distinzione tra queste due figure su di un piano meramente eventuale e di carattere quantitativo: sul piano, cioe', della graduazione della pena e/o dell'eventuale applicazione al consumatore del quinto comma dell'art. 73 citato. Ma sono piani, questi ultimi, che non valgono a sanare la disparita' di trattamento che, in tal modo, il legislatore e' venuto a determinare tra situazioni qualitativamente difformi: non la sana la graduazione della pena, perche' questa, alla luce dei criteri di cui all'art. 133 del c.p., si risolve in un fatto meramente quantitativo e perche' sarebbe insostenibile asserire che alle fattispecie minime di spaccio di stupefacenti non possa mai applicarsi il minimo edittale della pena; non la sana il quinto comma dell'art. 73, perche' il legislatore non pare farne un titolo autonomo di reato e, comunque, non lo riferisce solo alla detenzione finalizzata al consumo ma anche allo spaccio (purche' di "lieve entita'"), mentre, per converso, riferisce gli altri commi anche alla detenzione (finalizzata al consumo) oltre che allo spaccio. Non si dimentichi, infine, che la parificazione normativa in questione tra le difformi situazioni dello spacciatore e del consumatore ha dei riflessi gravi ed abnormi anche sul piano processuale, nel senso che l'art. 73 citato pare avere assorbito il disposto del vecchio art. 71 della legge n. 685/1975 (v. art. 14 della legge n. 162/1990) ed essersi allo stesso sostituito in toto, sicche' l'arresto obbligatorio in flagranza ex art. 380, lett. h), del nuovo c.p.p. risulta oggi riferibile non soltanto alle ipotesi di spaccio ma pure a quelle di detenzione di dosi modiche o anche minime di droga pur se eccedenti in misura irrilevante la dose media giornaliera), ancorche' sicuramente finalizzate all'uso personale. Cosi' stando le cose, il legislatore avrebbe potuto e dovuto prevedere per la detenzione (finalizzata al consumo) di quantita' di droga eccedente la dose media giornaliera un'autonoma e distinta fattispecie incriminatrice, di minore gravita' rispetto a quella che sanziona lo spaccio. Se cio' fosse accaduto, peraltro, ci si sarebbe dovuti porre nondimeno il quesito circa la costituzionalita' o meno di detta fattispecie sotto il profilo della violazione del coord. disp. degli artt. 25 e 13 della Costituzione, posta l'estraneita' al nostro diritto penale sostanziale di ogni ipotesi di reato contro se stesso (salva, invece, l'eventuale applicazione di sanzioni amministrative, come ad es. nei casi di guida di autoveicoli senza cinture di sicurezza o di motocicli senza casco, ecc.) e posto quello che sembrerebbe un pericolo di mera previsione (pericolo astratto e non pericolo concreto) del rischio derivante ai terzi dall'assunzione (occasionale o) abituale di stupefacenti da parte del tossicodipendente (discorso di pericolo, quest'ultimo, che, in relazione al consumo delle cosiddette droghe leggere, anche sulla base di quanto si dira' in seguito non pare neppure ipotizzabile): posta, insomma, la mancanza di offensivita' (intesa come non preventivabile offensivita' in concreto nel singolo caso specifico) del reato (di detenzione finalizzata al consumo) in questione. Sarebbe, inoltre, tornato il discorso relativo all'art. 3 della Costituzione, questa volta con riferimento al fatto che non si vede perche' il consumo giornaliero di una "dose media" non viene ritenuto socialmente offensivo (dal punto di vista della sua rilevanza penale) dal legislatore, mentre lo sarebbe il consumo giornaliero o magari del tutto occasionale di una dose di pochissimo superiore a quella "media". E tali considerazioni, riferibili come si diceva al caso in cui il legislatore avesse prevista un'autonoma e distinta fattispecie incriminatrice per la detenzione-consumo rispetto a quella dello spaccio, tali considerazioni valgono, parimenti, anche con riferimento all'attuale incriminazione (nell'ambito di una medesima fattispecie astratta) della detenzione di droga eccedente la dose me- dia giornaliera ma sicuramente destinata al consumo personale. L'art. 73 del t.u. citato, in conclusione, sembra violare due volte la Costituzione: una prima volta sotto il profilo della parita' di trattamento delle situazioni qualitativamente difformi del consumatore e dello spacciatore; ed una seconda volta sotto il profilo della incriminazione di una condotta (quella della detenzione di dose destinata al consumo personale, ancorche' eccedente la media giornaliera) che pare priva di offensivita' sociale. In conclusione, alla luce di tutto quanto esposto, la legittimita' costituzionale potrebbe ripristinarsi solo scriminando realmente il consumo degli stupefacenti e cosi' distinguendo qualitativamente tale situazione da quella penalmente rilevante dello spaccio; scriminante che, del resto, lo stesso legislatore (consapevole dei problemi di costituzionalita' che sarebbero potuti derivare dalla criminalizzazione dell'uso personale di droga, consapevolezza che emerge dagli stessi lavori preparatori) agli artt. 75 e 76 del t.u. citato ha voluto in pratica stabilire, pur comminando per il consumo personale di droga delle sanzioni di carattere amministrativo. Ma cio' che e' rimasto fuori dalla porta e' poi entrato dalla finestra, dato che, per quanto gia' detto, in realta' l'art. 73 del t.u. citato finisce per attribuire rilevanza penale non solo alla condotta dello spacciatore ma pure a quella del detentore-consumatore. Una scriminante concreta ed effettiva della condotta di quest'ultimo puo' passare, dunque, solo attraverso la soppressione del riferimento al concetto fittizio della "dose media giornaliera" e la rivalutazione dei classici criteri propri dell'accertamento giudiziario, nel cui ambito la quantita' di droga detenuta costituisca solo uno (ma non l'unico, esclusivo ed automatico) tra gli elementi di prova in concreto di un ipotetico spaccio. Solo in tal modo, il discrimine tra lo spaccio (punibile) ed il consumo (non punibile) potrebbe basarsi non sul criterio quantitativo (di per se' solo fittizio ed incostituzionale), ma sulla realta', come meglio si dira' pure sub n. 2. 2) Violazione dell'art. 3 della Costituzione sotto il profilo del pari trattamento legislativo delle situazioni diverse di ciascun singolo consumatore. La legge n. 162/1990, come trasfusa nel t.u. n. 309/1990, e specificamente gli artt. 73, 75 e 78 di quest'ultimo fanno riferimento, al fine della determinazione della soglia di rilevanza penale della detenzione (ancorche' finalizzata al consumo personale) di stupefacenti, ad un concetto tanto generico quanto vago ed ambiguo, che e' quello della "dose media giornaliera". Trattasi di nozione irreale, non sopportabile da alcun valido sostegno dal punto di vista tecnico-scientifico, posto tra l'altro che: a) la maggiore o minore efficacia stupefacente di una data sostanza varia a seconda del modo di assunzione della stessa; e, soprattutto, che: b) sia la maggiore o minore efficacia stupefacente che, correlativamente, il maggiore o minore bisogno (per quelle droghe che determinano tossicodipendenza) di una data sostanza variano a seconda del grado di tolleranza del soggetto assuntore. A) Sotto il primo profilo, e' notorio come molte sostanze stupefacenti possano essere assunte in vari modi e cioe' per via orale, per inalazione nasale, per inalazione dei fumi, per via endovenosa, ecc. Il modo di assunzione varia a seconda dei soggetti e delle rispettive abitudini individuali, ma, a seconda del diverso modo di assunzione, consegue pure una maggiore o minore effetto stupefacente; sul punto, bene trib. Roma citato osserva per inciso come la fissazione normativa di soglie ridotte di dmg possa indurre i consumatori che vogliano mantenersi nei limiti del penalmente lecito a "convertire" i propri modi di assunzione di droga in modo che assicurino un maggiore effetto stupefacente a dosi inferiori ma che, al tempo stesso, sono piu' pericolosi. B) Circa il secondo profilo, che e' quello che qui piu' interessa, e' altrettanto notorio come, in materia di stupefacenti, non e' possibile fissare delle medie aritmetiche sulla cui base stabilire oggettivamente un discrimine oggettivo tra il penalmente rilevante ed il penalmente irrilevante; cio' in quanto il grado di tolleranza delle diverse sostanze stupefacenti varia, soggettivamente, a seconda dei diversi singoli assuntori. Qui la ricerca di un discrimine oggettivo da un lato ed il dato reale della diversa tolleranza soggettiva (nonche' del diverso bisogno, per le droghe pesanti) dall'altro lato cozzano inesorabilmente tra loro, posto che detta tolleranza (o bisogno) varia a seconda di una serie di circostanze individuali tra cui specialmente il maggiore o minore tempo da cui un determinato soggetto fa uso di una certa droga e la maggiore o minore assiduita' con cui lo stesso ne fa uso. Cosi' stando le cose, se davvero si vuole mantenere la norma penale aderente alla realta' (cosi' come deve essere) e non risolverla in una mera e tanto arbitraria quanto assurda finzione, e se davvero non si vuole criminalizzare il singolo consumatore cosi' come i Lavori preparatori e gli artt. 75 e 76 in teoria affermano di non voler criminalizzare, deve convenirsi sul fatto che nessuna oggettiva "medieta'" puo' tornare utile in subiecta materia ai fini della determinazione di una soglia di rilevanza penale. E, non a caso, lo stesso parere 30 novembre 1989 espresso, all'unanimita' tra tutti gli esperti, su richiesta ministeriale nel corso dell'iter parlamentare della nuova legge, dall'Istituto superiore di sanita' affermava che: quanto alla fissazione di un criterio di discrimine del penalmente rilevante in materia di stupefacenti, "la definizione della dose me- dia giornaliera non puo' servire a detto scopo, data l'ampiezza del range dei quantitativi che possono essere adoperati da diversi assuntori o dallo stesso assuntore in momenti differenti". Ciononostante, la nuova legge ha poi rapportato quel discrimine al fittizio concetto della "dose media giornaliera". Ma, cosi' facendo, per quanto si e' appena esposto essa sembra avere violato l'art. 3 della Costituzione sotto il profilo del pari trattamento da essa legge ordinaria riservato alle situazioni difformi di ciascun singolo consumatore (nonche' di uno stesso consumatore, a seconda dei diversi stadi temporali in cui lo si prenda in considerazione). A parte la totale arbitrarieta' nella fissazione di detta "dose media" tra un minimo ed un massimo ("medieta'" questa che del resto non appare in alcun modo definibile sotto un aspetto scientificamente corretto), difatti, deve ribadirsi che, com'e' notorio e come emerge ampiamente da tutta la letteratura scientifica in materia, il grado di tolleranza soggettivo varia notevolmente a seconda delle specifiche condizioni individuali di ciascun assuntore. Cosi', ad esempio, sempre nel citato suo parere, l'Istituto superiore della sanita' rilevava che, per gli oppiacei, il ventaglio va da una dose farmacologicamente attiva di 0,01 - 0,02 g giornalieri nel soggetto non assuefatto ai piu' grammi al giorno di cui abbisognano vari soggetti assuefatti; per la cocaina, il ventaglio va da una dose per via inalatoria di 0,04 - 0,1 g nel soggetto non assuefatto ai piu' grammi al giorno di soggetti assuefatti; e via di seguito. Se queste premesse, l'Istituto superiore della sanita' concludeva sottolineando come un discrimine del penalmente rilevante dal non, fondato sul solo dato ponderale (dose media giornaliera) "puo' essere fortemente penalizzante per alcuni e colpevolmente gratificante per altri": fortemente penalizzante specie per i tossicodipendenti abituali di droghe pesanti, e cioe' proprio per i soggetti piu' deboli tra tutti e, nel contempo, piu' insensibili alla minaccia della sanzione penale, alla quale restano tuttavia esposti pur mantenendo l'approvvigionamento nei limiti del loro fabbisogno quotidiano; colpevolmente gratificante specie per i consumatori occasionali e per i piccoli spacciatori-consumatori occasionali, i quali ultimi, soddisfatto il proprio desiderio (5-10 mg, come si e' visto), conservano un certo margine ponderale anche per un'attivita' di piccolo spaccio. La disciminazione, consistente nel pari trattamento legislativo di consimili situazioni difformi (tramite il ricorso normativo al concetto oggettivo e "livellatore" della dose media giornaliera, concetto peraltro del tutto arbitrario, ambiguo ed atecnico), sembrerebbe dunque evidente. La legalita' costituzionale, anche sotto il profilo in esame, potrebbe ripristinarsi solo abbandonando il criterio iniquo e fittizio della "dose media giornaliera" e, in generale, ogni criterio basato esclusivamente sulla quantita'. Un criterio esclusivamente quantitativo, difatti, se troppo ampio appare inutile perche' potrebbe scriminare non solo il consumo ma anche lo spaccio; e, se troppo ristretto, appare incostituzionale perche' finisce di fatto per criminalizzare anche il consumo, riservandogli un trattamento analogo allo spaccio. L'accertamento giudiziale circa l'effettiva destinazione di una determinata sostanza al consumo o allo spaccio dovrebbe basarsi, dunque, non sulla finzione della "dose media giornaliera" ma sulla realta', e cioe' non sull'automatismo della d.m.g. ma sull'effettivo tipo di condotta, laddove la diversa quantita' di droga detenuta costituisca solo uno (ma non l'unico, esclusivo ed automatico) tra gli elementi di prova del consumo oppure dello spaccio, come gia' detto sub n. 1, in fine. 3) Violazione dell'art. 25 della Costituzione sotto l'aspetto della riserva di legge. L'art. 73 (e l'art. 75) del testo unico citato rinvia al successivo art. 78 per la fissazione della dose media giornaliera, ossia della soglia di punibilita', del limite quantitativo massimo oltre il quale la detenzione di stupefacente a qualsiasi titolo (di consumo o di spaccio) costituisce reato. L'art. 78, a sua volta, rinvia ad un decreto del Ministro della sanita', d.m. (n. 186/1990) poi emanato. Bene, sul punto, vari giudici, tra cui il tribunale di Roma nella sua citata ordinanza ed il g.i.p. di Camerino nella sua ordinanza 11 febbraio 1991, hanno osservato come quest'ultimo rinvio da parte del legislatore alle determinazioni della p.a. e' totale e dimissorio e non individua ne' determina in alcun modo concretamente la nozione di "dose media giornaliera" ne' il contenuto di questo concetto ovvero i criteri, i presupposti, i caratteri o i parametri alla cui luce ricostruirlo, nel che pare sostanziarsi una violazione della riserva di legge in materia penale, imposta dall'art. 25 della Costituzione. In simili condizioni, come giustificare la correlazione stabilita dalla p.a. tra la "dose media giornaliera" e determinate grandezze ponderali anziche' altre? Come giustificare il richiamo (per quelle sostanze per le quali tale richiamo vi sia) della tabella a dei "dati epidemiologici" del tutto vaghi, discutibili ed incerti? E se il Ministro, sulla base di nuovi "dati epidemiologici" o di una nuova e diversa valutazione di quelli gia' presi in esame, domani ci ripensasse, innalzando o abbassando la soglia della "dose media giornaliera" ed andando cosi' ad incidere ulteriormente sulla soglia di rilevanza penale del fatto? Verrebbero in tal modo scriminate, in virtu' di un successivo provvedimento amministrativo, anche le condotte precedenti gia' punite ma al di sotto della nuova soglia eventualmente piu' alta? In materia, la stessa Corte costituzionale, nella sua sentenza n. 492/1987, ha gia' sancito che, ai fini del rispetto del principio di legalita', la norma primaria deve indicare "con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto ed i limiti dei provvedimenti dell'autorita' non legislativa", affinche' "il reato sia tassativamente determinato in tutti i suoi elementi costitutivi"; sempre la Corte costituzionale, nella successiva sentenza n. 282/1990, ha ribadito che la funzione integrativa della norma penale da parte di un provvedimento amministrativo e' legittimamente svolta solo quando la norma penale medesima determini gli elementi essenziali, il "contenuto essenziale dell'illecito penale", contenuto la cui individuazione non puo' essere in alcun modo rimessa alla p.a., specie quando, come nel caso di specie (art. 78, secondo comma), quest'ultima "rimanga libera di mutare, sostituire od abrogare i predetti elementi essenziali", sicche' risulta incostituzionale ogni norma penale (e la Corte, in quella occasione, ha dichiarato l'incostituzionalita' della norma allegata a sospetto) la quale consenta che "la condotta penalmente rilevante" emerga "solo in connessione coi contenuti specifici" di un decreto ministeriale. E, nel caso di specie, per quanto gia' detto ricorre proprio una situazione analoga a quella gia' sottoposta al vaglio della Corte costituzionale e da quest'ultima censurata. Il vuoto assoluto di cui all'art. 78 nella predeterminazione di criteri di carattere scientifico o quantomeno giuridico appare difatti evidente, a differenza di quanto accade, ad esempio, per il disposto dell'art. 12 della legge n. 685/1975 (ora art. 14 del t.u.), ove si assiste ad una ricca ed articolata specificazione di criteri e dettagli, che limita e circoscrive l'intervento della p.a. nei limiti di un'attivita' meramente tecnica. Per di piu', l'art. 78 rinvia genericamente alla p.a. per la costruzione di una entita' ambigua, irreale e fittizia (la "dose media giornaliera"), insuscettibile di una qualsiasi definizione dal punto di vista tecnico-scientifico, come gia' rilevato dall'Istituto superiore di sanita' e come gia' illustrato sub n. 2. Non a caso, lo stesso d.m. n. 186/1990, nel porre (tramite il richiamo alla tabella allegata) i limiti quantitativi massimi di principio attivo compendianti ciascuna dose media giornaliera, non si premura certo di dar conto dei parametri e dei criteri adottati (che avrebbero dovuto peraltro essere fissati dalla legge e, come gia' detto, non lo sono stati), ne' a tale carenza ovviano le brevissime ed ininfluenti note esplicative annesse alla tabella: e detta carenza del d.m., come bene osserva il tribunale di Roma "e' palesemente ascrivibile non gia' a carenze scientifiche dell'elaborato tecnico, ma alla ovvia impossibilita' di dar conto di parametri che non esistono". La verita', dunque, e' che detti criteri e parametri non sono predeterminanti dalla legge (come, ai fini della sua costituzionalita', dovrebbe essere), perche' non predeterminabili, e non sono neppure spiegati dallo stesso d.m. perche' non spiegabili: non predeterminabilita' e non spiegabilita' derivanti dalla pura e semplice non esistenza di detti criteri e parametri. Proprio alla luce di tali considerazioni, non sembra che possa il giudice disapplicare l'illegittimo provvedimento amministrativo in questione, perche', cosi' facendo, ad una illegittima ed irrealistica determinazione della p.a. verrebbe a sostituirsi una illegittima (perche' arbitraria: il giudice non si limiterebbe ad accertare il fatto, ma concorrerebbe impropriamente a costituire la fattispecie) ed irrealistica determinazione del giudice; determinazione che, proprio per questo motivo, neppure il legislatore ordinario potrebbe in ipotesi demandare al giudice e che, altrimenti, oltretutto condurrebbe ad una situazione d'incertezza ancor piu' grave di quella lamentata, nel vigore della legge n. 685/1975, in relazione alla "modica quantita'". Ne' pare ipotizzabile una dichiarazione d'incostituzionalita' del solo art. 78 nei limiti in cui rimette alla p.a., senza la necessaria predeterminazione dei criteri, la quantificazione della dose media giornaliera, dato che, per tutto quanto esposto, detti criteri sono irreali e neppure il legislatore ordinario sembra percio' poter fare legittimamente espresso riferimento e ricorso a dei criteri scientificamente (oltre che giuridicamente) inesistenti, se non a costo di violare, di nuovo, l'art. 3 della Costituzione, dato che non si vede perche' dovrebbe essere scriminato il consumo giornaliero di una certa "dose media" in ipotesi stabilita (arbitrariamente) dal legislatore e dovrebbe essere, invece, incriminato il consumo giornaliero o magari del tutto occasionale di una dose di pochissimo superiore a quella "media", "media" arbitraria in quanto non rispondente ad alcun criterio ne' scientifico ne' giuridico. La legittimita' costituzionale, dunque, pure sotto il profilo in esame potrebbe essere ripristinata solo abbandonando l'irrealistico concetto della "dose media giornaliera" di cui agli artt. 73, 75 e 78 del t.u. quale discrimine tra un preteso consumo non punibile ed un pretesto spaccio punibile. Ancora una volta, come gia' ullustrato in chiusura dei nn. 1 e 2, dovrebbe essere rimesso al concreto accertamento giudiziario la ricerca della verita' reale, alla luce non di un fittizio ed arbitrario mero criterio quantitativo, bensi' dei classici mezzi probatori propri del processo penale e del libero convincimento giudiziale: questo dovrebbe essere l'unico discrimine efficace ed idoneo tra il consumo non punibile e lo spaccio punibile, configurandosi la quantita' di droga detenuta solo come uno (ma non l'unico, esclusivo ed automatico) tra gli elementi di prova in concreto del consumo e dello spaccio. 4) Violazione dell'art. 3 della Costituzione sotto il profilo del piu' grave trattamento normativo riservato a situazioni meno gravi (droghe leggere) rispetto a quello riservato a situazioni piu' gravi (droghe pesanti); nonche' del piu' grave trattamento normativo riservato ai consumatori occasionali (situazione meno grave) rispetto ai consumatori abituali (situazione piu' grave). La nuova legge continua a sanzionare lo spaccio e viene a sanzionare anche il consumo (oltre la "dose media giornaliera") delle cosiddette droghe leggere (cannabis indica e suoi derivati), il cui uso, com'e' noto, e' invalso tra i giovani specie a partire dalla contestazione politica del '68 in poi. La materia, per la verita', e' oggetto di discussione, su opposti versanti e non solo nel nostro Paese, da molti anni. Su un versante, la scelta criminalizzatrice in esame viene sostenuta e condivisa, facendosi riferimento a presunti danni per la salute dell'assuntore e, soprattutto, al pericolo della c.d. "escalation" e cioe' del passaggio dal loro uso a quello delle droghe pesanti. Da altro versante, rappresentato da non meno qualificate forze poltiche e culturali, medici, docenti, sociologi, giuristi, ecc., si e' invece affermata l'opportunita' di depenalizzare l'intera materia concernente le c.d. droghe leggere (depenalizzazione, del resto, gia' attuata sia in Paesi di culture diverse dalla nostra che anche in taluni Paesi occidentali) e cio' per un vario ordine di motivi: si sostiene, in primo luogo, che esse non procurano alcun comprovato danno psicofisico generale ne' danno ad organi specifici, a differenza di quanto accade per altre sostanze (alcool, nicotina, caffeina, psicofarmaci, ecc.) le quali, per converso, sono legalizzate; in secondo luogo, che le c.d. droghe leggere non provocano alcuna assuefazione ne' fisica ne' psichica; in terzo luogo, che esse non spingono a passare all'uso delle droghe pesanti, passaggio che, invece, viene favorito proprio dalla promiscuita' in cui queste differenti sostanze si trovano sul mercato illegale e dalla disinformazione circa la loro estrema diversita'. Si e' giunti a parlare, percio', circa la "cannabis" e suoi derivati, di "non-droghe" ed a richiedere pure con referendum costituzionale l'abrogazione della relativa precedente legge incriminatrice. A tale seconda impostazione sembra aderire chiaramente il tribunale di Roma, nella sua citata ordinanza del 7 gennaio 1991, laddove afferma che l'uso della cannabis "come se' visto e come dimostra l'esperienza, non crea alcun problema ne' medico, ne' familiare, ne' sociale, al di fuori di quello della sua criminalizzazione". D'altronde, la stessa relazione al Senato sulla nuova legge afferma (p. 13) che le c.d. droghe leggere "di regola non inducono a dipendenza fisica e psichica", ed appare preoccupata piuttosto dal pericolo dell'"escalation".Ma, su quest'ultimo punto, il tribunale di Roma replica che "tale pericolo e' del tutto evanescente, se e' vero che il passaggio dal consumo della cannabis a quello delle sostanze oppiacee (che sono tipiche di figure socio-culturali diverse se non pure antagoniste), e' oggi fenomeno sporadico e raro, come dimostra, tra l'altro, il rapporto numerico tra i due tipi di consumatori (secondo le stime piu' accreditate, i consumatori di oppiacei sarebbero circa 2/300 mila, mentre quelli di cannabis supererebbero i 3 milioni)" e come dimostra pure il fatto che, in altre realta', interi popoli fano uso di cannabis da secoli senza percio' essere passati all'uso degli oppiacei. Se quanto sopra risponde a verita', i dubbi d'incostituzionalita' gia' illustrati ai nn. 1 e 3 appaiono ancor piu' gravi se riferiti alle c.d. droghe leggere: a) il dubbio di cui al n. 1, sia soto il profilo della cennata punibilita' ex art. 73 del t.u. (al di la' di quella che pare essere la soggettiva intenzione del legislatore) anche del consumatore, sia sotto il profilo della mancanza di offensivita' sociale dell'intera materia concernente le sostanze in questione; b) il dubbio di cui al n. 3, sotto il profilo della riserva di legge, nel senso che, in mancanza di qualsiasi criterio predeterminato dal legislatore (predeterminazione che, del resto, neppure lo stesso legislatore protrebbe compiere in maniera irrealistica, salvo a violare l'art. 3 della Costituzione, alla luce di quanto gia' esposto sempre sub n. 3), del tutto arbitraria appare la scelta contenuta nella tabella amministrativa di fissare in 50 mg di THC (gr 2,5 al 2% e gr 0,5 al 10%) la "dose media giornaliera", tant'e' che, in proposito, la relativa nota esplicativa nulla dice, sicche' si riprongono qui, aggravati, i gia' gravi quesiti sollevati sub n. 3: perche' 50 mg e non 30 mg o 80 mg? E se il Ministro domani ci ripensasse, innalzando o abbassando questo limite e cosi' andando ad incidere ulteriormente sulla stessa soglia di rilevanza penale del fatto? Verrebbero in tal modo scriminate in virtu' di un successivo provvedimento amministrativo anche le condotte precedenti gia' punite al di sotto della nuova soglia eventualmente piu' alta? Del resto, la stessa nota 2 luglio 1990 dell'I.s.s. si rifa' piuttosto a considerazioni di prevenzione e di politica criminale (le quali, oltre ad essere del tutto opinabili, spettano peraltro esclusivamente al legislatore e non anche alla p.a.) e si mostra in difficolta' allorche' cerca di dare conto della determinazione quantitativa in questione; difficolta' derivante dal fatto che, come giustamente osserva pure trib. Roma citato, per la cannabis le fonti di rilevazione dei "dati epidemiologici" (SAT e sequestri di polizia) non si rivelano eloquenti, dato che nessun fumatore di canapa si e' mai rivolto al SAT e che i sequestri non concernono quasi mai la sostanza gia' confezionata in sigaretta e pronta per il consumo, tant'e' che per la cannabis a detti dati (ne' ad altri) le note esplicative della tabella allegata al d.m. n. 186 non fanno alcun riferimento. Anzi, la scelta operata dalla p.a. nella tabella, come pure soggiunge il tribunale di Roma, rischia di risolversi nella generalizzata criminalizzazione di massa dei consumatori di cannabis (valutati, come si e' detto, nell'ordine di qualche milione), se e' vero, che a differenza che per le droghe pesanti "sul mercato al minuto dei prodotti della cannabis, ben difficilmente e' possibile acquistare soltanto una quantita' equivalente alla dose media giornaliera, che non e' praticamente commerciata a causa del suo basso costo (circa 10 mila lire) e quindi del suo irrisorio profitto per lo spacciatore". La scelta ministeriale, quindi, contro la volonta' del legislatore di trattare con minore rigore le droghe leggere rispetto a quelle pesanti (volonta' emergente sia dai lavori preparatori della nuova legge - v. es. la relazione al Senato a p. 13 -, sia dal raffronto tra il primo ed il quinto comma dell'art. 73 del t.u.), si risove sostanzialmente in un trattamento piu' rigoroso per il consumatore di droghe leggere. Ma vi e' pure un'altra forma di trattamento piu' rigoroso riservato al consumatore di droghe leggere rispetto a quello di droghe pesanti, contenuta (sempre in contrasto con i lavori preparatori e col disposto dell'art. 73, primo e quinto comma del t.u. oltre che con l'art. 3 della Costituzione) nell'art. 90 del testo unico, dato che l'istituto della sospensione dell'esecuzione della pena detentiva ivi previsto non sara' mai applicabile ai consumatori di cannabis, essendo detta sospensione condizionata all'attuazione di un "programma terapeutico e socioriabilitativo" presupponente una tossicodipendenza non ipotizzabile nei confronti di detti consumatori. Non ipotizzabilita' emergente dal fatto notorio che nessun assuntore di cannabis si e' mai rivolto al SAT; non ipotizzabilita' di cui si mostra al corrente lo stesso legislatore allorche', nella relazione al Senato sulla nuova legge (p. 13), afferma che le droghe leggere "di regola non inducono a dipendenza fisica e psichica". Ammesso, poi, che anche da tali sostanze potesse emergere uno stato di tossicodipendenza, in relazione ad un loro eventuale uso ininterrotto e continuativo, verrebbe a crearsi una disparita' tra il trattamento meno grave riservato dall'art. 90 alla piu' grave situazione di chi ne fa per l'appunto un uso ininterrotto e continuativo, ed il trattamento piu' grave riservato dall'art. 90 (con l'esclusione dell'applicabilita' della sospensione in esso prevista) alla meno grave situazione di chi ne fa un uso occasionale: l'ipotesi di incostituzionalita' in questione e' piuttosto scolastica per la cannabis (poiche', come si e' detto, per questa in ogni caso sembra da escludere la possibile insorgenza di uno stato di tossicodipendenza), mentre e' concreta e reale quanto alla disparita' di trattamento che viene a crearsi tra la situazione meno grave del consumatore occasionale di droghe pesanti e quella piu' grave del consumatore abituale. Ma, come si diceva, il dubbio maggiore di costituzionalita' cui da' luogo l'art. 90 e' quello che discende dalla disparita' di trattamento che questo riserva (in violazione dell'art. 3 della Costituzione) alla situazione meno grave dei consumatori di cannabis (ai quali non sara' applicabile l'istituto della sospensione dell'esecuzione della pena, dovendosene escludere lo stato di tossicodipendenza) rispetto a quella di piu' grave dei consumatori-tossicodipendenti di droghe pesanti: e che la prima situazione sia meno grave di quest'ultima e' il legislatore stesso a dirlo sia nei lavori preparatori, sia nel raffronto tra il primo ed il quinto comma dell'art. 73 del testo unico, sia nel piu' alto "tetto" di pena irrogata previsto per le droghe leggere rispetto a quelle pesanti (ai fini dell'ammissione o dell'esclusione dall'istituto in questione) proprio nell'art. 90, primo comma. La legittimita' costituzionale, in tema di cosiddette droghe leggere, potrebbe dunque ripristinarsi o attraverso un complessivo ripensamento dell'intera materia in questione, sempre che si accolga e si condivida il discorso circa la mancanza di offensivita' sociale delle relative condotte. Oppure, in caso contrario, sopprimendo l'irrealistico richiamo di cui all'art. 90 a dette sostanze e rimettendo, quantomeno con riferimento alla materia regolante le medesime sostanze "leggere" (per le quali, come si e' visto, ancor piu' gravi sono i dubbi d'incostituzionalita' in relazione ai profili gia' esposti sub nn. 1 e 3), al concreto accertamento giudiziario la ricerca della verita' reale, sicche' la quantita' di sostanza detenuta valga solo come uno (ma non l'unico, esclusivo ed automatico) tra gli elementi di prova in concreto del consumo (non punibile) ovvero dello spaccio (punibile). in quest'ultimo caso, il differente regime legislativo (in tema di discrimime del penalmente rilevante dal non) tra droghe leggere e droghe pesanti potrebbe rapportarsi alla differente gravita' delle situazioni (meno grave la prima, piu' grave la seconda), differenza che, come gia' si e' detto, viene legislativamente riconosciuta sia nei lavori preparatori della nuova legge che nel raffronto tra il primo ed il quinto comma dell'art. 73 del t.u., anche se non ci si nasconde che una simile soluzione potrebbe non fugare i gia' esposti dubbi di costituzionalita' della nuova legge pure con riferimento alle droghe pesanti.