IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    A seguito di rapporto in data 3 agosto 1990 da parte della  locale
 questura,  i  sigg. Agrippini Antonio ed Evangelista Massimo venivano
 sottoposti a procedimento penale,  in  ordine  al  reato  di  cui  in
 epigrafe.
    In  data  23  novembre  1990,  il  p.m.  ne  chiedeva  il rinvio a
 giudizio, previa fissazione dell'udienza preliminare.
    All'esito  dell'odierna  udienza  preliminare,   viene   sollevata
 questione  di  legittimita'  costituzionale  degli  artt.  71,  72  e
 72-quater della legge n. 685/1975, come  modificati  dalla  legge  n.
 162/1990  e  trasfusi negli artt. 73, 75 e 78 del d.P.R. n. 309/1990,
 nonche' dell'art. 90 del testo unico citato, in relazione agli  artt.
 3,   13   e  25  della  Costituzione.  Di  conseguenza,  il  presente
 procedimento va sospeso, ordinandosi la immediata trasmissione  degli
 atti  alla Corte costituzionale, la notifica della presente ordinanza
 al Presidente del Consiglio dei Ministri e la  sua  comunicazione  ai
 Presidenti delle due Camere del Parlamento.
    La  questione  di  costituzionalita',  nella  fattispecie,  appare
 difatti rilevante e non manifestamente infondata. Non  manifestamente
 infondata  per  i  motivi  che  di  seguito si esprorranno; rilevante
 perche', avuto riguardo alla contestazione  mossa  all'imputato,  nel
 caso  di  specie  si  verte  in  processo  a carico di mero detentore
 (detentore-consumatore) di sostanza stupefacente.
    All'ordierna udienza, la  difesa,  nel  sottoporre  al  G.I.P.  la
 questione di non manifesta infondatezza, ha rilevato come, a quasi un
 anno  dalla  sua  emanazione  "la  nuova legge sugli stupefacenti non
 sortisce l'effetto sperato di colpire il traffico e specie il  grosso
 traffico  degli  stupefacenti,  ma  sta  comportando un incremento di
 processi soprattutto nei confronti di semplici consumatori  di  droga
 (incremento  che  peraltro  dimostra  come  anche  nei  confronti dei
 consumatori  la  nuova  legge  non  sortisce   l'effetto   dissuasivo
 sperato)".  In  sostanza, stando alle argomentazioni difensive, al di
 la'  delle  buone  intenzioni  dei   compilatori   la   nuova   legge
 oggettivamente  non  e' riuscita ad incidere in maniera sensibile sul
 versante dello spaccio  di  stupefacenti  ed  anzi  la  sua  maggiore
 severita' (anche nei confronti dei piccoli spacciatori e degli stessi
 consumatori) potrebbe avere innescato il noto meccanismo: aumento dei
 rischi-aumento  dei  profitti,  a tutto vantaggio del grande traffico
 degli stupefacenti; mentre, sul versante del consumo di stupefacenti,
 l'incremento dei procedimenti pendenti e specie di quelli a carico di
 imputati recidivi specifici per  i  reati  di  droga  e  di  imputati
 detenuti  (magari detenuti proprio per precedenti condanne in materia
 di stupefacenti) dimostrerebbe lo  scarso  effetto  deterrente  della
 disciplina  in  questione  nei  confronti  dei  consumatori  ed anche
 l'inidoneita' di fatto della struttura carceraria ad  assicurare  che
 il   consumatore   detenuto   non   ricada  nell'uso  della  sostanza
 all'interno del carcere. In simili condizioni,  l'applicazione  della
 nuova  disciplina,  pur  producendo  forse  nell'opinione pubblica il
 sentore di un accresciuto impegno nella lotta alla droga, rischia  in
 realta'   di   risolversi   soprattutto   nella  criminalizzazione  e
 penalizzazione delle sole fasce piu' deboli,  derelitte,  sventurate,
 emarginate e spesso disperate del complesso mondo degli stupefacenti,
 senza  peraltro  riuscire  a dissuaderle efficacemente dall'uso della
 droga; rischia di aggravare ulteriormente la condizione ed i problemi
 di soggetti (i consumatori, ultimi anelli ed anelli piu' deboli della
 catena) che  spesso  gia'  di  per  se'  soffrono  di  situazioni  di
 disadattamento  familiare e/o sociale e che la societa', in tal modo,
 prima sembra emarginare e poi punire.  La  giustizia  stessa  parebbe
 cosi'  venire ad assumere un ruolo di basso profilo (ruolo che non le
 e' proprio e che non puo' ne' deve esserlo  proprio):  quello  di  un
 potere  forte con i deboli, ma incapace di scalfire o, quantomeno, di
 incidere in maniera veramente sensibile,  dirimente  e  duratura  sui
 gangli   "forti"   del   fenomeno-droga,  sul  grosso  mercato  degli
 stupefacenti e sui fattori allo stesso connessi (grande  criminalita'
 organizzata  di  tipo  mafioso  e  camorristico  e  sua  gestione del
 traffico   internazionale   di   droga,   grande   circolazione    ed
 accumulazione  di capitali di provenienza illecita, riciclaggio degli
 stessi in attivita' sia lecite che illecite, formazione repentina  di
 grossi  patrimoni, nascita di nuove banche, intrecci tra criminalita'
 organizzata  e  settori  consistenti  dell'economia,   e   non   solo
 dell'economia,  e  via di seguito). E non a caso, sul punto, anche il
 tribunale di Roma (sezione quinta), nella sua ordinanza depositata il
 7 gennaio 1991, sostiene tra l'altro che, sulla grave  manifestazione
 criminale   costituita   dal   grosso   traffico   di   stupefacenti,
 "l'incidenza della repressione penale e', a  fronte  della  imponenza
 del  fenomeno,  poco  piu'  che  simbolica";  e,  richiamandosi  alla
 relazione del Consiglio  superiore  della  magistratura  sullo  stato
 della  giustizia  1986-1990,  sottolinea  il  fatto  che  il processo
 penale, per sua natura, puo' e deve perseguire "non gia' il  fenomeno
 criminale, bensi' i concreti comportamenti criminosi" il che "pone in
 luce i limiti del contributo che la giurisdizione penale puo' fornire
 alla  risoluzione  dei  problemi  che hanno radici profonde e diffuse
 nella struttura della societa'".
    Potrebbe porsi, a questo punto, sulla premessa  dell'inadeguatezza
 della  nuova disciplina sugli stupefacenti a far fronte efficacemente
 ed equamente al fenomeno,  il  problema  dell'esistenza  di  approcci
 culturali diversi e di vie alternative (che pure vi sono) in subiecta
 materia   e,   soprattutto,   il   problema   della   loro   concreta
 praticabilita' o meno. Ma tali problemi, com'e' naturale, non possono
 essere affrontati in questa sede.
    Quel che  qui  rileva  e',  invece,  valutare  se,  in  base  alle
 sovraesposte  argomentazioni  difensive  o  ad  altre  argomentazioni
 ancora, la nuova  legge  e,  in  particolare,  gli  artt.  71,  72  e
 72-quater  della  legge  n.  685/1975, come modificati dalla legge n.
 162/1990 e trasfusi negli artt. 73, 75 e 78 del d.P.R.  n.  309/1990,
 nonche'  l'art.  90  del  d.P.R.  citato  siano  conformi  al dettato
 costituzionale oppure se, al  contrario,  non  appaia  manifestamente
 infondata  la  questione  della loro costituzionalita'. Ed invero, in
 proposito,   questo   g.i.p.   reputa    sussistere    sospetto    di
 incostituzionalita'  delle  norme  appena  richiamate sotto i diversi
 profili che, qui di seguito, motivamente vengono elencati.
    1) Violazione dell'art. 3 della Costituzione sotto il profilo  del
 pari   trattamento   legislativo   delle   situazioni  diverse  dello
 spacciatore e del consumatore. Possibile violazione degli  artt.  25,
 13  e  3  della  Costituzione  sotto  il  profilo  della  mancanza di
 offensivita' sociale della detenzione finalizzata al consumo.
    Bene il tribunale di Roma, nella sua citata  ordinanza  depositata
 il  7  gennaio  1991,  osserva come la legge n. 685/1975 configurava,
 rispetto alla detenzione di droga,  un  reato  di  pericolo  presunto
 (art.  71)  ed  uno  di pericolo concreto (art. 72), nel senso che la
 detenzione era punita solo ed esclusivamente in quanto comportava  il
 pericolo  (presunto  ex  art.  71  e  da provare ex art. 72 della sua
 destinazione allo spaccio, come dimostrava  la  non  punibilita'  del
 detentore  di  modica  quantita'  di stupefacente ad uso personale ex
 art. 80 nonche' la non punibilita' del consumo pregresso,  quale  che
 fosse  la  quantita'  di droga consumata, come affermato dalla stessa
 Corte costituzionale (sentenza n. 170/1982). La  legge  n.  162/1990,
 invece,  nel  rovesciare questa impostazione, punisce con la sanzione
 penale  la  detenzione  di  stupefacenti  indipendentemente  da   una
 situazione  di  pericolo  (concreto  o presunto) di destinazione allo
 spaccio,  ossia  indipendentemente  da  una   ipotetica   presunzione
 giudiziale  di  spaccio.  L'art. 80 della legge n. 685/1975, difatti,
 nel  prevedere  espressamente  la  non  punibilita'  del   detentore-
 consumatore  di modiche quantita' di stupefacenti, teneva giustamente
 nel  debito conto il dato, notorio nell'esperienza giudiziaria, che i
 consumatori,  specie  quelli  di  cosiddette   droghe   leggere,   si
 riforniscono  di quantita' superiori al fabbisogno giornaliero e cio'
 anche al fine di evitare i rischi o i fastidi connessi ai  quotidiani
 contatti  col  mondo  del  traffico;  alla luce di tale dato, la s.C.
 aveva da ultimo (v.  es.  Cass.  sezione  sesta,  25  novembre  1988)
 rapportato il concetto di "modica quantita'" a quello della quantita'
 che   consentisse  "ad  un  medio  assuntore  di  soddisfare  le  sue
 necessita' per due-tre giorni". La legge n. 162/1990,  come  trasfusa
 nel  t.u.  n.  309/1990,  non tiene invece conto di questo innegabile
 dato della realta' e, nel fissare sempre  e  comunque  la  soglia  di
 rilevanza penale della fattispecie oltre la "dose media giornaliera",
 finisce  cosi'  per punire automaticamente e sostanzialmente non solo
 lo spacciatore ma anche il detentore-consumatore;di tanto e'  riprova
 nel  fatto che l'art. 73 del t.u. citato si applica alla detenzione e
 consumo pregressi di quantita' di droga superiori  alla  "dose  media
 giornaliera",  e  quindi  a  situazioni per le quali non puo' neppure
 ipotizzarsi un pericolo di spaccio.
    Dunque, la nuova norma punisce anche (e contro quella  che  appare
 essere  la  soggettiva intenzione del legislatore, come emergente dai
 lavori preparatori) la detenzione finalizzata al  consumo  personale.
 Ma,   cosi'   facendo,   essa  viene  ad  equiparare  due  situazioni
 sicuramente  difformi,  quella  dello  spacciatore   e   quella   del
 consumatore;  situazioni,  queste,  la  cui  diversita'  ha carattere
 qualitativo e non meramente quantitativo. Vero e' che varie volte sul
 mercato la figura del consumatore si intreccia con quella del piccolo
 spacciatore; ma e' pur vero che, per quanto esposto, il nuovo art. 73
 non configura un reato di pericolo e quindi non tiene conto ne' vuole
 tener conto di tale ipotetico intreccio (che comunque avrebbe  dovuto
 poi  essere  verificato  sempre  volta per volta in sede di giudizio,
 restando sempre ferma altrimenti la cennata  distinzione  qualitativa
 tra  spacciatore e consumatore nel singolo caso concreto), cosi' come
 e' vero che, sempre alla  luce  di  quanto  esposto,  tale  norma  si
 applica  anche  alle  fattispecie per le quali il pericolo di spaccio
 non e' neppure ipotizzabile e per le quali quindi quell'intreccio nel
 caso  concreto  sicuramente  e'   da   escludere.   Resta,   percio',
 l'anzidetta   distinzione   qualitativa   tra  il  consumatore  e  lo
 spacciatore, distinzione tanto piu' marcata  quanto  piu'  vi  e'  la
 prova,  nel  caso  concreto,  che la sostanza eccedente la dose media
 giornaliera era sicuramente destinata (o e' stata destinata)  all'uso
 personale del suo detentore.
    In contrasto con tale difformita' di carattere qualitativo, l'art.
 73  del t.u. citato parifica la situazione dello spacciatore a quella
 del  consumatore  nell'ambito  di  un'unica  fattispecie   penalmente
 rilevante,  cosi' venendosi a porre normativamente la distinzione tra
 queste due figure su di un piano meramente eventuale e  di  carattere
 quantitativo:  sul  piano,  cioe',  della  graduazione della pena e/o
 dell'eventuale applicazione al consumatore del quinto comma dell'art.
 73 citato. Ma sono piani, questi ultimi, che non valgono a sanare  la
 disparita'  di trattamento che, in tal modo, il legislatore e' venuto
 a determinare tra situazioni qualitativamente difformi: non  la  sana
 la  graduazione  della pena, perche' questa, alla luce dei criteri di
 cui  all'art.  133  del  c.p.,  si  risolve  in  un  fatto  meramente
 quantitativo  e  perche'  sarebbe  insostenibile  asserire  che  alle
 fattispecie   minime   di  spaccio  di  stupefacenti  non  possa  mai
 applicarsi il minimo edittale della pena; non la sana il quinto comma
 dell'art. 73,  perche'  il  legislatore  non  pare  farne  un  titolo
 autonomo  di reato e, comunque, non lo riferisce solo alla detenzione
 finalizzata al consumo ma  anche  allo  spaccio  (purche'  di  "lieve
 entita'"), mentre, per converso, riferisce gli altri commi anche alla
 detenzione  (finalizzata  al  consumo) oltre che allo spaccio. Non si
 dimentichi, infine, che la parificazione normativa in  questione  tra
 le  difformi  situazioni  dello  spacciatore e del consumatore ha dei
 riflessi gravi ed abnormi anche sul piano processuale, nel senso  che
 l'art. 73 citato pare avere assorbito il disposto del vecchio art. 71
 della  legge  n.  685/1975  (v.  art.  14 della legge n. 162/1990) ed
 essersi  allo  stesso   sostituito   in   toto,   sicche'   l'arresto
 obbligatorio  in  flagranza  ex  art. 380, lett. h), del nuovo c.p.p.
 risulta oggi riferibile non soltanto alle ipotesi di spaccio ma  pure
 a quelle di detenzione di dosi modiche o anche minime di droga pur se
 eccedenti in misura irrilevante la dose media giornaliera), ancorche'
 sicuramente finalizzate all'uso personale.
    Cosi'  stando  le  cose,  il  legislatore  avrebbe potuto e dovuto
 prevedere per la detenzione (finalizzata al consumo) di quantita'  di
 droga  eccedente  la  dose  media  giornaliera un'autonoma e distinta
 fattispecie incriminatrice, di minore gravita' rispetto a quella  che
 sanziona  lo spaccio. Se cio' fosse accaduto, peraltro, ci si sarebbe
 dovuti porre nondimeno il quesito circa la costituzionalita'  o  meno
 di  detta  fattispecie  sotto  il profilo della violazione del coord.
 disp. degli artt. 25 e 13 della Costituzione, posta l'estraneita'  al
 nostro  diritto penale sostanziale di ogni ipotesi di reato contro se
 stesso  (salva,  invece,   l'eventuale   applicazione   di   sanzioni
 amministrative,  come  ad  es. nei casi di guida di autoveicoli senza
 cinture di sicurezza o di motocicli senza casco, ecc.) e posto quello
 che sembrerebbe un pericolo di mera previsione (pericolo  astratto  e
 non pericolo concreto) del rischio derivante ai terzi dall'assunzione
 (occasionale    o)    abituale   di   stupefacenti   da   parte   del
 tossicodipendente  (discorso  di  pericolo,  quest'ultimo,  che,   in
 relazione  al  consumo  delle  cosiddette droghe leggere, anche sulla
 base di quanto si dira' in seguito non  pare  neppure  ipotizzabile):
 posta,   insomma,  la  mancanza  di  offensivita'  (intesa  come  non
 preventivabile offensivita' in concreto nel singolo  caso  specifico)
 del  reato  (di  detenzione  finalizzata  al  consumo)  in questione.
 Sarebbe, inoltre, tornato  il  discorso  relativo  all'art.  3  della
 Costituzione,  questa  volta con riferimento al fatto che non si vede
 perche' il consumo giornaliero di una "dose media" non viene ritenuto
 socialmente offensivo (dal punto di vista della sua rilevanza penale)
 dal legislatore, mentre lo sarebbe il consumo  giornaliero  o  magari
 del  tutto  occasionale  di una dose di pochissimo superiore a quella
 "media". E tali considerazioni, riferibili come si diceva al caso  in
 cui il legislatore avesse prevista un'autonoma e distinta fattispecie
 incriminatrice  per  la  detenzione-consumo  rispetto  a quella dello
 spaccio,  tali   considerazioni   valgono,   parimenti,   anche   con
 riferimento  all'attuale  incriminazione (nell'ambito di una medesima
 fattispecie astratta) della detenzione di droga eccedente la dose me-
 dia giornaliera ma sicuramente destinata al consumo personale.
    L'art.  73  del  t.u.  citato,  in conclusione, sembra violare due
 volte la Costituzione: una prima volta sotto il profilo della parita'
 di  trattamento  delle  situazioni  qualitativamente   difformi   del
 consumatore  e  dello  spacciatore;  ed  una  seconda  volta sotto il
 profilo della incriminazione di una condotta (quella della detenzione
 di dose destinata al consumo personale, ancorche' eccedente la  media
 giornaliera) che pare priva di offensivita' sociale.
    In conclusione, alla luce di tutto quanto esposto, la legittimita'
 costituzionale  potrebbe  ripristinarsi solo scriminando realmente il
 consumo degli stupefacenti e cosi' distinguendo qualitativamente tale
 situazione da quella penalmente rilevante dello spaccio;  scriminante
 che,  del  resto,  lo stesso legislatore (consapevole dei problemi di
 costituzionalita'    che    sarebbero    potuti    derivare     dalla
 criminalizzazione  dell'uso  personale  di  droga, consapevolezza che
 emerge dagli stessi lavori preparatori) agli artt. 75 e 76  del  t.u.
 citato  ha voluto in pratica stabilire, pur comminando per il consumo
 personale di droga delle sanzioni  di  carattere  amministrativo.  Ma
 cio'  che e' rimasto fuori dalla porta e' poi entrato dalla finestra,
 dato che, per quanto gia' detto, in realta' l'art. 73 del t.u. citato
 finisce per attribuire rilevanza penale non solo alla condotta  dello
 spacciatore   ma   pure   a  quella  del  detentore-consumatore.  Una
 scriminante concreta ed effettiva della condotta di quest'ultimo puo'
 passare, dunque, solo attraverso la soppressione del  riferimento  al
 concetto  fittizio  della "dose media giornaliera" e la rivalutazione
 dei classici criteri propri dell'accertamento  giudiziario,  nel  cui
 ambito  la  quantita'  di droga detenuta costituisca solo uno (ma non
 l'unico, esclusivo ed  automatico)  tra  gli  elementi  di  prova  in
 concreto di un ipotetico spaccio. Solo in tal modo, il discrimine tra
 lo  spaccio  (punibile) ed il consumo (non punibile) potrebbe basarsi
 non  sul  criterio  quantitativo  (di  per  se'  solo   fittizio   ed
 incostituzionale), ma sulla realta', come meglio si dira' pure sub n.
 2.
    2)  Violazione dell'art. 3 della Costituzione sotto il profilo del
 pari trattamento legislativo  delle  situazioni  diverse  di  ciascun
 singolo consumatore.
    La  legge  n.  162/1990,  come  trasfusa  nel  t.u. n. 309/1990, e
 specificamente  gli  artt.  73,  75  e  78  di   quest'ultimo   fanno
 riferimento,  al  fine della determinazione della soglia di rilevanza
 penale della detenzione (ancorche' finalizzata al consumo  personale)
 di  stupefacenti,  ad  un  concetto  tanto  generico  quanto  vago ed
 ambiguo, che e' quello della "dose media  giornaliera".  Trattasi  di
 nozione  irreale, non sopportabile da alcun valido sostegno dal punto
 di vista tecnico-scientifico, posto tra l'altro che: a) la maggiore o
 minore efficacia stupefacente di una data sostanza  varia  a  seconda
 del  modo  di assunzione della stessa; e, soprattutto, che: b) sia la
 maggiore o minore efficacia stupefacente  che,  correlativamente,  il
 maggiore   o  minore  bisogno  (per  quelle  droghe  che  determinano
 tossicodipendenza) di una data sostanza variano a seconda  del  grado
 di tolleranza del soggetto assuntore.
     A)  Sotto  il  primo  profilo,  e'  notorio  come  molte sostanze
 stupefacenti possano essere assunte in vari  modi  e  cioe'  per  via
 orale,  per  inalazione  nasale,  per  inalazione  dei  fumi, per via
 endovenosa, ecc. Il modo di assunzione varia a seconda dei soggetti e
 delle rispettive abitudini individuali, ma,  a  seconda  del  diverso
 modo  di  assunzione,  consegue  pure  una  maggiore o minore effetto
 stupefacente;  sul  punto,  bene trib. Roma citato osserva per inciso
 come la fissazione normativa di soglie ridotte di dmg possa indurre i
 consumatori che vogliano mantenersi nei limiti del penalmente  lecito
 a  "convertire"  i  propri  modi  di  assunzione di droga in modo che
 assicurino un maggiore effetto stupefacente a dosi inferiori ma  che,
 al tempo stesso, sono piu' pericolosi.
     B)  Circa  il  secondo  profilo,  che  e'  quello  che  qui  piu'
 interessa, e' altrettanto notorio come, in materia  di  stupefacenti,
 non  e'  possibile  fissare  delle  medie  aritmetiche sulla cui base
 stabilire oggettivamente un discrimine oggettivo  tra  il  penalmente
 rilevante  ed  il  penalmente irrilevante; cio' in quanto il grado di
 tolleranza    delle    diverse    sostanze    stupefacenti     varia,
 soggettivamente,  a  seconda  dei  diversi  singoli assuntori. Qui la
 ricerca di un discrimine oggettivo da un lato ed il dato reale  della
 diversa  tolleranza  soggettiva  (nonche' del diverso bisogno, per le
 droghe pesanti) dall'altro lato  cozzano  inesorabilmente  tra  loro,
 posto  che  detta tolleranza (o bisogno) varia a seconda di una serie
 di circostanze individuali tra cui specialmente il maggiore o  minore
 tempo  da  cui un determinato soggetto fa uso di una certa droga e la
 maggiore o minore assiduita' con cui  lo  stesso  ne  fa  uso.  Cosi'
 stando  le  cose,  se  davvero  si  vuole  mantenere  la norma penale
 aderente alla realta' (cosi' come deve essere) e  non  risolverla  in
 una mera e tanto arbitraria quanto assurda finzione, e se davvero non
 si  vuole  criminalizzare  il singolo consumatore cosi' come i Lavori
 preparatori e gli artt. 75 e 76 in  teoria  affermano  di  non  voler
 criminalizzare,  deve  convenirsi  sul  fatto  che  nessuna oggettiva
 "medieta'" puo' tornare utile  in  subiecta  materia  ai  fini  della
 determinazione  di  una soglia di rilevanza penale. E, non a caso, lo
 stesso parere 30 novembre 1989 espresso, all'unanimita' tra tutti gli
 esperti, su richiesta ministeriale nel corso  dell'iter  parlamentare
 della  nuova legge, dall'Istituto superiore di sanita' affermava che:
 quanto alla fissazione di un criterio di  discrimine  del  penalmente
 rilevante  in materia di stupefacenti, "la definizione della dose me-
 dia giornaliera non puo' servire a detto scopo, data  l'ampiezza  del
 range  dei  quantitativi  che  possono  essere  adoperati  da diversi
 assuntori  o  dallo  stesso   assuntore   in   momenti   differenti".
 Ciononostante,  la  nuova  legge ha poi rapportato quel discrimine al
 fittizio concetto della "dose media giornaliera". Ma, cosi'  facendo,
 per  quanto  si  e' appena esposto essa sembra avere violato l'art. 3
 della Costituzione sotto il profilo  del  pari  trattamento  da  essa
 legge ordinaria riservato alle situazioni difformi di ciascun singolo
 consumatore (nonche' di uno stesso consumatore, a seconda dei diversi
 stadi  temporali  in  cui lo si prenda in considerazione). A parte la
 totale arbitrarieta' nella fissazione di detta "dose  media"  tra  un
 minimo  ed  un massimo ("medieta'" questa che del resto non appare in
 alcun modo definibile sotto un  aspetto  scientificamente  corretto),
 difatti,  deve ribadirsi che, com'e' notorio e come emerge ampiamente
 da  tutta  la  letteratura  scientifica  in  materia,  il  grado   di
 tolleranza  soggettivo  varia notevolmente a seconda delle specifiche
 condizioni individuali  di  ciascun  assuntore.  Cosi',  ad  esempio,
 sempre  nel  citato  suo  parere,  l'Istituto superiore della sanita'
 rilevava  che,  per  gli  oppiacei,  il  ventaglio  va  da  una  dose
 farmacologicamente  attiva  di 0,01 - 0,02 g giornalieri nel soggetto
 non assuefatto ai piu' grammi  al  giorno  di  cui  abbisognano  vari
 soggetti  assuefatti; per la cocaina, il ventaglio va da una dose per
 via inalatoria di 0,04 - 0,1 g nel soggetto non  assuefatto  ai  piu'
 grammi  al giorno di soggetti assuefatti; e via di seguito. Se queste
 premesse, l'Istituto superiore della sanita' concludeva sottolineando
 come un discrimine del penalmente rilevante dal non, fondato sul solo
 dato ponderale  (dose  media  giornaliera)  "puo'  essere  fortemente
 penalizzante  per  alcuni  e  colpevolmente  gratificante per altri":
 fortemente penalizzante specie per i  tossicodipendenti  abituali  di
 droghe  pesanti, e cioe' proprio per i soggetti piu' deboli tra tutti
 e, nel  contempo,  piu'  insensibili  alla  minaccia  della  sanzione
 penale,   alla   quale   restano   tuttavia  esposti  pur  mantenendo
 l'approvvigionamento  nei  limiti  del  loro  fabbisogno  quotidiano;
 colpevolmente gratificante specie per i consumatori occasionali e per
 i   piccoli  spacciatori-consumatori  occasionali,  i  quali  ultimi,
 soddisfatto il  proprio  desiderio  (5-10  mg,  come  si  e'  visto),
 conservano  un  certo  margine  ponderale  anche  per un'attivita' di
 piccolo spaccio. La disciminazione, consistente nel pari  trattamento
 legislativo  di  consimili  situazioni  difformi  (tramite il ricorso
 normativo al concetto oggettivo  e  "livellatore"  della  dose  media
 giornaliera,  concetto  peraltro  del  tutto  arbitrario,  ambiguo ed
 atecnico), sembrerebbe dunque evidente.
    La legalita' costituzionale, anche  sotto  il  profilo  in  esame,
 potrebbe   ripristinarsi  solo  abbandonando  il  criterio  iniquo  e
 fittizio della "dose media giornaliera" e, in generale, ogni criterio
 basato esclusivamente sulla  quantita'.  Un  criterio  esclusivamente
 quantitativo,   difatti,  se  troppo  ampio  appare  inutile  perche'
 potrebbe scriminare non solo il consumo ma anche lo  spaccio;  e,  se
 troppo  ristretto,  appare  incostituzionale perche' finisce di fatto
 per criminalizzare anche il  consumo,  riservandogli  un  trattamento
 analogo  allo  spaccio.  L'accertamento  giudiziale circa l'effettiva
 destinazione di una determinata sostanza al consumo  o  allo  spaccio
 dovrebbe  basarsi,  dunque,  non  sulla  finzione  della  "dose media
 giornaliera" ma sulla realta', e  cioe'  non  sull'automatismo  della
 d.m.g.  ma  sull'effettivo  tipo  di  condotta,  laddove  la  diversa
 quantita' di droga detenuta costituisca solo  uno  (ma  non  l'unico,
 esclusivo ed automatico) tra gli elementi di prova del consumo oppure
 dello spaccio, come gia' detto sub n. 1, in fine.
     3)  Violazione  dell'art.  25  della Costituzione sotto l'aspetto
 della riserva di legge.
    L'art.  73  (e  l'art.  75)  del  testo  unico  citato  rinvia  al
 successivo  art.  78  per la fissazione della dose media giornaliera,
 ossia della soglia di punibilita', del  limite  quantitativo  massimo
 oltre  il  quale la detenzione di stupefacente a qualsiasi titolo (di
 consumo o di spaccio) costituisce reato.  L'art.  78,  a  sua  volta,
 rinvia  ad  un decreto del Ministro della sanita', d.m. (n. 186/1990)
 poi emanato. Bene, sul punto, vari giudici, tra cui il  tribunale  di
 Roma  nella  sua  citata ordinanza ed il g.i.p. di Camerino nella sua
 ordinanza 11 febbraio 1991, hanno osservato come quest'ultimo  rinvio
 da  parte  del legislatore alle determinazioni della p.a. e' totale e
 dimissorio e non individua ne' determina in alcun modo  concretamente
 la  nozione  di  "dose  media giornaliera" ne' il contenuto di questo
 concetto ovvero i criteri, i presupposti, i caratteri o  i  parametri
 alla  cui luce ricostruirlo, nel che pare sostanziarsi una violazione
 della riserva di legge in materia penale, imposta dall'art. 25  della
 Costituzione. In simili condizioni, come giustificare la correlazione
 stabilita  dalla  p.a.  tra la "dose media giornaliera" e determinate
 grandezze ponderali anziche' altre?  Come  giustificare  il  richiamo
 (per quelle sostanze per le quali tale richiamo vi sia) della tabella
 a  dei "dati epidemiologici" del tutto vaghi, discutibili ed incerti?
 E se il Ministro, sulla base di nuovi "dati epidemiologici" o di  una
 nuova  e diversa valutazione di quelli gia' presi in esame, domani ci
 ripensasse, innalzando o  abbassando  la  soglia  della  "dose  media
 giornaliera"  ed andando cosi' ad incidere ulteriormente sulla soglia
 di rilevanza penale del fatto? Verrebbero in tal modo scriminate,  in
 virtu'  di  un  successivo  provvedimento  amministrativo,  anche  le
 condotte precedenti gia' punite ma al di  sotto  della  nuova  soglia
 eventualmente piu' alta?
    In  materia, la stessa Corte costituzionale, nella sua sentenza n.
 492/1987, ha gia' sancito che, ai fini del rispetto del principio  di
 legalita',   la   norma   primaria  deve  indicare  "con  sufficiente
 specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto ed  i  limiti
 dei  provvedimenti  dell'autorita'  non  legislativa",  affinche' "il
 reato  sia  tassativamente  determinato  in  tutti  i  suoi  elementi
 costitutivi";   sempre  la  Corte  costituzionale,  nella  successiva
 sentenza n. 282/1990, ha ribadito che la funzione  integrativa  della
 norma   penale   da  parte  di  un  provvedimento  amministrativo  e'
 legittimamente svolta solo quando la norma penale medesima  determini
 gli  elementi  essenziali,  il  "contenuto  essenziale  dell'illecito
 penale", contenuto la cui individuazione non  puo'  essere  in  alcun
 modo  rimessa alla p.a., specie quando, come nel caso di specie (art.
 78,  secondo  comma),  quest'ultima  "rimanga   libera   di   mutare,
 sostituire  od  abrogare  i  predetti  elementi  essenziali", sicche'
 risulta incostituzionale ogni norma penale (e  la  Corte,  in  quella
 occasione, ha dichiarato l'incostituzionalita' della norma allegata a
 sospetto)  la  quale  consenta che "la condotta penalmente rilevante"
 emerga "solo in connessione coi contenuti specifici"  di  un  decreto
 ministeriale.
    E,  nel  caso di specie, per quanto gia' detto ricorre proprio una
 situazione analoga a quella gia' sottoposta  al  vaglio  della  Corte
 costituzionale  e da quest'ultima censurata. Il vuoto assoluto di cui
 all'art.  78  nella  predeterminazione  di   criteri   di   carattere
 scientifico   o  quantomeno  giuridico  appare  difatti  evidente,  a
 differenza di quanto accade, ad esempio, per il disposto dell'art. 12
 della legge n. 685/1975 (ora art. 14 del t.u.), ove si assiste ad una
 ricca ed articolata specificazione di criteri e dettagli, che  limita
 e  circoscrive  l'intervento  della  p.a.  nei limiti di un'attivita'
 meramente tecnica. Per di piu', l'art. 78 rinvia  genericamente  alla
 p.a.  per  la  costruzione di una entita' ambigua, irreale e fittizia
 (la  "dose  media  giornaliera"),  insuscettibile  di  una  qualsiasi
 definizione   dal  punto  di  vista  tecnico-scientifico,  come  gia'
 rilevato dall'Istituto superiore di sanita' e  come  gia'  illustrato
 sub  n. 2. Non a caso, lo stesso d.m. n. 186/1990, nel porre (tramite
 il richiamo alla tabella allegata) i limiti quantitativi  massimi  di
 principio attivo compendianti ciascuna dose media giornaliera, non si
 premura  certo di dar conto dei parametri e dei criteri adottati (che
 avrebbero dovuto peraltro essere fissati dalla  legge  e,  come  gia'
 detto,  non  lo sono stati), ne' a tale carenza ovviano le brevissime
 ed ininfluenti note esplicative annesse alla tabella: e detta carenza
 del  d.m.,  come  bene  osserva  il tribunale di Roma "e' palesemente
 ascrivibile non gia' a carenze scientifiche  dell'elaborato  tecnico,
 ma  alla  ovvia  impossibilita'  di  dar  conto  di parametri che non
 esistono".
    La verita', dunque, e' che detti  criteri  e  parametri  non  sono
 predeterminanti    dalla    legge    (come,   ai   fini   della   sua
 costituzionalita', dovrebbe essere), perche' non predeterminabili,  e
 non  sono  neppure spiegati dallo stesso d.m. perche' non spiegabili:
 non predeterminabilita' e non spiegabilita' derivanti  dalla  pura  e
 semplice  non  esistenza  di  detti criteri e parametri. Proprio alla
 luce  di  tali  considerazioni,  non  sembra  che  possa  il  giudice
 disapplicare l'illegittimo provvedimento amministrativo in questione,
 perche',   cosi'   facendo,   ad   una  illegittima  ed  irrealistica
 determinazione della p.a.  verrebbe  a  sostituirsi  una  illegittima
 (perche'  arbitraria:  il  giudice non si limiterebbe ad accertare il
 fatto, ma concorrerebbe impropriamente a costituire  la  fattispecie)
 ed  irrealistica  determinazione  del  giudice;  determinazione  che,
 proprio per questo motivo, neppure il legislatore ordinario  potrebbe
 in  ipotesi  demandare  al  giudice  e  che,  altrimenti,  oltretutto
 condurrebbe ad una situazione d'incertezza ancor piu' grave di quella
 lamentata, nel vigore della legge  n.  685/1975,  in  relazione  alla
 "modica   quantita'".   Ne'   pare   ipotizzabile  una  dichiarazione
 d'incostituzionalita' del solo art. 78 nei limiti in cui rimette alla
 p.a.,  senza  la  necessaria  predeterminazione   dei   criteri,   la
 quantificazione  della  dose  media  giornaliera, dato che, per tutto
 quanto esposto, detti criteri sono irreali e neppure  il  legislatore
 ordinario   sembra   percio'   poter   fare  legittimamente  espresso
 riferimento e ricorso  a  dei  criteri  scientificamente  (oltre  che
 giuridicamente)  inesistenti,  se  non  a costo di violare, di nuovo,
 l'art. 3 della Costituzione, dato che non si  vede  perche'  dovrebbe
 essere scriminato il consumo giornaliero di una certa "dose media" in
 ipotesi   stabilita  (arbitrariamente)  dal  legislatore  e  dovrebbe
 essere, invece, incriminato il consumo giornaliero o magari del tutto
 occasionale di una dose di pochissimo  superiore  a  quella  "media",
 "media"  arbitraria  in  quanto non rispondente ad alcun criterio ne'
 scientifico ne' giuridico.
    La legittimita' costituzionale, dunque, pure sotto il  profilo  in
 esame  potrebbe  essere ripristinata solo abbandonando l'irrealistico
 concetto della "dose media giornaliera" di cui agli artt. 73, 75 e 78
 del t.u. quale discrimine tra un preteso consumo non punibile  ed  un
 pretesto  spaccio punibile. Ancora una volta, come gia' ullustrato in
 chiusura  dei  nn.  1  e  2,  dovrebbe  essere  rimesso  al  concreto
 accertamento  giudiziario  la  ricerca della verita' reale, alla luce
 non di un fittizio ed arbitrario mero criterio  quantitativo,  bensi'
 dei  classici mezzi probatori propri del processo penale e del libero
 convincimento giudiziale: questo dovrebbe essere  l'unico  discrimine
 efficace ed idoneo tra il consumo non punibile e lo spaccio punibile,
 configurandosi  la  quantita' di droga detenuta solo come uno (ma non
 l'unico, esclusivo ed  automatico)  tra  gli  elementi  di  prova  in
 concreto del consumo e dello spaccio.
    4)  Violazione dell'art. 3 della Costituzione sotto il profilo del
 piu' grave trattamento normativo riservato a  situazioni  meno  gravi
 (droghe  leggere) rispetto a quello riservato a situazioni piu' gravi
 (droghe  pesanti);  nonche'  del  piu'  grave  trattamento  normativo
 riservato ai consumatori occasionali (situazione meno grave) rispetto
 ai consumatori abituali (situazione piu' grave).
    La  nuova  legge  continua  a  sanzionare  lo  spaccio  e  viene a
 sanzionare anche il consumo (oltre la "dose media giornaliera") delle
 cosiddette droghe leggere (cannabis indica e suoi derivati),  il  cui
 uso,  com'e'  noto,  e'  invalso tra i giovani specie a partire dalla
 contestazione politica del '68 in poi. La materia, per la verita', e'
 oggetto di discussione, su opposti versanti e  non  solo  nel  nostro
 Paese,  da molti anni. Su un versante, la scelta criminalizzatrice in
 esame viene sostenuta e condivisa, facendosi riferimento  a  presunti
 danni  per la salute dell'assuntore e, soprattutto, al pericolo della
 c.d. "escalation" e cioe' del passaggio dal loro uso a  quello  delle
 droghe   pesanti.  Da  altro  versante,  rappresentato  da  non  meno
 qualificate forze poltiche e culturali, medici,  docenti,  sociologi,
 giuristi,   ecc.,   si   e'   invece   affermata   l'opportunita'  di
 depenalizzare l'intera materia concernente  le  c.d.  droghe  leggere
 (depenalizzazione,  del  resto,  gia' attuata sia in Paesi di culture
 diverse dalla nostra che anche in taluni Paesi  occidentali)  e  cio'
 per  un vario ordine di motivi: si sostiene, in primo luogo, che esse
 non procurano alcun comprovato danno psicofisico generale  ne'  danno
 ad organi specifici, a differenza di quanto accade per altre sostanze
 (alcool,  nicotina,  caffeina,  psicofarmaci,  ecc.)  le  quali,  per
 converso, sono legalizzate; in secondo  luogo,  che  le  c.d.  droghe
 leggere non provocano alcuna assuefazione ne' fisica ne' psichica; in
 terzo  luogo,  che  esse  non spingono a passare all'uso delle droghe
 pesanti,  passaggio  che,  invece,  viene  favorito   proprio   dalla
 promiscuita' in cui queste differenti sostanze si trovano sul mercato
 illegale e dalla disinformazione circa la loro estrema diversita'. Si
 e' giunti a parlare, percio', circa la "cannabis" e suoi derivati, di
 "non-droghe"  ed  a  richiedere  pure  con  referendum costituzionale
 l'abrogazione della relativa precedente legge incriminatrice. A  tale
 seconda impostazione sembra aderire chiaramente il tribunale di Roma,
 nella  sua  citata  ordinanza del 7 gennaio 1991, laddove afferma che
 l'uso della cannabis "come se' visto e  come  dimostra  l'esperienza,
 non crea alcun problema ne' medico, ne' familiare, ne' sociale, al di
 fuori  di  quello della sua criminalizzazione". D'altronde, la stessa
 relazione al Senato sulla nuova legge afferma (p.  13)  che  le  c.d.
 droghe  leggere  "di  regola  non  inducono  a  dipendenza  fisica  e
 psichica",   ed   appare   preoccupata   piuttosto    dal    pericolo
 dell'"escalation".Ma,  su  quest'ultimo  punto,  il tribunale di Roma
 replica che "tale pericolo e' del tutto evanescente, se e'  vero  che
 il  passaggio  dal  consumo  della  cannabis  a quello delle sostanze
 oppiacee (che sono tipiche di figure socio-culturali diverse  se  non
 pure  antagoniste), e' oggi fenomeno sporadico e raro, come dimostra,
 tra l'altro, il rapporto numerico  tra  i  due  tipi  di  consumatori
 (secondo  le  stime  piu'  accreditate,  i  consumatori  di  oppiacei
 sarebbero circa 2/300 mila, mentre quelli di cannabis supererebbero i
 3 milioni)" e come dimostra pure il  fatto  che,  in  altre  realta',
 interi  popoli  fano  uso  di cannabis da secoli senza percio' essere
 passati all'uso degli oppiacei.
    Se quanto sopra risponde a verita', i dubbi  d'incostituzionalita'
 gia'  illustrati  ai  nn. 1 e 3 appaiono ancor piu' gravi se riferiti
 alle c.d. droghe leggere:
       a)  il dubbio di cui al n. 1, sia soto il profilo della cennata
 punibilita' ex art. 73 del t.u. (al di la' di quella che pare  essere
 la  soggettiva intenzione del legislatore) anche del consumatore, sia
 sotto il profilo della mancanza di offensivita'  sociale  dell'intera
 materia concernente le sostanze in questione;
       b)  il dubbio di cui al n. 3, sotto il profilo della riserva di
 legge,  nel  senso   che,   in   mancanza   di   qualsiasi   criterio
 predeterminato  dal  legislatore  (predeterminazione  che, del resto,
 neppure  lo  stesso  legislatore  protrebbe   compiere   in   maniera
 irrealistica,  salvo a violare l'art. 3 della Costituzione, alla luce
 di quanto gia' esposto sempre sub n. 3), del tutto arbitraria  appare
 la  scelta contenuta nella tabella amministrativa di fissare in 50 mg
 di THC (gr 2,5 al 2% e gr 0,5 al 10%) la  "dose  media  giornaliera",
 tant'e'  che,  in proposito, la relativa nota esplicativa nulla dice,
 sicche' si riprongono qui, aggravati, i gia' gravi quesiti  sollevati
 sub  n. 3: perche' 50 mg e non 30 mg o 80 mg? E se il Ministro domani
 ci ripensasse, innalzando o abbassando questo limite e cosi'  andando
 ad incidere ulteriormente sulla stessa soglia di rilevanza penale del
 fatto?  Verrebbero  in tal modo scriminate in virtu' di un successivo
 provvedimento amministrativo anche le condotte precedenti gia' punite
 al di sotto della nuova soglia eventualmente piu' alta? Del resto, la
 stessa  nota  2  luglio  1990  dell'I.s.s.  si  rifa'   piuttosto   a
 considerazioni  di  prevenzione  e  di  politica criminale (le quali,
 oltre ad essere del tutto opinabili, spettano peraltro esclusivamente
 al legislatore e non anche alla p.a.)  e  si  mostra  in  difficolta'
 allorche'  cerca  di  dare conto della determinazione quantitativa in
 questione; difficolta' derivante  dal  fatto  che,  come  giustamente
 osserva  pure  trib.  Roma  citato,  per  la  cannabis  le  fonti  di
 rilevazione dei "dati epidemiologici" (SAT e  sequestri  di  polizia)
 non  si  rivelano eloquenti, dato che nessun fumatore di canapa si e'
 mai rivolto al SAT e che i sequestri  non  concernono  quasi  mai  la
 sostanza  gia'  confezionata  in  sigaretta  e pronta per il consumo,
 tant'e' che per la cannabis a detti  dati  (ne'  ad  altri)  le  note
 esplicative  della  tabella  allegata  al d.m. n. 186 non fanno alcun
 riferimento. Anzi, la scelta operata dalla p.a. nella  tabella,  come
 pure  soggiunge  il  tribunale  di  Roma, rischia di risolversi nella
 generalizzata criminalizzazione di massa dei consumatori di  cannabis
 (valutati,  come  si e' detto, nell'ordine di qualche milione), se e'
 vero, che a differenza che per le  droghe  pesanti  "sul  mercato  al
 minuto  dei  prodotti  della cannabis, ben difficilmente e' possibile
 acquistare  soltanto  una  quantita'  equivalente  alla  dose   media
 giornaliera,  che  non  e'  praticamente  commerciata a causa del suo
 basso costo (circa 10 mila lire) e quindi del suo irrisorio  profitto
 per  lo  spacciatore".  La  scelta  ministeriale,  quindi,  contro la
 volonta' del legislatore di trattare  con  minore  rigore  le  droghe
 leggere  rispetto a quelle pesanti (volonta' emergente sia dai lavori
 preparatori della nuova legge - v. es. la relazione al Senato a p. 13
 -, sia dal raffronto tra il primo ed il quinto comma dell'art. 73 del
 t.u.), si risove sostanzialmente in un trattamento piu' rigoroso  per
 il consumatore di droghe leggere.
    Ma  vi  e'  pure  un'altra  forma  di  trattamento  piu'  rigoroso
 riservato al consumatore di  droghe  leggere  rispetto  a  quello  di
 droghe   pesanti,   contenuta  (sempre  in  contrasto  con  i  lavori
 preparatori e col disposto dell'art. 73, primo  e  quinto  comma  del
 t.u.  oltre  che  con  l'art.  3 della Costituzione) nell'art. 90 del
 testo unico, dato che l'istituto  della  sospensione  dell'esecuzione
 della  pena  detentiva  ivi  previsto  non  sara'  mai applicabile ai
 consumatori  di  cannabis,  essendo  detta  sospensione  condizionata
 all'attuazione  di  un  "programma  terapeutico e socioriabilitativo"
 presupponente una tossicodipendenza non ipotizzabile nei confronti di
 detti consumatori. Non ipotizzabilita' emergente  dal  fatto  notorio
 che  nessun  assuntore  di  cannabis  si  e'  mai rivolto al SAT; non
 ipotizzabilita' di cui si mostra al corrente  lo  stesso  legislatore
 allorche',  nella  relazione  al  Senato  sulla  nuova legge (p. 13),
 afferma che le droghe leggere "di regola non  inducono  a  dipendenza
 fisica  e psichica". Ammesso, poi, che anche da tali sostanze potesse
 emergere uno stato di tossicodipendenza,  in  relazione  ad  un  loro
 eventuale  uso  ininterrotto  e  continuativo, verrebbe a crearsi una
 disparita' tra il trattamento meno grave riservato dall'art. 90  alla
 piu'  grave situazione di chi ne fa per l'appunto un uso ininterrotto
 e continuativo, ed il trattamento piu' grave riservato  dall'art.  90
 (con  l'esclusione  dell'applicabilita'  della  sospensione  in  esso
 prevista) alla meno grave situazione di chi ne fa un uso occasionale:
 l'ipotesi di incostituzionalita' in questione e' piuttosto scolastica
 per la cannabis (poiche', come si e' detto, per questa in  ogni  caso
 sembra   da  escludere  la  possibile  insorgenza  di  uno  stato  di
 tossicodipendenza), mentre e' concreta e reale quanto alla disparita'
 di trattamento che viene a crearsi tra la situazione meno  grave  del
 consumatore  occasionale  di  droghe  pesanti e quella piu' grave del
 consumatore abituale. Ma, come  si  diceva,  il  dubbio  maggiore  di
 costituzionalita'  cui  da'  luogo  l'art.  90 e' quello che discende
 dalla disparita' di trattamento che  questo  riserva  (in  violazione
 dell'art.  3  della  Costituzione)  alla  situazione  meno  grave dei
 consumatori di cannabis (ai quali non  sara'  applicabile  l'istituto
 della  sospensione  dell'esecuzione della pena, dovendosene escludere
 lo stato di tossicodipendenza) rispetto a quella di  piu'  grave  dei
 consumatori-tossicodipendenti  di  droghe  pesanti:  e  che  la prima
 situazione sia meno grave di quest'ultima e' il legislatore stesso  a
 dirlo  sia  nei lavori preparatori, sia nel raffronto tra il primo ed
 il quinto comma dell'art. 73 del  testo  unico,  sia  nel  piu'  alto
 "tetto"  di  pena  irrogata previsto per le droghe leggere rispetto a
 quelle   pesanti   (ai   fini   dell'ammissione   o   dell'esclusione
 dall'istituto in questione) proprio nell'art. 90, primo comma.
    La  legittimita'  costituzionale,  in  tema  di  cosiddette droghe
 leggere, potrebbe dunque ripristinarsi o  attraverso  un  complessivo
 ripensamento  dell'intera materia in questione, sempre che si accolga
 e si condivida il discorso circa la mancanza di offensivita'  sociale
 delle  relative  condotte.  Oppure,  in  caso  contrario, sopprimendo
 l'irrealistico richiamo  di  cui  all'art.  90  a  dette  sostanze  e
 rimettendo,  quantomeno  con  riferimento  alla  materia regolante le
 medesime sostanze "leggere" (per le quali, come si  e'  visto,  ancor
 piu' gravi sono i dubbi d'incostituzionalita' in relazione ai profili
 gia'  esposti sub nn. 1 e 3), al concreto accertamento giudiziario la
 ricerca  della  verita'  reale,  sicche'  la  quantita'  di  sostanza
 detenuta   valga   solo  come  uno  (ma  non  l'unico,  esclusivo  ed
 automatico) tra gli elementi di prova in concreto  del  consumo  (non
 punibile)  ovvero  dello spaccio (punibile). in quest'ultimo caso, il
 differente  regime  legislativo (in tema di discrimime del penalmente
 rilevante dal non) tra  droghe  leggere  e  droghe  pesanti  potrebbe
 rapportarsi  alla differente gravita' delle situazioni (meno grave la
 prima, piu' grave la seconda), differenza che, come gia' si e' detto,
 viene legislativamente riconosciuta sia nei lavori preparatori  della
 nuova  legge  che  nel  raffronto  tra  il  primo  ed il quinto comma
 dell'art. 73 del t.u., anche se non ci si  nasconde  che  una  simile
 soluzione   potrebbe   non   fugare   i   gia'   esposti   dubbi   di
 costituzionalita' della nuova legge pure con riferimento alle  droghe
 pesanti.