ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 54, primo comma,
 della  legge  26  luglio  1975,  n.   354   (Norme   sull'ordinamento
 penitenziario  e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
 della liberta'), modificato dalla  legge  10  ottobre  1986,  n.  663
 (Modifiche   alla   legge   sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla
 esecuzione delle  misure  privative  e  limitative  della  liberta'),
 promossi con n. 3 ordinanze emesse il 5 ottobre 1990 dal Tribunale di
 sorveglianza  presso  la  Corte  d'appello di Torino, iscritte ai nn.
 129, 130 e  131  del  registro  ordinanze  1991  e  pubblicate  nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  11, prima serie speciale,
 dell'anno 1991;
    Visti gli atti di intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del  5 giugno 1991 il Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Con tre ordinanze di identico  contenuto,  pronunciate  il  5
 ottobre 1990, il Tribunale di sorveglianza di Torino ha sollevato, in
 riferimento  agli  artt.  3  e  27  della  Costituzione, questione di
 legittimita' dell'art. 54, primo comma, della legge 26  luglio  1975,
 n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
 misure  privative e limitative della liberta'), cosi' come sostituito
 dall'art. 18 della legge 10 ottobre  1986,  n.  663  (Modifiche  alla
 legge  sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
 privative  e  limitative  della  liberta'),  nella  parte   in   cui,
 stabilendo  che  ai  fini  della  liberazione anticipata "e' valutato
 anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare",  consente
 il  computo  della  custodia  trascorsa  nella  forma  degli  arresti
 domiciliari (art. 284 del codice di procedura penale).
    Osserva   il   rimettente   che,   in   base   alla   elaborazione
 giurisprudenziale   formatasi  in  tema  di  liberazione  anticipata,
 possono enuclearsi i seguenti princi'pi: 1)  il  detenuto,  se  vuole
 ottenere la riduzione di pena, deve attivarsi rispetto alle occasioni
 trattamentali  che  gli  sono  offerte  durante  la detenzione; 2) la
 decisione del tribunale di sorveglianza deve  basarsi  esclusivamente
 sui  risultati  acquisiti  nel  periodo  in  cui  si e' sviluppato il
 trattamento rieducativo del  detenuto;  3)  deve  escludersi  che  il
 comportamento  puramente  passivo di supina e disciplinata osservanza
 delle norme che regolano la vita carceraria legittimi il detenuto  ad
 ottenere  la  riduzione di pena. Tutto cio', rileva il giudice a quo,
 conduce a risultati coerenti rispetto a quanto sancito dagli artt.  3
 e  27 della Costituzione, giacche' le opportunita' trattamentali sono
 offerte  a  tutte  le  persone  detenute  in  istituti  di  pena;  il
 coinvolgimento  dei  detenuti  in tale attivita' e' una delle massime
 espressioni della funzione rieducativa della pena;  la  pace  sociale
 negli istituti di pena e' un dato di fatto incontrovertibile da molti
 anni;  sicche'  - conclude il rimettente - e' possibile affermare che
 l'istituto della liberazione anticipata e'  legato  indefettibilmente
 al regime penitenziario.
    Ma  tale disciplina, il cui fulcro e' rappresentato dalla adesione
 del detenuto alle  attivita'  trattamentali  del  carcere,  e'  stata
 modificata  dalla  legge n. 663 del 1986 che ha previsto la riduzione
 anche per il periodo trascorso in  stato  di  custodia  cautelare  e,
 quindi, anche nella forma degli arresti domiciliari. L'innovazione, a
 parere  del  rimettente, vulnera gli artt. 3 e 27 della Costituzione,
 in quanto la  novella  ha  introdotto  una  disciplina  unitaria  per
 situazioni  soggettivamente  ed  oggettivamente  diverse ed avulsa da
 qualsiasi funzione rieducativa. Si rileva, infatti, che gli  elementi
 acquisibili  dalla  autorita'  di  polizia  ai fini della valutazione
 della  condotta  tenuta  nel  corso  degli  arresti  domiciliari,  si
 limitano ad enunciati stereotipi i quali attestano esclusivamente che
 la  persona  "non  ha  dato  luogo  a  rilievi con la sua condotta in
 genere"; sicche', mentre per pacifica giurisprudenza l'art. 54  della
 legge  e l'art. 94 del regolamento sono interpretati nel senso che la
 regolare condotta tenuta nel corso della espiazione  della  pena  non
 giustifica  da  sola la concessione della liberazione anticipata, con
 la  novella  del  1986  la  regolare  condotta  durante  gli  arresti
 domiciliari e' sufficiente per ottenere la riduzione di pena. Risulta
 cosi'  evidente  -  si  assume  nelle  ordinanze  - che l'innovazione
 legislativa  ha  introdotto  una   disciplina   discriminatoria   nei
 confronti  dei detenuti che espiano la pena in carcere, privilegiando
 coloro che espiano la pena agli arresti domiciliari.
    D'altra parte, osserva il rimettente,  i  princi'pi  enunciati  da
 questa  Corte  nella ordinanza n. 327 del 1989 in tema di liberazione
 anticipata con riferimento alla detenzione domiciliare,  non  possono
 applicarsi  agli  arresti domiciliari: mentre, infatti, la detenzione
 domiciliare postula un costante controllo del detenuto da  parte  del
 centro  del  servizio  sociale  e del magistrato di sorveglianza, nel
 corso degli arresti domiciliari i saltuari controlli effettuati dalla
 autorita' di polizia si limitano a verificare se la persona si  trovi
 in  casa.  Il  che, conclude il rimettente, consente di affermare che
 durante gli arresti domiciliari non  si  garantiscono  "le  finalita'
 rieducative  della  pena" e un trattamento identico a quello previsto
 per  coloro  che  espiano  la  pena  in  carcere  o   in   detenzione
 domiciliare.
    2.  -  Nei  giudizi e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello
 Stato,  chiedendo  che  la  questione sia dichiarata infondata. Negli
 atti di intervento l'Avvocatura ha osservato  che  le  considerazioni
 poste  a  fondamento  della  ordinanza di questa Corte richiamata dal
 giudice a quo sono estensibili agli arresti domiciliari,  trattandosi
 di  istituto  ontologicamente  identico  alla detenzione domiciliare,
 mentre nessun rilievo rivestirebbe, ai fini della dedotta censura, il
 fatto  che,  nel  caso  degli  arresti  domiciliari, al controllo del
 servizio  sociale,  previsto  per  la  detenzione   domiciliare,   si
 sostituisca quello della polizia giudiziaria.
                        Considerato in diritto
    1.  -  Il  Tribunale  di  sorveglianza  di Torino ha sollevato, in
 riferimento agli artt.  3  e  27  della  Costituzione,  questione  di
 legittimita'  dell'art.  54, primo comma, della legge 26 luglio 1975,
 n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
 misure privative e limitative della liberta'),  sostituito  dall'art.
 18  della  legge  10  ottobre  1986,  n.  663  (Modifiche  alla legge
 sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
 privative e limitative della liberta'), nella parte in cui stabilisce
 che  ai  fini  della  concessione  della  liberazione  anticipata  e'
 valutato anche il periodo trascorso in stato di  custodia  cautelare,
 pur se nella forma degli arresti domiciliari. Piu' in particolare, il
 giudice  a  quo denuncia la violazione dell'art. 3 della Costituzione
 sul presupposto che, non  potendo  applicarsi  alle  persone  che  si
 trovano  agli  arresti domiciliari il principio, valido per quanti si
 trovano in fase  di  espiazione  della  pena,  secondo  il  quale  la
 regolare  condotta  da  sola  non  giustifica  la  concessione  della
 liberazione anticipata, si determina "una disciplina  discriminatoria
 nei   confronti   dei  detenuti  che  espiano  la  pena  in  carcere,
 privilegiando coloro che espiano la pena agli  arresti  domiciliari".
 Viene  denunciata, poi, la violazione del principio sancito dall'art.
 27, terzo  comma,  della  Costituzione,  in  quanto,  ad  avviso  del
 rimettente,  nel corso degli arresti domiciliari "non si garantiscono
 le finalita' rieducative della pena  ed  un  trattamento  identico  a
 quello  previsto  per  coloro  che  espiano  la  pena in carcere o in
 detenzione domiciliare".
    2. - Le ordinanze di rimessione, pronunciate dallo stesso  giudice
 in  tre distinti procedimenti di sorveglianza, sottopongono all'esame
 della Corte  questioni  identiche  fondate  sui  medesimi  motivi:  i
 relativi giudizi, pertanto, vanno riuniti per essere decisi con unica
 sentenza.
   3.  -  Il  nucleo centrale della tesi sostenuta dal rimettente trae
 alimento  da  una  premessa  di  incontrovertibile   esattezza,   non
 potendosi  certo  revocare in dubbio l'esistenza di grandi diversita'
 sul piano strutturale e funzionale, tra il regime che caratterizza lo
 status delle persone sottoposte alla misura degli arresti domiciliari
 rispetto alla condizione in cui versano i soggetti che si trovano  in
 vinculis  negli istituti penitenziari per espiare la pena. Diversita'
 che necessariamente si proiettano anche sul piano dei "controlli" che
 l'ordinamento appresta per soddisfare le finalita', per molti aspetti
 antinomiche,  che  caratterizzano  le  due   "situazioni"   poste   a
 raffronto.  Nel  caso degli arresti domiciliari, infatti, ci si trova
 in presenza di una fra le diverse misure coercitive  che  il  giudice
 puo'  adottare nel corso del procedimento, sicche' le uniche esigenze
 che, da un lato ne legittimano l'adozione e, dall'altro, giustificano
 il necessario potere di verifica  circa  l'osservanza  dei  contenuti
 precettivi  insiti  nella  specifica misura, non possono che essere i
 pericula libertatis tipizzati nell'art. 274 del codice  di  procedura
 penale.   Al  di  la'  della  funzione  cautelare,  dunque,  e  della
 correlativa possibilita' offerta dall'art.  284,  quarto  comma,  del
 codice  di  rito,  di "controllare in ogni momento l'osservanza delle
 prescrizioni   imposte   all'imputato",   non   possono  intravedersi
 finalita' diverse, cosicche' non residua spazio  per  ipotizzare  una
 "osservazione" del comportamento dell'imputato che non sia consona al
 soddisfacimento   delle  esigenze  che  sottostanno  alla  misura.  I
 controlli che accompagnano l'applicazione della misura degli  arresti
 domiciliari   si  pongono,  quindi,  su  di  un  piano  di  contrasto
 funzionale rispetto a quelli intesi ad acquisire la  "prova"  che  il
 condannato   a   pena   detentiva  abbia  partecipato  "all'opera  di
 rieducazione"   ai   fini   di   quanto   previsto    dall'art.    54
 dell'ordinamento  penitenziario,  posto  che  affiancare una funzione
 rieducativa alle finalita'  cautelari,  tipiche  ed  esclusive  della
 misura,  equivarrebbe  ad introdurre un elemento antagonista rispetto
 alla presunzione di non  colpevolezza  che  per  definizione  assiste
 l'imputato che a quella misura si trova sottoposto.
    4.  - Tutto cio', peraltro, non incide in alcun modo - come invece
 mostra di ritenere il rimettente - sulla valutazione dei  presupposti
 ai  quali  l'ordinamento  condiziona  il riconoscimento del beneficio
 della liberazione anticipata. Come questa Corte ha gia' avuto modo di
 rilevare (sentenza n. 276 del 1990), la detrazione di  pena  prevista
 dall'art. 54 della legge 26 luglio 1975, n. 354, nel testo sostituito
 dall'art.   18   della  legge  10  ottobre  1986,  n.  663,  oltre  a
 rappresentare il riconoscimento della partecipazione  del  condannato
 all'opera rieducativa, e' accordata allo specifico fine di consentire
 il  piu' efficace reinserimento del condannato stesso nella societa'.
 "Ma e' evidente" rileva ancora la Corte "che questa e' l'enunciazione
 della finalita' dell'istituto, e della sua stessa ratio; la legge, in
 altri termini, vuol mettere subito bene in chiaro che la riduzione di
 pena non  ha  gratuito  carattere  pietistico  o  paternalistico,  ma
 rappresenta  un  premio  allo sforzo che il condannato va facendo per
 adeguarsi all'opera dell'Istituzione che, mediante  la  rieducazione,
 lo  avvia  al  reinserimento sociale". Poiche', dunque, e' proprio ed
 esclusivamente "a tal fine"  che  la  norma  denunciata  consente  di
 "valutare" anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare,
 a   prescindere   dalla  diversa  tipologia  delle  misure  (custodia
 cautelare in carcere, custodia cautelare in luogo  di  cura,  arresti
 domiciliari)  atte a generare quello stato, e' evidente, allora, come
 il contenuto di "meritorieta'" della  condotta  suscettibile  di  dar
 luogo  alla  riduzione  di  pena,  sia  riguardato dal legislatore in
 termini di sostanziale omogeneita' quanto ai  relativi  parametri  di
 valutazione,  pur  se  ampiamente  diversificate  possono in concreto
 apparire le situazioni di fatto alla cui stregua  operare  un  simile
 apprezzamento.  Il  giudice  a  quo,  infatti, appunta le sue censure
 prendendo genericamente a riferimento la sola ipotesi  degli  arresti
 domiciliari,  ma  la natura dei "problemi" lumeggiati nelle ordinanze
 di rimessione si riflette, in realta', su di una gamma ben piu' ampia
 di situazioni che possono scaturire dal  complesso  quadro  normativo
 che disciplina - ai fini che qui interessano - il tema della liberta'
 personale.  Va  anzitutto  rilevato, in proposito, come le misure che
 generano la custodia cautelare siano fra loro normativamente graduate
 sul piano della afflittivita', in stretta aderenza  ai  princi'pi  di
 adeguatezza  e proporzionalita' enunciati dall'art. 275 del codice di
 procedura penale. Ed e', anzi, proprio facendo leva su tale  premessa
 che  la  giurisprudenza  e'  pervenuta  alla  conclusione di ritenere
 computabile  agli  effetti  della  liberazione  anticipata  anche  il
 periodo trascorso dall'interessato agli arresti domiciliari, giacche'
 l'opposta  tesi  avrebbe determinato una ingiustificata disparita' di
 trattamento tra chi e' stato ammesso agli arresti domiciliari  e  chi
 non lo e' stato, con un trattamento deteriore nei confronti di coloro
 che,  per  una  minore  pericolosita', sono stati ritenuti meritevoli
 della meno afflittiva misura degli arresti domiciliari.  Se,  quindi,
 tra  le  diverse forme di custodia cautelare e' possibile intravedere
 un differenziato livello di compressione della liberta'  personale  e
 se, ancora, nell'ambito della stessa misura degli arresti domiciliari
 sono  ammesse modalita' esecutive che restringono o ampliano la sfera
 della liberta' dell'imputato a norma dell'art. 284, secondo  e  terzo
 comma,  del  codice  di  rito,  e'  evidente,  allora,  come  risulti
 corrispondentemente  differenziata  la  tipologia   dei   "controlli"
 apprestati  dall'ordinamento  e,  soprattutto,  come  agli stessi non
 possa annettersi  -  per  i  rilievi  gia'  svolti  -  il  valore  di
 "presupposto"  indispensabile  ai fini della applicazione della norma
 denunciata.  D'altra  parte,  anche   nei   confronti   dell'imputato
 sottoposto  alla  misura  della custodia cautelare in carcere possono
 profilarsi, seppure in misura ridotta, le stesse carenze di  elementi
 valutativi  sulle quali il giudice a quo fonda, in buona sostanza, le
 proprie censure di illegittimita'  costituzionale,  dal  momento  che
 l'ordinamento  penitenziario  -  e  per ragioni fin troppo evidenti -
 distingue nettamente le disposizioni che disciplinano il  trattamento
 dei condannati rispetto a quello degli imputati.
    5.  -  Il  nucleo  della disposizione oggetto di denuncia, quindi,
 deve essere rinvenuto  nelle  finalita'  alle  quali  e'  rivolta  la
 detrazione  di  pena  per il periodo trascorso in custodia cautelare,
 anche se nella forma degli arresti domiciliari, e  nell'apprezzamento
 "qualitativo"  della  condotta  tenuta in quel periodo, a prescindere
 dalla fonte da cui promanino gli elementi conoscitivi sulla cui  base
 viene  formulato  un  simile  giudizio. Essendo la detrazione di pena
 rivolta al fine di consentire  un  piu'  efficace  reinserimento  del
 condannato  nella  societa',  e  dovendo  questi  offrire la prova di
 partecipazione all'opera di rieducazione, stara' al giudice  valutare
 se   nel  comportamento  serbato  dall'interessato  nel  corso  della
 custodia cautelare possano essere rinvenuti quegli  elementi  che  la
 giurisprudenza   indica   come  sintomatici  della  evoluzione  della
 personalita'  verso  modelli  socialmente  validi,  del  ravvedimento
 improntato  alla  revisione  delle motivazioni che avevano indotto il
 condannato a perseguire scelte criminali ed, infine, del  progressivo
 abbandono   dei   disvalori  sui  quali  tali  scelte  si  fondavano.
 Positivamente accertata la ricorrenza di tali presupposti, dunque, la
 riduzione  di  pena  si   giustifica   quale   riconoscimento   della
 partecipazione  all'opera  rieducativa,  la  quale,  anche se attuata
 "spontaneamente" ed al di fuori del circuito penitenziario,  non  per
 questo  cessa  di  essere  riguardata  dal legislatore come parametro
 unitario e  concettualmente  indifferenziato,  alla  cui  stregua  la
 concessione del beneficio puo' concretamente volgersi a soddisfare la
 funzione tipica dell'istituto.
    6.  -  Inquadrata  nei  riferiti  termini, la questione sottoposta
 all'esame di questa Corte si appalesa, pertanto, priva di fondatezza.
 Il giudice a quo, infatti, muove dalla erronea premessa  di  ritenere
 che,   essendo   l'attivita'   svolta   dagli  organi  incaricati  di
 controllare la condotta dell'imputato sottoposto  alla  misura  degli
 arresti   domiciliari   destinata   a  garantire  il  rispetto  delle
 prescrizioni imposte con la misura, e poiche' tale "osservazione"  si
 postula,  seppure  in  forma implicita, come equivalente a quella che
 concerne il trattamento  riservato  ai  condannati  nel  corso  della
 esecuzione  della  pena,  la semplice mancanza di "elementi negativi"
 attestata dalla autorita' di polizia sarebbe in  se'  sufficiente  ai
 fini  del  computo  di  quel  periodo  agli effetti della liberazione
 anticipata, con un correlativo "affievolimento"  dei  presupposti  di
 concedibilita'  del beneficio rispetto a quelli stabiliti per la fase
 della espiazione della pena. Ma la legge, si e' gia'  detto,  facendo
 leva  sulla  "prova"  che l'interessato deve fornire circa la propria
 partecipazione all'opera di rieducazione, non consente di graduare  i
 presupposti in funzione del tipo di "custodia" al quale la detrazione
 di  pena  si  riferisce; sicche', i medesimi criteri di valutazione e
 gli stessi parametri di  riferimento  alla  cui  stregua  il  giudice
 ritiene  provata  la  partecipazione del condannato alle opportunita'
 offertegli nel corso del  trattamento  penitenziario,  devono  valere
 anche agli effetti della omologa delibazione che il giudice stesso e'
 chiamato  a compiere circa la condotta mantenuta dall'interessato nel
 corso della custodia cautelare, restando comunque salva la piu' ampia
 possibilita' di acquisizione degli elementi di fatto sui  quali  tale
 apprezzamento deve oggettivamente fondarsi.
    Ne'  l'uno  ne'  l'altro dei parametri costituzionali invocati dal
 rimettente puo' ritenersi, quindi,  in  alcun  modo  vulnerato  dalla
 disposizione  oggetto di denuncia, posto che, per cio' che attiene al
 principio di uguaglianza,  alla  identita'  dei  presupposti  per  la
 concessione  del  beneficio corrisponde la parita' di trattamento fra
 le diverse situazioni poste a raffronto,  mentre,  sotto  il  profilo
 della   dedotta   violazione   dell'art.   27,   terzo  comma,  della
 Costituzione, e' proprio la "meritorieta'" della condotta serbata nel
 corso degli arresti domiciliari a giustificare la detrazione di  pena
 che  -  secondo  la  mens  della norma - e' destinata a facilitare un
 "piu' efficace reinserimento nella societa'" (v. sentenza n. 276  del
 1990).