IL PRETORE Ha emesso la seguente ordinanza nelle cause previdenziali riunite nn. 3/1991, 7/1991, 10/1991, 12/1991, 14/1991, 17/1991, 18/1991, 21/1991, 22/1991, 23/1991, 24/1991, 25/1991, 27/1991, 28/1991, 30/1991, 32/1991, 35/1991, 37/1991, 38/1991, 39/1991, 40/1991, vertenti tra Wanda Pallara piu' 20, avv. Adolfo Biole' e Giorgio Saguato, contro l'Istituto nazionale della previdenza sociale, avv. Giacomo Frallicciardi. Oggetto: integrazione al minimo di pensione. PREMESSO IN FATTO Che con separati ricorsi, depositati in cancelleria tutti il 4 gennaio 1991, Wanda Pallara, ed altri venti titolari di pensione sociale chiedevano - in applicazione della sentenza n. 314/1985 della Corte costituzionale - l'integrazione al minimo del trattamento previdenziale goduto, sostenendo che il diritto all'integrazionestessa non poteva dirsi precluso dal decorso del termine decennale di cui all'art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639 (le situazioni di cumulo pensionistico si erano infatti determi- nate piu' di dieci anni prima della sentenza costituzionale), in forza della giurisprudenza della Corte di cassazione consolidatasi sul punto, che ritiene il termine non attinente ad una decadenza dal diritto, bensi' afferente unicamente al procedimento, e pertanto non preclusivo di una riattivazione della procedura amministrativa (veniva in particolare citata cass., sez. lav., 23 gennaio 1989, n. 376); precisando di avere, in varie date successive alla sentenza costituzionale, riproposto la domanda in via amministrativa, che era stata respinta; ed infine affermando, quanto all'entita' del trattamento di integrazione dovuto, che esso doveva essere computato con riferimento alla data del 1º ottobre 1983, in cui entrava in vigore la legge 11 novembre 1983, n. 638, di conversione del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463, in forza della considdetta cristallizzazione dei minimi pensionistici operata dall'art. 6 di tale legge. Che l'istituto previdenziale si costituiva in giudizio sostenendo che i decreti-legge n. 250/1990 e 28/1991 (che costituiva reiterazione del primo) avevano, con norma di interpretazione autentica, chiarito la natura decadenziale del termine decennale di cui all'art. 47 cit.; che pertanto il trattamento integrativo non poteva essere riconosciuto, in quanto i rapporti dedotti in giudizio dovevano considerarsi esauriti alla data di acquisizione di efficacia della sentenza costituzionale richiamata; che doveva, per una serie di ragioni che non e' questa la sede per illustrare, ritenersi infondata l'opinione inerente la cristallizzazione all'ottobre 1983, sostenuta dalle controparti. Che all'udienza di comparizione le cause, identiche quanto a petitum e causa petendi, venivano riunite. Che le parti chiedevano rinvio, in attesa della maturazione degli eventi legislativi in corso nella materia. Che infatti, nelle more, veniva emanato, e convertito (con modifiche che non interessano i profili in discussione) nella legge 1º giugno 1991, n. 166, il d.-l. 29 marzo 1991, n. 103. Che, all'odierna udienza di discussione, le difese delle parti affermavano l'una (cioe' quella dei ricorrenti), l'inapplicabilita' dell'art. 6 della legge stessa, e l'altra il contrario. Tutto cio' premesso. O S S E R V A Per quanto fondata su interessanti argomentazioni, nonche' sulla rilevazione della somma incoerenza dell'opposta interpretazione, non appare fondata la lettura della difesa dell'I.N.P.S., secondo la quale l'art. 6 del recentissimo provvedimento legislativo da ultimo richiamato in narrativa si applicherebbe anche a questi giudizi, con la conseguenza che, dovendosi, in forza di esso, individuare come attinenti alla decadenza dal diritto sostanziale i termini previsti dall'art. 47 del d.P.R. 369 cit., non potrebbe applicarsi alle situazioni giuridiche dedotte in lite, esauritesi in forza della decadenza stessa, la sentenza costituzionale dai ricorrenti invocata. Il secondo comma dell'art. 6 in rassegna statuisce infatti: "Le disposizioni di cui al primo comma hanno efficacia retroattiva, ma non si applicano ai processi che sono in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto". Dunque, la formula legislativa - che non consiste in un generico fatti salvi o espressione consimile, che forse avrebbe legittimato i distinguo operati dalla difesa dell'I.N.P.S., ma nella perentoria dizione riportata, che lascia assai poco spazio all'interpretazione - segnala chiaramente la scelta di limitare la retroattivita' della norma - che, proprio in virtu' di tale limitazione, e' discutibile possa qualificarsi di interpretazione autentica, e che infatti in tal senso non viene denominata - introdotta, alle fattispecie non ancora portate all'attenzione del giudice. Ora, e' certamente possibile e costituzionalmente legittimo, in se', che il legislatore effettui delle scelte e delle distinzioni in tema di retroattivita' di una legge, dal momento che pacificamente si tratta di materia non elevata, tranne che nel diritto penale, al rango costituzionale. E tuttavia, la scelta legislativa non puo' essere sottratta ad altro genere di vaglio costituzionale, cioe' alla verifica della razionalita' della discriminazione che eventualmente la scelta stessa operasse, secondo la consolidatissima interpretazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione. Che nel caso di cui si discute si operi una discriminazione, sembra difficle negarlo: se e' vero il diritto vivente si e' consolidato nel senso di ritenere che l'art. 47 piu' volte citato ha natura di decadenza procedimentale (cosi' Cass., sez. un., 21 giugno 1990, n. 6245), e che comunque, indipendentemente da una diversa qualificazione dogmatica, non preclude la riproposizione della domanda di integrazione al minimo (cfr. per tutte, precedentemente alla pronuncia a sezioni unite citata, la sentenza n. 376/1989 indicata dalla difesa dei ricorrenti), appare chiaro che il primo comma dell'art. 6 in esame, qualificando il termine come di decadenza dal diritto, e sancendo che il suo decorso determina l'estinzione del diritto ai ratei pregressi e l'inammissibilita' delle relative domande giudiziali, detta una disciplina esattamente opposta a quella delineata dalla situazione normativa precedente, quale risultante dall'interpretazione giurisprudenziale. La scelta di rendere retroattiva tale disposizione, e' scelta discrezionale del legislatore, per quanto si e' ricordato incensurabile. Tuttavia, la limitazione della retroattivita', anch'essa in astratto possibile, e' legata ad un fatto del tutto estrinseco, non significativo soprattutto a livello di consolidamento del diritto, quale la mera proposizione del giudizio: la postulazione del proprio diritto, cioe' l'azione giudiziaria, infatti, non comporta affatto, per la varieta' ipotizzabile dei singoli casi concreti, che si possa considerare acquisito il diritto postulato. Dunque, non sorretto dalla motivazione della salvaguardia dei diritti quesiti, tradizionale limite alla retroattivita' della legge e degli atti giuridici, diviene puramente arbitrario, e irrazionalmente discriminatorio, a danno di chi non ha ancora proposto la domanda in giudizio al momento dell'entrata in vigore del decreto-legge, decidere solo per tali soggetti, e non per tutti coloro la cui situazione sostanziale sia analoga, di punto in bianco la decadenza dal diritto e l'inammissibilita' dell'azione. Cio' detto in punto di fondatezza della questione prospettata d'ufficio, va osservato, quanto alla rilevanza in questo giudizio, che senza dubbio deve farsi applicazione della recentissima norma di cui si sospetta l'illegittimita': se infatti non vi fosse la limitazione di cui si discute, il primo comma dell'art. 6 comporterebbe, in forza della retroattivita' illustrata, la dichiarazione di inammissibilita' delle domande portate all'esame del giudicante. Non ha poi - ed e' appena il caso di osservarlo - alcun rilievo il fatto che la norma che si ritiene inficiata sia favorevole, anziche' sfavorevole, ai ricorrenti, e comporti l'esame delle loro domande, anziche' tout court la dichiarazione di inammissibilita'. Infine, quanto alla valutazione della necessita' della sospensione del giudizio di merito, di cui al secondo comma dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e' evidente che tale necessita' sussista, dacche' la norma sospettata condiziona, con l'assolutezza di cui s'e' detto, l'accoglimento delle domande. Non occorre che questa ordinanza sia notificata alle parti, in quanto viene letta in udienza, essendo emessa in giudizio di lavoro.