IL PRETORE
    Oggi,  20  gennaio 1991, innanzi il dott. Filadoro, e' comparsa la
 dott. proc.  Maria  Antonietta  Biagioli  Agosti,  nonche'  la  parte
 personalmente, signora Granata Italia. La dott. proc. Biagioli Agosti
 chiede,  preliminarmente,  che  il  presente  giudizio  venga riunito
 all'altro, ugualmente pendente innanzi  codesto  pretore  e  chiamato
 all'udienza  odierna  avente  r.g.  8875/90  trasmesso  sempre  dalla
 ricorrente, contro l'I.N.P.S., quale erede di  Granata  Bassano,  suo
 padre,  mentre il presente riguarda la posizione della successione in
 morte della madre, Fontanella Maria.
    E' pure presente l'avv. Fenigli per l'I.N.P.S.
    Sciogliendo la riserva che precede;
                              R I L E V A
    Con  sentenza  n.   286   dell'11-14   giugno   1990,   la   Corte
 costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimita'
 costituzionale degli artt. 6 e 8 del d.lgs. n. 509/1968 sollevata con
 riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione.
    La  questione  e'  stata  ora  riproposta dalla difesa della parte
 ricorrente con i due distinti ricorsi.
    Osserva infatti la ricorrente che  il  comitato  di  assistenza  e
 beneficienza   ha   riconosciuto  alla  madre  ed  al  padre  di  lei
 (Fontanella Maria e Granata Bassano) il diritto alla pensione di  cui
 alla  legge  n.  118/1971  e  successive  modificazioni, a seguito di
 riconoscimento di inabilita' ai sensi della legge n. 18/1980.
    I due genitori erano deceduti tuttavia, lasciando come unica erede
 la figlia che non aveva ricevuto alcunche' a titolo di  arretrati  di
 pensione  (perche'  i genitori avevano piu' di sessantacinque anni al
 momento della decisione della prefettura di  Pavia,  che  pure  aveva
 riconosciuto  il  diritto  alla  pensione con decorrenza 1º settembre
 1984 (seduta del 1º ottobre 1986).
    Costituendosi in giudizio, l'I.N.P.S. contesta la richiesta  della
 ricorrente,  riproponendo  sostanzialmente  le  argomentazioni svolte
 dalla Corte costituzionale, con la richiamata sentenza.
    Occorre brevemente  ricordare  la  farraginosa  normativa  che  ha
 regolato la materia.
    Con  legge  n.  153/1969  veniva  istituita la pensione sociale in
 favore dei cittadini ultrasessantacinquenni con reddito inferiore  ad
 un determinato limite (art. 26).
    Con  successiva legge n. 118/1970, veniva istituita la pensione di
 inabilita' (art. 12) e l'assegno di invalidita'  (art.  13)  per  gli
 invalidi  civili  tra  i  diciotto  e  i sessantacinque anni e con le
 stesse condizioni di reddito previste per la pensione sociale.
    La stessa legge prevedeva la trasformazione di queste due forme di
 assistenza nella pensione sociale (art. 9).
    Con due provvedimenti di legge (nn. 29/1977 e 33/1980) i requisiti
 di reddito venivano elevati considerevolmente per gli invalidi civili
 totali e parziali.
    I limiti di reddito per gli ultrasessantacinquenni rimanevano piu'
 ristretti.
    Si  instaurava  cosi'  una  prassi  amministrativa  approvata  dal
 Ministero  degli  interni  che riconosceva la pensione di invalidita'
 civile  agli  ultrasessantacinquenni  (in  modo  da  consentire  loro
 l'erogazione  della  pensione  sociale  sulla base dei requisiti piu'
 favorevoli di reddito previsti per gli invalidi civili).
    Tuttavia, questa prassi determinava le reazioni di alcuni  giudici
 (procuratore  della  Repubblica  e  giudice  istruttore di Rieti) che
 ipotizzavano in questa condotta gli elementi dell'abuso di ufficio  e
 del  peculato,  nelle  precedenti  formulazioni  del codice penale (8
 novembre 1986 e 5 dicembre 1986).
    L'I.N.P.S. in data 20 gennaio 1987  disponeva  allora  l'immediata
 sospensione  di  questo  sistema  di  definizione  delle  pratiche di
 pensione sociale. Il Consiglio di Stato condivideva  tale  decisione.
 Per  legittimare  la situazione venutasi a creare a seguito di questi
 rilievi, veniva approvato il d.-l.  n.  495/1987  che  con  norma  di
 interpretazione  autentica  ammettava  al  godimento  della  pensione
 sociale anche  i  mutilati  e  invalidi  civili,  che  fossero  stati
 riconosciuti  tali  a  seguito  di  istanza  presentata alle apposite
 commissioni dopo il sessantacinquesimo anno di eta'. Il  decreto  non
 veniva convertito in legge per ragioni di ordine finanziario.
    Con   successivo   d.-l.   n.  35/1988,  venivano  legittimate  le
 situazioni  in  cui  i  pagamenti  erano  gia'  stati   disposti,   e
 autorizzate  nuove  prestazioni  solo  nel  caso  in  cui fosse stato
 trasmesso all'I.N.P.S. alla data di entrata  in  vigore  del  secondo
 decreto-legge (febbraio 1988) il provvedimento del CPABP.
    Infine,  con  ulteriore  provvedimento  restrittivo,  la  legge di
 conversione del decreto-legge (n. 93/1988) ribadiva  la  legittimita'
 delle liquidazioni gia' effettuate, mentre abrogando il secondo comma
 dell'articolo,  negava  per  il  futuro  la possibilita' di ulteriori
 liquidazioni (anche se le delibere erano pervenute entro l'8 febbraio
 1988).
    Tuttavia,   poiche'   nel   frattempo   erano   state    liquidate
 legittimamente  alcune  pensioni,  la  legge  di  conversione sanciva
 definitivamente la validita' di questi provvedimenti liquidatori  per
 il  passato  e  per il futuro, dichiarando salvi i relativi effetti e
 rapporti giuridici, disposti in forza della provvisoria  vigenza  del
 decreto.
    Questo il quadro normativo confuso, contraddittorio e irrazionale.
    La  Corte  costituzionale  ha  ritenuto  legittimo il complesso di
 questa normativa.
    Il pretore non condivide tuttavia  questa  impostazione  e  quindi
 deve rimettere la questione al nuovo esame della Corte.
    Innanzitutto  appare  ingiustificato che si distingua tra soggetti
 di eguale reddito e parimenti inabili, a  seconda  che  l'invalidita'
 sia riconosciuta prima o dopo il sessantacinquesimo anno di eta'.
    La  stessa Corte costituzionale con l'ultima decisione n. 286/1990
 ha sottolineato questa incoerenza,  precisando  che  essa  scaturisce
 dalle  disposizioni che stabiliscono diversi limiti di reddito per il
 conseguimento della pensione sociale  e  di  quella  di  invalidita',
 ribadendo  le  argomentazioni  gia' svolte in Corte costituzionale n.
 769/1988.
    Tale ordine di considerazioni fa ritenere assorbite  le  ulteriori
 considerazioni    circa   l'obiettiva   ingiustizia   di   situazioni
 differenziate  discendenti  dalla   "maggiore   o   minore   solerzia
 dell'amministrazione  nel provvedere alle domande" nel periodo in cui
 ebbe vigore il provvedimento di sanatoria introdotto nel  1988,  alle
 quali  peraltro la Corte costituzionale ha risposto nella motivazione
 della  sentenza  del  1990.  Le  argomentazioni   dell'ordinanza   di
 rimessione vengono comunque qui riproposte.
   Poiche'  la  questione  di  legittimita'  costituzionale non appare
 manifestamente infondata e  il  giudizio  non  puo'  essere  definito
 indipendentemente   dalla   risoluzione   della  predetta  questione,
 sospende il procedimento in corso,  trasmette  gli  atti  alla  Corte
 costituzionale,   perche'  decida  sulla  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 1, secondo comma, della legge n. 93/1988 (di
 conversione del d.-l. n. 25/1988) nella  parte  in  cui  limita  alle
 posizioni   gia'   definite   la  sanatoria,  senza  estenderla  agli
 ultrasessantacinquenni   che   avevano    presentato    domanda    di
 riconoscimento  di invalidita' per ottenere la pensione sociale sulla
 base dei requisiti economici richiesti per la pensione di invalidita'
 (con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione); nonche' sulla
 questione di legittimita' costituzionale degli artt. 1 della legge n.
 29/1977 (di conversione del  d.-l.  n.  850/1976),  14-septies  della
 legge  n.  33/1980  e  art.  26  della legge n. 153/1969 e successive
 modifiche ed integrazioni che stabiliscono limiti di reddito  diversi
 a  seconda della diversa prestazione: pensione di inabilita', assegno
 di invalidita' e pensione sociale (con riferimento agli artt. 3 e  38
 della Costituzione).