IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 531/90 proposto dalla provincia di Cagliari in persona del presidente in carica rappresentata e difesa dall'avv. Giovanni Cossu presso il cui studio in Cagliari, via Vidal n. 15 e' elettivamente domiciliata contro il comitato regionale di controllo sugli atti degli enti locali in Cagliari, in persona del presidente in carica non costituitosi in giudizio e la regione autonoma della Sardegna in persona del presidente della giunta in carica rappresentata e difesa dall'avv. Graziano Campus e dal dott. proc. Gian Piero Contu ed elettivamente domiciliata in Cagliari, viale Trento n. 69 presso l'ufficio legale dell'ente per l'annullamento dell'ordinanza assunta dal Co.Re.Co. in data 16 febbraio 1990, prot. 307/6, che annullava la deliberazione della giunta provinciale di Cagliari n. 243 del 23 gennaio 1990 riguardante la revisione del riequilibrio dell'anzianita' pregressa di cui all'art. 41 del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della regione sarda; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Nominato relatore per la pubblica udienza del 13 febbraio 1991 il consigliere Silvio Ignazio Silvestri; Uditi l'avv. Giovanni Cossu per la ricorrente e gli avvocati Graziano Campus e Gian Piero Contu per l'amministrazione resistente; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue; F A T T O La giunta provinciale di Cagliari con deliberazione n. 243 del 23 gennaio 1990, provvedeva ad estendere al proprio personale la sentenza del Consiglio di Stato, sezione quarta, n. 924 del 21 dicembre 1989 che da' una interpretazione dell'art. 41 del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347, piu' favorevole ai dipendenti sul riequilibrio dell'anzianita' pregressa da calcolarsi in dodicesimi e non piu' in ventiquattresimi. La provincia di Cagliari aveva gia' deliberato in tale senso con deliberazione g.p. n. 1872 del 31 maggio 1988 in applicazione della sentenza del t.a.r. Puglie, sezione di Bari, n. 1241/86, ma il Coreco aveva annullato tale atto con provvedimento prot. n. 1472/6 del 23 giugno 1988. Contro tale ultimo atto la provincia aveva proposto tempestivo ricorso giurisdizionale nanti questo tribunale. A seguito della sentenza del Consiglio di Stato di cui sopra, la provincia riteneva di dover dare applicazione al detto giudicato, eppertanto, deliberava di estendere la decisione interpretativa del supremo Collegio ai propri dipendenti con atto della g.p. n. 243/90. Il Coreco, col provvedimento in epigrafe, ha annullato la deliberazione di cui sopra per violazione dell'art. 17 del d.-l. 2 marzo 1989, n. 65, convertito nella legge 26 aprile 1989, n. 155, in quanto tale norma prevede che il calcolo del riequilibrio dell'anzianita' di cui all'art. 41 del d.P.R. n. 347/1983 deve operarsi dividendo il valore della classe e/o scatto per il coefficiente 24. Avverso tale atto la provincia ha dedotto i seguenti motivi: 1) violazione e falsa applicazione dell'art. 9 della legge regionale sarda 23 ottobre 1978, n. 62. Illegittimita' derivata dell'atto di controllo. Per il funzionamento del Coreco, istituito con legge regionale sarda 23 agosto 1985, n. 20, e la sua durata in carica valgono, ai sensi dell'art. 1 della legge appena citata, le disposizioni della legge n. 62/1978. L'art. 9 della legge regionale sarda n. 62/1978 stabilisce che "I comitati scadono con l'insediamento del consiglio regionale e due anni e mezzo dopo tale data; essi decadono il sessantesimo giorno delle predette scadenza; entro tale termine il consiglio regionale deve provvedere alla loro ricostituzione". Il consiglio regionale, rinnovatosi dopo le elezioni del giugno 1989, ha provveduto all'elezione dei componenti dei comitati e, quindi, anche del Co.Re.Co. ma i relativi organi non sono stati insediati in quanto non e' stato emanato il decreto del presidente della giunta ai sensi dell'art. 3. Alla luce di tali elementi sarebbe illegittimo il funzionamento dei comitati nella precedente composizione in quanto essi, ai sensi della disposizione invocata, sarebbero decaduti, eppertanto, non potrebbero svolgere alcuna attivita'. Il provvedimento di annullamento sarebbe, pertanto, illegittimo in quanto posto in essere da un organo ormai decaduto; 2) violazione dei principi generali in materia di interpretazione. Violazione del principio generale dell'affidamento e dell'irretroattivita' della legge con conseguente illegittimita' costituzionale dell'art. 17 del d.-l. n. 65/1989. Nel merito dell'impugnato provvedimento viene sollevata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 17 del d.-l. n. 65/1989 per due ordini di motivi: a) ove la norma venisse considerata come un'interpretazione autentica dell'art. 41 del d.P.R. n. 347/1983 si avrebbe una situazione contraria ai principi generali dell'ordinamento in quanto mediante un atto avente forza di legge viene interpretato un altro atto (il d.P.R. n. 347/1983) che ha valore di atto normativo secondario. L'illegittimita' sarebbe ancor piu' evidente per la particolare caratteristica del d.P.R. in parola in quanto esso ha natura approvativa di accordi nazionali intervenuti fra la rappresentanza pubblica e i sindacati di categoria come e' disciplinato dall'art. 8 della legge 29 marzo 1983, n. 93. Tale legge (art. 1) e' un principio fondamentale ai sensi dell'art. 117 della Costituzione e stabilisce (all'art. 3) che il regime retributivo del personale e' disciplinato in base ai procedimenti ivi previsti. Un'interpretazione autentica proveniente da un atto di Governo (seppur successivamente convertito in legge) verrebbe a modificare unilateralmente l'accordo. Pertanto, l'intervento legislativo verrebbe a vulnerare, in modo costituzionalmente illegittimo, l'intero quadro di riferimento dell'organizzazione dei rapporti economici fra pubblici dipendenti e pubblica amministrazione; b) ove invece si dovesse ritenere che l'art. 17 del d.-l. in- troduce una modificazione o integrazione dell'art. 41 del d.P.R. n. 347/1983, esso violerebbe il principio generale di affidamento del nostro ordinamento. Infatti una volta stabilita una intesa mediante gli accordi, le eventuali controversie applicative sarebbero demandate all'interpretazione dei giudici competenti. Tale quadro istituzionale non potrebbe venire modificato con atto normativo che vanificherebbe, nella sostanza, il contenzioso esistente; 3) illegittimita' costituzionale dell'art. 17 del d.-l. n. 65/1989 per violazione degli articoli 24 e 113 della Costituzione. La norma in esame, modificando l'art. 41 del d.P.R. n. 347/1983, verrebbe a privare il dipendente e in questo caso anche l'attuale ricorrente dei normali strumenti giurisdizionali previsti dall'attuale ordinamento. Nella sostanza, quindi, con l'atto legislativo verrebbe modificato il quadro di riferimento vanificando l'attuale contenzioso atto. In tal modo si introdurrebbe una norma che viene a privare della tutela giurisdizionale violando gli artt. 24 e 113 della Costituzione. L'amministrazione regionale si e' costituita in giudizio sostenendo che, in base ai principi generali dell'ordinamento, l'organo di controllo continuerebbe comunque a funzionare in regime di prorogatio finche' non sia insediato il nuovo organo. Ha pure controdedotto alle eccezioni di incostituzionalita' prospettate nel ricorso. Con una successiva memoria la provincia ha richiamato una pronuncia del t.a.r. Sicilia che ha qualificato l'art. 17 del d.-l. n. 65/1989 come una norma interpretativa con efficacia retroattiva dell'art. 41 del d.P.R. n. 347/1983 eppertanto, ove il tribunale ritenesse fondato tale precedente giurisprudenziale, ha eccepito l'illegittimita' costituzionale della norma sotto i seguenti profili: 4) violazione dei principi generali della legge 29 marzo 1983, n. 93 ed in particolare degli artt. 1, 2, 3 e 4. Violazione dell'art. 67 della Costituzione. Violazione degli artt. 5 e 128 della Costituzione e dell'art. 8 della legge n. 93/1983. Violazione dell'art. 3 della Costituzione. La legge quadro sul pubblico impiego, le cui disposizioni costituiscono principi fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica ai sensi dell'art. 1 della legge stessa, ha stabilito, agli artt. 2 e 3, le materie che sono regolate con legge e quelle in base ad accordi. Le questioni retributive dei pubblici dipendenti sono, ai sensi del punto 1 dell'art. 3, demandate ad accordi che vengono stipulati tra una delegazione pubblica e una delegazione sindacale. Tali accordi, secondo quanto prevedono gli articoli 6 e seguenti sono recepiti, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, in un decreto del Presidente della Repubblica. Pertanto, secondo l'amministrazione ricorrente, la sede per la definizione del trattamento economico dei pubblici dipendenti dovrebbe trovare, per un principio ormai recepito nel nostro ordinamento e confermato dalla pronuncia della Corte costituzionale 22 dicembre 1988, n. 1127, la sua naturale fonte nel d.P.R. sottraendo la sua disponibilita' a successivi interventi di carattere legislativo. In base al sistema generale creato con la legge quadro sarebbe dunque necessario un esplicito atto legislativo che, abrogando la disposizione generale contenuta in tale legge, riporti la materia nel campo di disciplina della legge. L'amministrazione provinciale evidenzia che, ai sensi dell'art. 8 della legge n. 93/1983, l'accordo e' stato posto in essere, a salvaguardia del principio di autonomia riconosciuto agli Enti locali dagli artt. 5 e 128 della Costituzione, con l'intervento dei rappresentanti dei comuni e delle province. Alla luce di tali principi l'intervento del legislatore, con una norma frammentaria e di carattere "interpretativo" verrebbe a vulnerare non solo l'autonomia degli enti locali, ma sopratutto il quadro generale che la legge n. 93/1983 ha voluto dare, con una omogenea regolamentazione, della disciplina in applicazione dei principi discendenti dall'art. 97 della Costituzione. Rilevando, inoltre, il lungo tempo trascorso tra l'emazione del d.P.R. n. 347/1983 e quella della norma che pretende di dettarne la corretta interpretazione, l'amministrazione provinciale sostiene che, in tal modo, ove si dovesse ritenere legittimo un intervento settoriale o circoscritto, come nel caso di specie, bisognerebbe concludere che i principi generali della legge n. 93/1983 sarebbero continuamente rimessi in discussione e sostanzialmente vanificati mancando qualsiasi certezza nella materia. Il consentire la "disapplicazione" della legge quadro con interventi settoriali senza una razionale giustificazione violerebbe anche l'art. 3 della Costituzione, in relazione alle situazioni che medito tempore si sono consolidate tenuto anche conto del fatto che il Consiglio di Stato, sezione quarta, 21 dicembre 1989, n. 924, aveva dato un'interpretazione della norma in senso esattamente opposto a quello di cui all'art. 17 del d.-l. n. 65/1989 pe cui un certo numero di dipendenti avrebbe goduto di un trattamento economico piu' favorevole; 5) violazione dei principi generale sull'interpretazione ed in modo particolare sull'interpretazione autentica. La natura particolare del d.P.R. in questione (recepimento di un accordo sindacale) non consentirebbe, secondo la provincia, che possa essere oggetto di un'interpretazione autentica in quanto essa sarebbe consentita solo allo stesso organo da cui proviene la norma interpretata, ovvero all'organo equiparato. Percio', data la particolare complessita' del procedimento per l'emanazione del d.P.R. n. 347/1983, non sarebbe consentito un intervento unilaterale su un atto per la cui emanazione hanno concorso piu' parti. Quanto sopra farebbe ritenere errato attribuire all'art. 17 del d.-l. n. 65/1989 natura di norma d'interpretazione autentica anche perche' mancherebbe nella disposizione qualsiasi riferimento specifico di un tale intento del legislatore. In tal modo la norma in esame avrebbe semplicemente una natura modificativa o sostitutiva dell'art. 41 del d.P.R. n. 347/1983 eppertanto, stante la sua stessa dizione, con una validita' successiva alla sua entrata in vigore senza alcun effetto retroattivo. Ove si dovesse ritenere una sua efficacia retroattiva l'art. 17 del d.-l. n. 65/1989 sarebbe costituzionalmente illegittimo per: 6) violazione del principio di affidamento e violazione degli artt. 3, 24 e 113 della Costituzione. Una norma che sostituisce una disposizione nata da un accordo sindacale modificherebbe in modo arbitrario un quadro generale dei rapporti fra l'amministrazione e i pubblici dipendenti, per cui risulterebbe violato l'art. 3 della Costituzione venendo a vulnerare la regolamentazione dei rapporti fra i dipendenti degli enti locali e le relative amministrazioni creando una situazione di palese disparita' di trattamento fra quanti, anteriormente al d.-l. n. 65/1989, hanno goduto di un riequilibrio dell'anzianita' di maggior favore e coloro i quali per l'esistenza del vario contenzioso in atto non ne hanno potuto godere. Tale situazione violerebbe anche gli artt. 24 e 113 della Costituzione. Infatti, mediante l'arbitrario intervento del legislatore l'amministrazione ricorrente verrebbe privata dei normali strumenti di tutela giurisdizionale contro qualsiasi atto di normazione secondaria. Una volta recepito l'accordo con il d.P.R. n. 347/1983 eventuali questioni interpretative avrebbero dovuto trovare la loro naturale sede davanti al giudice amministrativo. All'udienza pubblica del 13 febbraio 1991 i patrocinatori delle parti hanno insistito nelle rispettive pretese ed il ricorso e' stato spedito in decisione. D I R I T T O L'amministrazione provinciale di Cagliari ha impugnato l'atto del Co.Re.Co. che annullava la deliberazione giuntale relativa al riequilibrio dell'anzianita' pregressa dei propri dipendenti di cui all'art. 41 del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347. L'organo di controllo ha ritenuto illegittimo l'operato della Giunta per violazione dell'art. 17 del d.-l. 2 marzo 1989, n. 65, il quale prevede espressamente che il calcolo del riequilibrio di anzianita' di cui all'art. 41 del d.P.R. n. 347/1983 deve operarsi dividendo il valore della classe o scatto per il coefficiente 24. In relazione al citato art. 17 l'amministrazione ricorrente ha sollevato diverse questioni di legittimita' costituzionale. Occorre puntualizzare che l'art. 41 del d.P.R. n. 347/1983, pur non prevedendo esplicitamente la suddivisione in ventiquattresimi, correttamente applicato, conduce al medesimo risultato, talche' l'art. 17 va considerato interpretativo della disciplina derivante dall'accordo approvato col d.P.R. n. 347/1983. Ed infatti, l'art. 41 in questione ha lo scopo di determinare il valore economico da attribuire al servizio prestato da ogni dipendente sino al 31 dicembre 1982. In particolare, il terzo comma determina i valori economici di riferimento per le singole qualifiche funzionali da utilizzare per l'operazione di riequilibrio dell'anzianita'. Il quarto comma indica i criteri da eseguire per individuare tale importo che, decurtato del 7% secondo quanto dispone il quinto comma, definisce compiutamente e definitivamente il salario individuale di anzianita'. Il sesto comma garantisce comunque il diritto all'importo maturato per anzianita' in godimento al 31 dicembre 1982, qualora esso risultasse superiore al salario individuale di anzianita' determinato ai sensi del precedente quarto comma. Analizzando il quarto comma dell'art. 41, esso, alla lett. a), indica i criteri di valutazione del servizio prestato nella qualifica in cui il dipendente e' stato inquadrato al 1º gennaio 1983, e nella lett. b), richiama, ai fini della valutazione del servizio prestato nelle qualifiche inferiori, il sistema previsto nel precedente punto a). Tale disposizione prevede, dunque, il seguente criterio: "valutazione in mesi, in termini di classi o scatti, degli anni di effettivo servizio, maturati fino al 31 dicembre 1982 nella qualifica nella quale il dipendente viene inquadrato al 1º gennaio 1983". Opportunamente e' prevista la determinazione del servizio prestato da ciascun dipendente mediante la trasposizione da anni 3 mesi in modo da conteggiare agevolmente anche il periodo inferiore all'anno. La valutazione del servizio va fatta "in termini di scatti o classi" percio' occorre verificare il numero di classi o scatti che rientrano nel periodo di servizio considerato. La norma si riferisce alla progressione economica di cui al d.P.R. 7 novembre 1980, n. 810, che prevede uno sviluppo in otto classi stipendiali dell'8% conseguibili ciascuna ogni due anni di servizio e, oltre il sedicesimo anno, in scatti del 2,5% anch'essi a cadenza biennale. Pertanto, per determinare quanti scatti o classi (o frazioni di essi) vanno computati sui valori economici di riferimento relativi alle singole qualifiche funzionali, cosi' come indicate nel terzo comma dell'art. 41, una volta scomposto il periodo di servizio in mesi, si dovra' calcolare quanti scatti o classi si sono maturati in tale periodo e, poiche' cio' si verifica ogni due anni, sara' sufficiente dividere il numero dei mesi di servizio complessivo per ventiquattro che rappresenta il numero di mesi contenuto nel periodo di due anni. Per completezza e' opportuno precisare che non puo' condividersi l'unica pronuncia del Consiglio di Stato secondo cui la suddivisione va fatta per dodici anziche' per ventiquattro (sezione quarta, 21 dicembre 1989, n. 924). Infatti (a parte la singolarita' che tale sentenza non da' conto del d.-l. 2 marzo 1989, n. 65), l'unica argomentazione consiste nella considerazione che il criterio della suddivisione in ventiquattresimi non trova conforto nella lettera della norma di legge. Gia' si e' visto che questo criterio non e' altro che la trasposizione in termini matematici della regola dettata dalla disposizione dell'art. 41 percio' la mancata previsione esplicita del numero divisore e' del tutto irrilevante, una volta che si sia individuato il corretto meccanismo di applicazione della norma, cosi' come appunto ha fatto il collegio. Le argomentazioni sin qui esposte sono rafforzate anche dalla posizione assunta dalla Corte costituzionale che, pronunciandosi sull'interpretazione di una legge della regione Puglia ha affermato che il d.-l. n. 65/1989 ha esplicitato ed applicato ragionevolmente quanto previsto al riguardo dall'art. 37 dalla legge regionale 9 maggio 1984, n. 26, avente contenuto pressoche' identico a quello dell'art. 41 del d.P.R. n. 347/1983 (v. Corte costituzionale 3-15 maggio 1990, n. 240). In definitiva risulta confermato il carattere meramente interpretativo dell'art. 17 del d.-l. n. 65/1989 il cui contenuto e' sostanzialmente identico all'art. 41 del d.P.R. n. 347/1983, che peraltro richiama espressamente. Da tale considerazioni puo' allora ritenersi che la violazione dell'art. 17 del d.-l. n. 65/1989 individuata dal Co.Re.Co. deve essere valutata anche con riferimento all'art. 41 da esso citato. Con la conseguenza ulteriore che la deliberazione giuntale e' stata annullata per violazione dell'art. 17 del d.-l. n. 65/1989 ed anche dell'art. 41 del d.P.R. n. 347/1983. Tutto cio' conduce all'assoluta irrilevanza delle questioni di illegittimita' costituzionale prospettate riguardo al decreto legge. Infatti, quand'anche l'autorita' preposta giungesse a ritenerle fondate, rimarrebbe comunque il testo dell'accordo la cui violazione e' stata, sia pure indirettamente, richiamata dall'organo di controllo. Violazione che, come si e' visto nell'individuare la corretta interpretazione dell'art. 41, risulta accertata, conformemente al disposto dell'art. 17 del decreto legge (v. comunque t.a.r. Palermo, sezione seconda, 18 aprile 1990, n. 199, che ha ritenuto il d.-l. n. 65/1989 non contrastante con alcun principio costituzionale). Occorre allora esaminare la censura con cui l'amministrazione ricorrente sostiene che il Comitato di controllo, alla data di adozione del provvedimento impugnato, sarebbe gia' decaduto ai sensi dell'art. 9, primo comma, della legge regionale 23 ottobre 1978, n. 62 (modificato dall'art. 1 della legge regionale 26 gennaio 1989, n. 6) essendo decorsi oltre sessanta giorni dall'insediamento del nuovo consiglio regionale, avvenuto l'8 agosto 1989. Al riguardo il collegio ritiene di dover confermare quanto deciso in altra sentenza sulla medesima questione (v. t.a.r. Sardegna 9 gennaio 1991, n. 1) e che di seguito si riporta. La lettura della predetta disposizione suggerita dall'amministrazione ricorrente appare conforme alla sua formulazione letterale. Ed invero la norma medesima chiaramente distingue il momento della scadenza degli organi di controllo, collegato all'insediamento del consiglio regionale, da quello della decadenza, che interviene sessanta giorni dopo. In tale contesto, la determinazione del momento della scadenza degli organi predetti non ha altro significato che quello dell'indicazione del momento nel quale il consiglio regionale puo', o meglio deve, procedere alla sua ricostituzione, fermo restando che i comitati continuano ad esercitare le proprie attribuzioni. In tal modo peraltro la fase del passaggio dei poteri dai comitati scaduti a quelli ricostituiti risulta adeguatamente disciplinata con la previsione della sola scadenza. Deve quindi essere individuato il significato della previsione di una successiva fase, comportante la decadenza degli organi di controllo. Ritiene il collegio che tale disciplina non possa avere altro significato oltre quello della determinazione della durata massima del procedimento di ricostituzione dei comitati; decorso il quale quelli gia' in carica non possono comunque continuare ad operare. Diversamente opinando invece la predetta comminatoria di decadenza non avrebbe alcun significato. Ma se cio' e' vero, in forza di tale disciplina puo' accadere che la funzione di controllo non venga esercitata per periodi di lunghezza imprevedibile. E' ben dubbia la conformita' di tale normativa al dettato dell'art. 46 dello statuto speciale della Sardegna, che in armonia con la analoga prescrizione contenuta nell'art. 130 della Carta costituzionale, configura l'anzidetta funzione come necessaria ed indefettibile con conseguente automatica applicabilita' agli organi che la esercitano del principio della prorogatio. Il legislatore regionale limitando l'operativita' della prorogatio per gli organi di controllo ad un periodo massimo di sessanta giorni esplicitamente prevede un'ipotesi nella quale l'intera attivita' degli enti locali, qualunque ne sia il contenuto, potrebbe restare per periodi di tempo indeterminati sottratta al controllo di legittimita' previsto dalla citata norma statutaria. Potrebbe invero osservarsi che l'art. 46 citato demanda alla legge regionale la disciplina di modi e limiti di esercizio della funzione in parola da cio' facendo conseguire che rientra appunto nella sfera di discrezionalita' spettante al legislatore porre a raffronto l'esigenza di assicurare il controllo sugli atti degli enti locali con quella di evitare che detta funzione venga esercitata dalle stesse persone per un periodo eccessivamente lungo senza riscontro per il loro operato. Ma a tale osservazione potrebbe rispondersi che se l'esercizio della funzione e' necessario, la suddetta sfera trova di conseguenza il proprio limite laddove si renda eventuale la sottoposizione a controllo degli atti in ipotesi nelle quale la stessa legge regionale ne ha riconfermato la necessita'. In base alle suesposte considerazioni la questione di costituzionalita' dell'art. 9, primo comma della legge regionale 23 ottobre 1978, n. 62, modificato dall'art. 1 della legge regionale 26 gennaio 1989, n. 6, deve essere dichiarata non manifestamente infondata. Atteso che la definizione del presente giudizio non puo' prescindere dall'applicazione della predetta norma, si appalesa necessaria la sua sospensione con la rimessione degli atti alla Corte costituzionale.