IL PRETORE
    Ha pronunciato la seguente  ordinanza  nella  causa  n.  6774/1990
 promossa  da  Matteo  De  Zordo  col proc. dom. avv. Solari contro la
 Cenacolo professionale S.r.l. col proc. dom. avv. Ceriani.
    Ritiene  il  giudicante  di  sollevare  di  ufficio  eccezione  di
 incostituzionalita'  dell'art.  5 della legge 11 maggio 1990, n. 108,
 nella parte in cui prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione
 come condizione di procedibilita' per violazione degli artt. 3  e  24
 della Costituzione.
    Recita  la  norma: "La domanda in giudizio di cui all'art. 2 della
 presente legge non puo' essere proposta se  non  e'  preceduta  dalla
 richiesta di conciliazione avanzata secondo le procedure previste dai
 contratti  e  accordi  collettivi di lavoro, ovvero dagli artt. 410 e
 411 del c.p.c.".
    La causa e' stata proposta  ai  sensi  e  per  gli  effetti  della
 normativa  introdotta dalla recente legge n. 108/1990. La controparte
 ha eccepito in limine che il processo doveva ritenersi  improcedibile
 perche'  non  era  stato  preventivamente  esperito  il  tentativo di
 conciliazione imposto dalla legge all'art. 5 citato.
    E' pacifico che tale procedura non e' stata esperita.
    A questo punto il pretore ha tentato la conciliazione che pero' ha
 dato esito negativo e percio' dovrebbe sospendere  il  giudizio  alla
 stregua della norma citata.
    La   questione   e'   quindi   rilevante   perche'  condiziona  il
 comportamento del giudice nel prosieguo del giudizio.
    Ma  ad  avviso  del  giudicante  la   questione   e'   anche   non
 manifestamente infondata per i rilievi che seguono.
    Il  rito  del  lavoro  (legge 11 agosto 1973, n. 533) gia' prevede
 all'art. 420 il tentativo obbligatorio di conciliazione ad opera  del
 giudice  del  lavoro,  quindi  il  tentativo di conciliazione davanti
 all'ufficio provinciale del lavoro e della  massima  occupazione  (ma
 non  solo),  gia'  facoltativo  ai  sensi  dell'art. 410 del c.p.c. e
 divenuto obbligatorio ai sensi art. 5 della legge n. 108/1990, appare
 un inutile doppione.
    Ma quel che piu' conta costituisce una espropriazione  del  potere
 del  giudice ordinario, che anche se provvisoriamente viene spogliato
 del processo, che poi allo stesso  sempre  e  comunque  ritorna  dopo
 l'esito infruttuoso del tentativo.
    A  parere  del  giudicante  tale  meccanismo invece di snellire il
 contenzioso lo ritarda ed in questo senso lo aggrava.
    Quindi la violazione del  diritto  di  difesa  ex  art.  24  della
 Costituzione   (sotto  il  profilo  del  ritardo)  non  puo'  trovare
 giustificazione in una pretesa esigenza di  ridurre  il  contenzioso,
 perche'  detto  compito  e'  gia'  assolto validamente dal giudice in
 apertura di processo.
    E' consapevole  il  giudice  che  non  opera  in  questo  caso  la
 giurisprudenza  (Cass. 4 luglio 1969, n. 2472) per cui le clausole di
 contratto collettivo che prevedono condizioni di procedibilita'  sono
 invalide,  perche'  la  determinazione dei requisiti necessari per la
 valida instaurazione  e  per  il  libero  svolgimento  del  processo,
 rispondendo  ad esigenze di ordine pubblico, non lascia alcun margine
 dispositivo all'autonomia negoziale dei privati.
    Infatti nella specie la condizione di procedibilita'  e'  prevista
 dalla legge e non da un contratto.
    Ma  ad  avviso  del  giudicante  la legge ordinaria in questo caso
 viola il diritto di difesa che e' norma sovraordinata.
    Si rinviene solo un  altro  caso  in  cui  la  legge  prevede  una
 condizione  di  procedibilita'  ed  e'  dato dall'art. 443 del c.p.c.
 nella  parte  in  cui   subordina   la   procedibilita'   dell'azione
 giudiziaria al preventivo esaurimento della procedura amministrativa.
    Ma  qui  la  norma  ha  una  giustificazione  in  quanto  la  fase
 amministrativa  con  i  suoi  controlli   superiori   (vedi   ricorsi
 amministrativi)  puo'  consentire  di  pervenire  ad una composizione
 della controversia. Nel caso di  specie  invece  l'interlocutore  del
 ricorrente e' sempre lo stesso, il datore di lavoro nella persona dei
 suoi   organi   responsabili,   e  quindi  la  fase  per  cosi'  dire
 amministrativa non puo' offrire alcuna eventualita' in piu'  rispetto
 a quelle che possono emergere in fase conciliativa davanti al pretore
 del lavoro.
    Diversi  sono  i  casi  della  procedura  conciliativa,  pur  essa
 obbligatoria, prevista dall'accordo interconfederale  5  maggio  1965
 sui  licenziamenti  per  riduzione di personale, e della procedura di
 consultazione sindacale, prevista dall'art. 5 della legge  20  maggio
 1975,  n.  164,  sull'integrazione  guadagni, perche' in tali casi la
 procedura si  colloca  in  una  fase  anteriore  al  licenziamento  e
 rispettivamente alla messa in cassa integrazione.
    In   questi   casi   infatti   non  si  tratta  di  condizione  di
 procedibilita' ma di requisiti  di  merito,  che  non  comportano  la
 improcedibilita' dell'azione bensi' la infondatezza della domanda.
    A   questo   proposito   la  giurisprudenza  ha  enunciato  questo
 principio:  "poiche'  in   ipotesi   di   intervento   della   c.i.g.
 straordinaria,  la  consultazione  preventiva  delle  r.s.a. e' posta
 chiaramente come obbligatoria dalla legge, la sua  non  effettuazione
 configura  un  vizio di legittimita' dei provvedimenti di sospensione
 adottati dall'azienda".
    Queste norme sono valide  perche'  non  incidono  sul  diritto  di
 difesa,  mentre  ad  avviso  del giudicante una norma, come quella in
 esame, che limita il diritto di difesa senza alcuna  giustificazione,
 appare lesiva della Costituzione.
    Sotto  altro  profilo  la norma in oggetto appare anche lesiva del
 principio di uguaglianza, atteso che non e'  dato  rinvenire  neanche
 sotto  questo  aspetto  alcuna  giustificazione  della  disparita' di
 trattamento tra un ricorrente in causa di lavoro (penalizzato) ed  un
 attore in causa ordinaria (avvantaggiato).