IL MAGISTRATO ISTRUTTORE Visto il decreto del provveditore agli studi di La Spezia n. 358 in data 28 marzo 1985, con il quale il preside Giromini Folco e' stato inquadrato - previo annullamento di un precedente decreto - nei livelli retributivi, di cui al d.P.R. 2 giugno 1981, n. 271, sulla base di una valutazione dell'anzianita' di servizio che il magistrato istruttore remittente ritiene non conforme a legge; Vista la richiesta di chiarimenti formulata dal magistrato istruttore con foglio di rilievo n. 280 del 31 luglio 1985 e la risposta dell'amministrazione in data 4 settembre 1985; Viste le osservazioni formulate dal magistrato istruttore remittente (addetto al controllo degli atti degli organi decentrati del Ministero della pubblica istruzione, giusta ordini di servizio in data 8 gennaio 1990 e in data 7 settembre 1990 del consigliere dirigente la delegazione regionale) con rilievo "di replica" n. 132 del 25 luglio 1990 e le controdeduzioni dell'amministrazione in data 7 marzo 1991; Considerate le funzioni spettanti al remittente magistrato, ai sensi dell'art. 22, primo comma, del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, e degli artt. 7, primo comma, e 11, primo e secondo comma, della legge 20 dicembre 1961, n. 1345, nel procedimento di controllo preventivo di legittimita' dell'atto de quo; O S S E R V A 1.1. - E' necessario premettere che il remittente magistrato nel procedimento di controllo dell'atto in premessa svolge - e non viene in rilievo in questa sede la eventuale illegittimita' (per violazione dell'art. 22, primo comma, del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, e degli artt. 7, primo comma, e 11, primo comma, della legge 20 dicembre 1961, n. 1345) dell'assegnazione o della permanenza presso uffici di controllo centrali o periferici della Corte dei conti di magistrati rivestenti, come il remittente, la qualifica di consigliere senza la contestuale attribuzione delle funzioni di "consigliere delegato" (cfr., per analoga divaricazione tra qualifica e funzione, la sentenza della Corte costituzionale n. 86/1982) - quale "magistrato piu' anziano" le funzioni di "preposto all'ufficio", ai sensi dell'art. 22, primo comma, r.d. n. 1214/1934 e degli artt. 7, primo comma, e 11, primo comma, della legge n. 1345/1961 sopra citata, per effetto della determinazione assunta in data 17 settembre 1990 dal Consiglio di presidenza della Corte dei conti, applicativa della delibera dello stesso Consiglio n. 237 del 4 luglio 1989, punto 1, ovvero quelle, nella specie, di fatto identiche - come meglio precisato infra - di "magistrato istruttore", figura individuata ad opera della medesima delibera n. 237/1989 del Consiglio di Presidenza, interpretativa delle norme di legge ora richiamate. 1.2. - Le attribuzioni del remittente magistrato consistono, come stabilito dalle sopra menzionate disposizioni, nel "coadiuvare" il consigliere delegato al controllo. In particolare, nella presente fase del procedimento di controllo, competerebbe allo scrivente la formulazione di una motivata proposta informale riguardo alla soluzione da dare alla questione, proposta che dovrebbe essere sottoposta al consigliere delegato per la determinazione di sua competenza (ammissione al visto dell'atto, prosecuzione del contraddittorio con l'amministrazione mediante adozione di un ulteriore "rilievo di replica" ovvero trasmissione degli atti al Presidente della Corte per il deferimento alla sezione del controllo della pronuncia sul visto e la registrazione del provvedimento). 1.3. - Ritiene il remittente che l'art. 22, primo comma, del r.d. n. 1214/1934 nonche' gli artt. 7, primo comma, e 11, primo e secondo comma, della legge n. 1345/1961, nella parte in cui, disciplinando le funzioni dei magistrati addetti agli uffici di controllo della Corte dei conti, attribuiscono agli stessi un mero compito di ausilio nei confronti del consigliere delegato, contrastino con diverse disposizioni della Carta costituzionale - come infra specificato - non solo secondo l'interpretazione (rectius: le modalita' applica- tive) che tali norme di legge attualmente ricevono, ma anche in base a qualsiasi altro significato alle stesse attribuibile nel rispetto dei canoni che presiedono all'interpretazione delle norme giuridiche. 2.1. - Per meglio descrivere l'attuale sistema normativo (fonti primarie e secondarie) occorre prendere le mosse dalla considerazione dell'ordinamento previgente al t.u. n. 1214/1934. La legge 14 agosto 1862, n. 800, istitutiva della Corte dei conti, conteneva negli artt. 13 e segg. una disciplina del procedimento di controllo sugli atti estremamente sintetica e, conseguentemente, prevedeva - all'art. 50 - l'adozione, da parte delle sezioni riunite della stessa Corte, di un regolamento per l'esercizio delle sue attribuzioni non contenziose "fino all'emanazione di una legge sulla materia". Si dovette attendere fino al 1913 perche' le ss.rr. adempissero alla delega ricevuta: con la deliberazione del 2 luglio 1913 (artt. 26 e segg.) venne stabilita nei dettagli la procedura per il controllo di legittimita' sugli atti (procedura, peraltro, in linea di massima non dissimile dall'attuale). Tali disposizioni restarono in vigore sicuramente fino all'emanazione del testo unico, di cui al citato r.d. n. 1214/1934, che, dopo aver dettato con gli artt. 18 e segg. una nuova disciplina del controllo (non meno sintetica di quella della legge n. 800/1862), ha previsto all'art. 97, lett. b), l'adozione di un decreto reale a relazione del Capo del Governo, su proposta della Corte dei conti, per stabilire le norme per l'esercizio delle attribuzioni non contenziose dell'istituto. Cosi' come non e' mai stata emanata la legge prevista dall'art. 50 della legge n. 800/1862, anche il regio decreto (o, successivamente, il decreto del Presidente della Repubblica), di cui al citato art. 97 del t.u. n. 1214/1934, non ha visto la luce. In questa situazione si dovrebbe forse propendere per una sorta di ultrattivita' - a livello di norme secondarie - della deliberazione delle ss.rr. del 1913, modificata ed integrata con la deliberazione delle ss.rr. del 25 giugno 1915, senonche' risulta arduo conciliare tali disposizioni con le nuove norme del t.u. n. 1214/34 e della legge n. 1345/1961. 2.2. - Per ovviare al vuoto normativo cosi' delineatosi, vari presidenti della Corte dei conti si sono adoperati a disciplinare con propri atti (ordinanze) quanto il legislatore o il governo omettevano di regolare. Ultima in ordine di tempo e' l'ordinanza 10 maggio 1976, n. 76, che, pur essendo intitolata "Regolamento interno degli uffici della Corte dei conti", disciplina - accanto ad altre materie, parimenti riservate al regio decreto o decreto del Presidente della Repubblica, quali gli organi e la procedura per l'esercizio del controllo successivo (artt. da 37 a 45), la composizione e il funzionamento delle sezioni riunite (artt. da 51 a 55) - anche il procedimento del controllo preventivo di legittimita' degli atti e le funzioni dei magistrati che vi partecipano (artt. 18 e segg.). Il Presidente della Corte, nell'emanazione di queste ultime disposizioni, non poteva certo, come viene invece enunciato nelle premesse dell'ordinanza, fondare il proprio potere sulla delega di cui all'art. 98 del t.u. n. 1214/1934, chiaramente limitata alla regolamentazione della disciplina e del servizio interno degli uffici. La menzionata ordinanza n. 76/1976, tuttavia, pur dovendosi considerare nulla per essere stata adottata da autorita' incompetente (in assoluto) a disciplinare la materia de qua, costituisce attualmente l'unico riferimento normativo per l'attivita' di controllo e come tale viene, in via di massima, seguita da tutti i magistrati della Corte che operano nel settore. Solo recentemente il consiglio di presidenza della Corte dei conti, facendosi carico dell'esigenza di "interpretare le norme vigenti in coerenza con i principi costituzionali previsti dall'art. 107, terzo comma, della Costituzione", ha ritenuto, "in via del tutto temporanea e in attesa della gia' richiesta riforma legislativa relativa all'esercizio delle funzioni negli uffici di controllo da attuare anche a stralcio in via di estrema urgenza", di modificare in parte - con la gia' citata delibera n. 237 del 4 luglio 1989 - la disciplina contenuta nella predetta ordinanza presidenziale n. 76/1976. Il consiglio di presidenza ha, pertanto, disposto l'unificazione delle funzioni istruttorie - gia' svolte, secondo il dettato legislativo, rispettivamente dal referendario in ausilio del primo referendario preposto all'ufficio e, quindi, da quest'ultimo in ausilio del consigliere delegato - in capo al "magistrato istruttore", stabilendo che questi "riferisce direttamente sull'attivita' istruttoria al consigliere delegato". Deve osservarsi, tuttavia, che anche la predetta delibera del consiglio di presidenza, pur emanata con lodevolissimi propositi, non solo confligge gravemente nella parte precettiva con la lettera dell'art. 11, secondo comma, della citata legge n. 1345/1961, ma appare, per di piu', come gia' le precedenti disposizioni regolamentari, adottata da organo privo in via assoluta di competenza in materia: non si rinviene, infatti, nella legge 13 aprile 1988, n. 117, istitutiva dell'organo "di autogoverno" della magistratura della Corte dei conti, alcuna disposizione che attribuisca allo stesso tale potere normativo, cosi' che deve ritenersi tuttora vigente il piu' volte ricordato art. 97 del t.u. n. 1214/1934, che riserva la materia alla disciplina promanante da altra fonte (decreto del Capo dello Stato). Tali considerazioni sono state, da ultimo, recepite dallo stesso consiglio di presidenza, il quale, con delibera del 12 marzo 1991, pur senza pronunciarsi in merito alla validita' delle determinazioni in precedenza adottate, ha denegato la propria competenza "ad assumere determinazioni a valore decisionale e provvedimentale sulle modalita' di esercizio e sui contenuti delle funzioni monocratiche e collegiali dei magistrati della Corte dei conti". 2.3. - In sintesi, dunque, il procedimento del controllo degli atti innanzi alla Corte dei conti e le funzioni dei magistrati addetti sono attualmente disciplinati, in via primaria, dalle scarne disposizioni del t.u. n. 1214/1934 e della legge n. 1345/1961 - norme che richiederebbero un regolamento di attuazione mai emanato - e, secondariamente, dalle menzionate disposizioni interne, nulle - in quanto adottate da organi (presidente e consiglio di presidenza della Corte dei conti) privi di potere normativo in materia -, ma che hanno, comunque, di fatto interamente superato le prescrizioni di cui alla sopra citata deliberazione delle ss.rr. del 1913. 2.4. - Questo sistema di regole interne - abbia dato o no origine a un "diritto vivente" in senso tecnico (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 86/1982, punto 5) - prevede, in sintesi, che l'esame istruttorio dell'atto venga compiuto dal "magistrato istruttore" con la collaborazione del personale amministrativo. Il magistrato istruttore conclude la prima fase della propria attivita' o con la proposta di ammissione al visto rivolta al consigliere delegato o con la predisposizione di un foglio di rilievo per contestare all'amministrazione controllata errori materiali ovvero elementi che siano ritenuti motivo di illegittimita' dell'atto. Il consigliere delegato, se concorda con la proposta di ammissione al visto o con il contenuto del foglio di rilievo, da' corso a quanto proposto dal magistrato istruttore; se, viceversa, non concorda, adotta una "determinazione succintamente motivata". Con tale determinazione, nella prima ipotesi, il magistrato istruttore, che aveva concluso per l'ammissione al visto, viene invitato a formulare un rilievo per contestare i vizi dell'atto riscontrati dal consigliere delegato; nella seconda ipotesi, contro la proposta del magistrato istruttore, l'atto viene ammesso al visto e il magistrato preposto all'ufficio deve disporne la registrazione. Nel caso, infine, sia stato formulato il rilievo e l'amministrazione, controdeducendo, abbia insistito nel richiedere l'ammissione al visto e alla registrazione dell'atto, il magistrato istruttore, esaminate le argomentazioni dell'amministrazione, formula una proposta al consigliere delegato, con la quale conclude o per l'ammissione al visto e alla registrazione o per la formulazione di un c.d. "rilievo di replica" ovvero, ancora, per il deferimento della questione alla sezione del controllo tramite il presidente della Corte. Il consigliere delegato, ove non concordi con la proposta del magistrato istruttore, puo' - come nella precedente fase - con determinazione succintamente motivata disporre diversamente. Le regole di fatto applicate attribuiscono, dunque, al magistrato istruttore (rivestente la qualifica di referendario, di primo referendario o anche di consigliere, per effetto della ricordata delibera n. 237 del consiglio di presidenza) la funzione di effettuare l'esame istruttorio dell'atto e di formulare - al termine - una proposta informale al consigliere delegato, il quale potra' decidere, comunque, in difformita' della proposta e, in tale caso, mediante determinazione - altrettanto informale e "succintamente motivata" - potra' dare anche disposizioni per l'ulteriore attivita' del magistrato istruttore sia in ordine alla questione trattata sia per il controllo di atti analoghi che pervengano in futuro all'esame dell'ufficio. 2.5. - A conclusione del presente sommario excursus si deve constatare che le regole interne, che disciplinano il procedimento di controllo, pur essendo contenute in atti normativi non ammessi dall'ordinamento quali fonti di produzione giuridica in materia, appaiono, tuttavia, costituire un corretto sviluppo delle norme di legge (art. 22, primo comma, del r.d. n. 1214/1934 e artt. 7, primo comma, e 11, primo e secondo comma, della legge n. 1345/1961) che attribuiscono ai magistrati addetti agli uffici di controllo diversi dal consigliere delegato una mera funzione di ausilio (del referendario nei confronti del primo referendario e di quest'ultimo nei confronti del consigliere delegato). Tale funzione di "coadiutore" non puo' che identificarsi, infatti, comunque si interpretino le predette norme, nel partecipare - attraverso lo svolgimento di attivita' istruttoria o la predisposizione di atti o la formulazione di proposte non vincolanti o l'adempimento di piu' d'uno di questi o similari compiti - ad una funzione altrui. 2.6. - Si ritiene, dunque, che - come si era in precedenza anticipato - le disposizioni che si sottopongono al giudizio della Corte costituzionale, anche se ricevessero attuazione mediante gli atti regolamentari previsti dall'art. 97 del t.u. n. 1214/1934 e anche se fossero diversamente interpretate in sede di normazione secondaria, confliggerebbero in ogni caso con diversi precetti della Costituzione, come di seguito si rappresenta. 3.1. - Deve considerarsi, in primo luogo, che l'art. 108, primo comma, della Costituzione riserva alla legge (statale) sia la disciplina dell'"ordinamento giudiziario" che le norme relative ad "ogni magistratura": ne discende che anche l'ordinamento della magistratura della Corte dei conti, ivi comprese le funzioni dei magistrati e l'esercizio delle stesse (concetto ribadito, da ultimo, per la magistratura ordinaria dalla sentenza della Corte costituzionale n. 72/1991) deve essere stabilito con legge. Analoga riserva, peraltro, gia' anteriormente alla Costituzione, era prevista dall'art. 1, secondo comma, della legge 31 gennaio 1926, n. 100. Se si volesse intendere tale riserva come assoluta, apparirebbe ictu oculi che le disposizioni del testo unico sulla Corte dei conti n. 1214/1934 e, segnatamente, il combinato disposto dell'art. 22, primo comma, e dell'art. 97, lett. b), contrastano con l'art. 108, primo comma, della Costituzione, in quanto viene demandata ad un regolamento - fra l'altro - la disciplina delle funzioni dei magistrati degli uffici di controllo. Sembra, tuttavia, essersi storicamente affermato il carattere relativo della riserva in parola con la conseguenza della legittimita' di fonti diverse dalla legge (e dagli atti a questa equiparati) che intervengano a regolare la materia. Ma anche in tale prospettiva le norme impugnate appaiono contrastare con l'art. 108, primo comma, della Costituzione sotto un duplice profilo. 3.2. - Per un primo aspetto si rileva che dette disposizioni non soddisfano i requisiti che le norme di legge operanti nell'ambito di una materia oggetto di riserva di legge devono possedere: non contengono, infatti, neppure l'enunciazione di un minimum di criteri, idoneo a delimitare la discrezionalita' dell'autorita' amministrativa nell'emanazione delle norme secondarie (si richiamano al riguardo, fra le altre, le sentenze della Corte costituzionale nn. 4 e 30 del 1957, n. 34/1986, nn. 127 e 333 del 1988). L'unico "principio" stabilito e', infatti, rappresentato dall'attributo "coadiuvato", espressione che non appare di certo sufficiente a definire le linee guida, cui dovrebbe attenersi il Governo nell'adozione delle norme regolamentari in materia di funzioni dei referendari e dei primi referendari - ma oggi anche dei "consiglieri" - addetti o preposti agli uffici di controllo. 3.3. - Sotto altro aspetto deve osservarsi che anche l'unica (e insufficiente) indicazione fornita dal legislatore - "coadiuvato" - gia' di per se' contrasta con l'art. 108, primo comma, della Costituzione, in quanto e' implicito nella stessa espressione "coadiuvato" che, oltre alle norme generali e astratte contenute nell'emanando regolamento, intervengano a disciplinare le funzioni dei singoli magistrati (nonche' le modalita' di esercizio delle stesse) anche direttive ed ordini del consigliere delegato. La funzione di ausilio presuppone, infatti, che il coadiuvando possa stabilire quali funzioni riservare a se stesso, quali funzioni attribuire al coadiuvante e come quest'ultimo le debba esercitare. E cio' appare contraddire il concetto medesimo di riserva di legge relativa: tale nozione presuppone si' l'intervento di norme di grado diverso da quello della legge (e degli atti normativi equiparati) nella disciplina di una materia, ma postula pur sempre la generalita' e l'astrattezza della disciplina di grado inferiore. Nel caso in esame, invece, la legge demanda, - e senza, come si e' visto, indicazione di criteri - direttamente ad organi privi di potere normativo (in senso proprio) una parte della disciplina della materia, da realizzarsi mediante l'adozione di comandi a contenuto concreto e indirizzati a singoli destinatari. 4.1. - Deve escludersi, inoltre, la compatibilita' dell'art. 22, primo comma, del t.u. n. 1214/1934 e degli artt. 7, primo comma, e 11, primo e secondo comma, della legge n. 1345/1961 con gli artt. 101, secondo comma, e 107, terzo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione: le disposizioni di legge in questione, infatti, contrastano con il principio costituzionale dell'indipendenza funzionale del giudice, in quanto instaurano un rapporto di strettissima subordinazione funzionale dei referendari e dei primi referendari, rispettivamente, nei confronti del primo referendario e del consigliere delegato (ovvero, per usare la piu' recente espressione, del "magistrato istruttore" rispetto al consigliere delegato). Tale subordinazione, per la sua particolare configurazione, si sostanzia in un vincolo ancor piu' stretto di quello che si rinviene nel rapporto gerarchico: la relazione fra superiore e inferiore gerarchico (che, peraltro, nella sua forma tradizionale trova ormai, a seguito della soppressione del sistema delle "carriere", intervenuta ad opera della legge 11 luglio 1980, n. 312, e della definizione dei "profili professionali", di cui al d.P.C.M. 29 dicembre 1984, n. 1219, espressione solo negli ordinamenti del personale militare) e' sempre stata intesa nel senso che il subordinato svolge le proprie funzioni secondo le direttive e ottemperando agli ordini del superiore, il quale e' dotato di competenza, di norma, piu' ampia del subordinato e possiede, generalmente, anche il potere di avocare a se' la trattazione di singole questioni. Nella fattispecie in esame, invece, il subordinato non ha neppure funzioni proprie, ma semplicemente aiuta il superiore nell'adempimento delle competenze di quest'ultimo e, anzi, qualora nell'ufficio di controllo vi siano - come di solito si verifica - accanto al "magistrato preposto" anche uno o piu' "magistrati addetti" (ipotesi prevista dall'art. 11, secondo comma, della legge n. 1345/1961) il "referendario" aiuta il "primo referendario" ad aiutare il consigliere delegato. Il "referendario" e il "primo referendario" sono percio' magistrati totalmente dipendenti dal superiore, il quale puo' stabilire ad libitum le loro competenze e le rispettive modalita' di esercizio. I "coadiutori", dunque, esercitando una funzione meramente servente e non essendo, conseguentemente, titolari di atti formali propri, non decidono o non concorrono a decidere alcunche' e non possono neppure deferire la decisione di una questione al collegio (sezione del controllo); gli stessi, inoltre, sono soggetti al potere di avocazione da parte del consigliere delegato delle questioni volta a volta affidate, esercitabile, peraltro, senza necessita' di motivazione in quanto si tratta, in realta' non di avocazione in senso tecnico, ma di esercizio diretto delle proprie funzioni. La situazione si presenta, poi, paradossale negli uffici di controllo in cui il "preposto all'ufficio" e i "magistrati addetti" rivestono la qualifica di consigliere: in tal caso - e l'ipotesi si verifica frequentemente - un consigliere (in luogo del referendario) dovrebbe coadiuvare un altro consigliere (in luogo del primo referendario) a coadiuvare un terzo consigliere (il consigliere delegato). Le norme denunciate contrastano, pertanto, con gli artt. 101 cpv., 107, terzo comma (espressione di un principio che non puo' ipotizzarsi limitato alla magistratura ordinaria: si veda in tal senso, la formula "i magistrati della Corte dei conti si distinguono secondo le funzioni", avente scopo presumibilmente di richiamo del principio in argomento, contenuta nell'art. 10 della legge 21 marzo 1953, n. 161, e il punto 4 della motivazione in diritto della sentenza della Corte costituzionale n. 74/1978), e 108, secondo comma, della Costituzione: si richiamano le sentenze della Corte costituzionale nn. 102/1964, 80/1970, 143/1973, 98/1976 (punto 11), 86/1982 (punto 6) e quelle da queste richiamate e, da ultimo, le sentenze nn. 72 e 263/1991. Con particolare riferimento all'art. 108, secondo comma, della Costituzione, che appare un "adattamento" del principio enunciato con il precedente art. 101 cpv., agli specifici ordinamenti delle magistrature "speciali", occorre notare che il costituente ha si' demandato alla legge la salvaguardia dell'indipendenza sia esterna che interna dei giudici (tutela che per la magistratura ordinaria e' apprestata direttamente dalla Costituzione), ma non ha consentito con cio' al legislatore ordinario di comprimere tale indipendenza: il precetto costituzionale, infatti, rivolto agli organi legislativi e' proprio di "assicurare" l'indipendenza delle magistrature speciali e dei singoli magistrati a queste appartenenti. E tale precetto non puo' dirsi certamente realizzato dalle norme in questione (due delle quali, tra l'altro, sono successive all'entrata in vigore della Costituzione). Occorre ricordare che gia' in numerose occasioni la Corte costituzionale si e' occupata, sotto profili diversi, dell'indipendenza dei magistrati della Corte dei conti senza mai incidere, tuttavia, sull'ordinamento dell'istituto e sulla disciplina delle sue attribuzioni. L'evoluzione della giurisprudenza mostra, peraltro, una crescente preoccupazione per il divario - che il tempo e l'inerzia del legislatore concorrono ad approfondire - fra le norme che governano la magistratura della Corte dei conti e i principi costituzionali (che hanno ricevuto, invece, di massima, attuazione per le altre magistrature ordinaria e amministrativa): mentre la sentenza n. 1/1967, "assolve con formula piena" il t.u. n. 1214/1934, gia' le sentenze n. 1/1978 e, piu' specificamente, n. 74/1978 contengono un invito al legislatore ad un "globale riesame della progressione delle funzioni dei magistrati della Corte dei conti", e, infine, con la sentenza n. 230/1987 viene riconosciuto esplicitamente, - sia pur con riferimento a disposizioni diverse da quelle oggetto della presente questione - che "non e' sotto alcun aspetto garantita la indipendenza di magistrati della Corte dei conti". Certamente alcuni aspetti dell'indipendenza dei magistrati della Corte dei conti sono stati di recente maggiormente tutelati con la riforma del consiglio di presidenza e l'abolizione del rapporto informativo per i referendari e primi referendari, attuate, rispettivamente dagli artt. 10 e 11 della legge 13 aprile 1988, n. 117, ma nessun adeguamento ai precetti della Costituzione e' ancora intervenuto nella materia oggetto della presente ordinanza. 5.1. - Le disposizioni in esame contrastano, infine, con il principio di "buona amministrazione", di cui all'art. 97, primo comma, della Costituzione, principio che non puo' non ritenersi esteso oltre che all'attivita' della magistratura ordinaria e amministrativa (si richiamano le sentenze della Corte costituzionale n. 177/1973, punto 10, e n. 86/1982) anche all'attivita' della magistratura contabile. 5.2. - Deve, in primo luogo, porsi in rilievo come sia irragionevole il mantenimento di una complessa procedura, concepita in altra epoca e in altro contesto per il controllo di legittimita' di pochi atti ad opera di una piccola struttura, quando le condizioni oggettive sono totalmente mutate: la struttura, articolata ora in molteplici uffici, ha assunto dimensioni incomparabilmente maggiori e il confronto del numero dei soli decreti (trascurando i titoli di spesa, i rendiconti, ecc.) pervenuti al controllo della Corte dei conti nel 1934 (n. 5.648) rispetto al numero degli stessi atti pervenuti al controllo nel corso del 1990 (n. 1.342.562) nonche' dei rilievi formulati nel 1934 (n. 209) rispetto a quelli effettuati nel 1990 (n. 64.935) mostra in tutta la sua evidenza il divario esistente fra la situazione dell'epoca, in cui la normativa concernente la Corte dei conti e' stata raccolta nel t.u. n. 1214/1934, e la realta' attuale. Le disposizioni in questione prevedono che il singolo atto sia esaminato sotto il medesimo profilo (conformita' a legge), quanto meno, da quattro soggetti diversi, ai quali puo' aggiungersi, qualora ne ricorrano i presupposti, l'organo collegiale. L'atto viene, infatti, esaminato innanzitutto dal personale amministrativo di revisione, poi dal magistrato addetto al settore, quindi (secondo la legge, ancorche' diversamente disponga la citata ordinanza n. 237 del consiglio di presidenza della Corte dei conti) dal magistrato preposto all'ufficio, poi ancora dal consigliere delegato e, da ultimo, in via eventuale, dalla sezione del controllo. Questo procedimento riguarda indifferentemente tutti gli atti soggetti al controllo: da quelli piu' complessi e rilevanti - per i quali si giustificherebbe un esame approfondito - a quelli piu' semplici (per struttura e oggetto) produttivi di limitatissimi effetti (come i decreti concessivi di congedo straordinario e di aspettativa per motivi di salute adottati nei confronti degli impiegati dello Stato). Come e' ovvio tale procedura, pur prevista dalla legge, viene totalmente disattesa - per evitare la paralisi dell'istituto - nel concreto operare degli uffici di controllo, ma quanto di essa sopravvive a livello di "apparenza formale" e' gia' sufficiente a creare irrimediabili ritardi nell'espletamento delle funzioni della Corte dei conti. A cio' si aggiunga che, anche nella prassi ordinariamente seguita, non si riesce ad evitare che i qualificati apporti del personale amministrativo e di magistratura, gia' in gran parte vanificati nell'espletamento di compiti palesemente di scarsissima utilita' per l'attuale sistema socio-economico, siano resi ancor meno produttivi di proficui effetti a causa delle descritte molteplici sovrapposizioni di funzioni sia fra impiegati amministrativi e magistrati che nell'ambito di questi ultimi. Le anacronistiche disposizioni che prevedono il concorso dell'opera di tanti soggetti nello svolgimento di compiti talora semplicissimi violano, dunque, non solo il principio della speditezza del procedimento amministrativo, ma anche quello del miglior utilizzo delle risorse (per l'impiego eccessivo di personale con compiti indifferenziati e sovrapposti) con conseguente notevole aggravio della spesa pubblica (si richiamano in particolare la sentenza n. 123/1968 e, con riferimento alla valutazione di proporzionalita' dei mezzi prescelti dal legislatore rispetto alle esigenze da soddisfare o alle finalita' da perseguire, la sentenza n. 1130/1988 e le sentenze dalla stessa richiamate), assurti entrambi a principi fondamentali dell'ordinamento giuridico per effetto del combinato disposto dell'art. 1 e dell'art. 29, primo comma, della legge 7 agosto 1990, n. 241. La descritta situazione e' ulteriormente aggravata, sotto il profilo dello spreco di pubbliche risorse, dal fatto che, in mancanza di referendari e di primi referendari, sono utilizzati - come nell'ufficio cui appartiene il magistrato remittente - per le funzioni che la legge a questi avrebbe affidato dei magistrati aventi qualifica di consigliere con la abnorme conseguenza che lo stesso atto dovrebbe essere esaminato, di regola, in successione da tre consiglieri prima ancora dell'eventuale esame dell'organo collegiale. Si deve, infine, porre in evidenza la circostanza che l'adeguamento di un ordinamento alle mutate condizioni oggettive e ai diversi bisogni della societa' non puo' essere affidato, come accade per le norme in esame, alla parziale disapplicazione che di fatto avviene dello stesso. Tale necessitata disapplicazione, peraltro, mentre consente un minimo di funzionamento dell'amministrazione, tende a celare le profonde disfunzioni che derivano dalla mancata riforma legislativa dell'istituto. Non puo', d'altro canto, richiedersi tale riforma alla Corte costituzionale: le decisioni della Corte costituzionale, come nota in diverse occasioni lo stesso giudice, non sono strumento ne' giuridicamente possibile ne' tecnicamente adeguato allo scopo. La riforma spetta, pertanto, unicamente al legislatore (cfr. ordinanza n. 95/1987). Ma cio' non significa che gli altri organi debbano cessare di operare secondo i propri compiti istituzionali: considera, pertanto, il remittente che sia doveroso da parte del "magistrato istruttore" segnalare alla Corte costituzionale le norme che ritiene incompatibili con la Costituzione, e ritiene, parimenti, funzione irrinunciabile della Corte costituzionale quella di espungere dall'ordinamento le disposizioni contrastanti con le norme costituzionali. Constatato, dunque, che l'impiego presso la Corte dei conti di una pletora di magistrati - per esaminare in successione fra loro questioni talora irrilevanti - e' irragionevole di per se' e incongruo rispetto all'impiego in altre magistrature di giudici monocratici o di collegi composti di magistrati di inferiore qualifica per la pronuncia su cause spesso di notevole o notevolissima importanza socioecononica e che contrasta, conseguentemente, con il principio della "buona amministrazione", di cui all'art. 97, primo comma, della Costituzione, il remittente si ritiene tenuto a sottoporre al giudizio della Corte costituzionale le norme che, applicate dallo stesso magistrato, determinano tale fenomeno. 5.3. - Ma il sistema oltreche' irragionevole appare anche irrazionale per il fatto che il magistrato con qualifica di consigliere, che svolga le funzioni dalla legge attribuite al referendario o al primo referendario, non puo', ricorrendone i presupposti, ne' deferire la questione esaminata al collegio (sezione del controllo), in quanto tale potere spetta unicamente al coadiuvato consigliere delegato (art. 24, primo comma, del t.u. n. 1214/1934, nel testo sostituito dall'art. 1 della citata legge n. 161/1953), ne' far parte della stessa sezione del controllo (art. 24, primo comma, del t.u. n. 1214/1934 ora citato), mentre fa parte, di diritto con tutti i poteri, del collegio "di appello" (sezioni riunite in sede di riesame dell'atto a seguito di richiesta di registrazione con riserva ex art. 25 secondo comma, del t.u. n. 1214/1934). Se si riconosce che il consigliere, in quanto tale, e' idoneo a giudicare definitivamente in sede di appello, non si vede come possa negarsi allo stesso magistrato, invece, l'idoneita' ad effettuare quella preliminare valutazione di "dubbia legittimita' dell'atto" che sta alla base del deferimento della questione alla sezione del controllo. Anche sotto questo profilo, dunque, l'evidente irrazionalita' del sistema - e delle norme denunciate in particolare - induce a ritenere esistente un contrasto di queste con l'art. 97, primo comma, della Costituzione. 6.1. - Non si nasconde, infine, il magistrato remittente che - per quanto a sua conoscenza - non sono state fino ad ora sottoposte alla Corte costituzionale questioni di legittimita' ad opera di magistrati preposti ad uffici di controllo della Corte dei conti, e ritiene, conseguentemente, opportuno illustrare in breve alcune considerazioni riguardo alla legittimazione dello stesso remittente a promuovere il giudizio di costituzionalita' delle norme denunciate (trascurando, pertanto, la astratta ed irrilevante disamina circa l'eventuale proponibilita' di diverse ed ulteriori questioni). Si precisa che l'argomento, pur certamente pregiudiziale sotto un profilo logico e giuridico rispetto agli altri gia' svolti, viene trattato per ultimo per ragioni sistematiche: l'esposizione risulta notevolmente semplificata dalla presupposizione di elementi gia' evidenziati nei punti precedenti. I consolidati principi giurisprudenziali, sviluppati dalla stessa Corte costituzionale in ordine ai requisiti di proponibilita' previsti dagli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, si possono pacificamente ricondurre alla seguente schematica enunciazione: la questione di legittimita' costituzionale - sia per iniziativa di parte che d'ufficio - deve essere sollevata: a) nel corso di un giudizio; b) ad opera di un organo giurisdizionale; c) che sia tenuto a dare applicazione alle norme denunciate; d) nell'esercizio di un potere decisiorio. 6.2. - Non dovrebbe porsi in dubbio che sussistano nella fattispecie, i requisiti sub a) e sub b). Gia' con la sentenza n. 226/1976 la Corte costituzionale ha, infatti, dimostrato l'equiparabilita' - ai fini del promovimento delle questioni di legittimita' costituzionale - della funzione di controllo della Corte dei conti ad una funzione giurisdizionale e, conseguentemente, del procedimento del controllo ad un "giudizio". Nella stessa sentenza, inoltre, al punto 3, la Corte si riferisce espressamente anche all'attivita' istruttoria, preliminare rispetto alla determinazione del consigliere delegato e, quindi, al deferimento della questione alla sezione del controllo ("intanto un contrasto di valutazioni sussiste tra l'autorita' che ebbe ad emanare l'atto ed il magistrato che assolve la funzione di controllo nella fase istruttoria; sicche' ove il consigliere delegato non ritenga di apporre il visto, provoca il deferimento della pronuncia alla sezione di controllo") quale attivita' svolta nel corso del "giudizio". Dal ragionamento sviluppato nella citata sentenza sembra, dunque, potersi inferire con sicurezza che il "magistrato istruttore" del procedimento di controllo debba essere riguardato, sotto l'aspetto della legittimazione a proporre questioni di costituzionalita', come gli altri magistrati che svolgono, nel corso di giudizi civili o penali, funzioni istruttorie: potrebbe, in particolare, assimilarsi al giudice istruttore del processo civile, organo della cui legittimazione si e' ampiamente occupata in passato la Corte costituzionale, ammettendola quando fossero soddisfatti gli ulteriori requisiti indicati sub c) e sub d) (si rammentano, fra le altre, le sentenze nn. 62/1966, 45/1969, 88/1970, 125/1980 e, in senso negativo, ma pur sempre quali espressioni del medesimo principio, nn. 109/1962, 44/1963, ord. n. 11/1964, sentenze nn. 60/1970, 333/1988, 1104/1988 e l'ordinanza n. 199/1990). Ne' potrebbe sostenersi, traendo argomento dal compito tipico del magistrato istruttore - consistente nell'instaurazione del "contraddittorio" con l'amministrazione che ha adottato l'atto oggetto del controllo -, che lo stesso magistrato abbia veste di "parte" nel procedimento, quale "attore" nell'interesse obiettivo dell'ordinamento. Malgrado l'apparente plausibilita' della cennata tesi e' sufficiente osservare in contrario che il "magistrato istruttore" non esercita una funzione propria, ma "coadiuva" il consigliere delegato, il quale ultimo - che, come si e' visto in precedenza, puo' anche condurre autonomamente e direttamente il "contraddittorio" con l'amministrazione - pronuncia, infine, la "sentenza" ("ammissione al visto") o investe della questione la sezione del controllo. Come la sezione del controllo (sentenza n. 226/1976) anche il consigliere delegato e', dunque, "giudice" - e non parte - in quanto, a conclusione del procedimento, puo' adottare una decisione (definitiva): non diversamente deve, pertanto, considerarsi, quale "soggetto processuale", anche il magistrato istruttore, che ripete i propri poteri e le proprie funzioni esclusivamente dal consigliere delegato. Si consideri, inoltre, che, anche in un ordinamento piu' adeguato ai principi costituzionali, il magistrato istruttore verrebbe - al piu' - ad assumere, quale propria autonoma funzione, una parte o la totalita' delle attribuzioni attualmente conferite al consigliere delegato, conservando, di conseguenza, anche in tale ipotesi, una posizione di assoluta terzieta' rispetto alle questioni da trattare. 6.3. - Pure la sussistenza - nella fattispecie - del requisito indicato con la lettera c) non appare res dubia: il remittente "magistrato istruttore" deve applicare nell'attuale fase del procedimento di controllo le norme di cui con la presente ordinanza prospetta l'illegittimita' costituzionale. Si verifica, pertanto, la condizione di pregiudizialita' necessaria - di cui all'art. 23, secondo e terzo comma, della citata legge n. 87/1953 - della soluzione delle questioni di costituzionalita' proposte rispetto alla prosecuzione e conclusione del procedimento del controllo da parte del remittente. Ne' potrebbe ritenersi che delle norme impugnate (cfr. le sentenze della Corte costituzionale nn. 118 e 186 del 1976 e n. 579/1989) si sia "esaurita" in precedenza l'applicazione o che alle stesse il magistrato istruttore abbia gia' fatto definitiva acquiescenza (cfr. punto 4 della sentenza della Corte costituzionale n. 242/1990): e ben vero, infatti, che tali disposizioni, disciplinando per intero le funzioni svolte dal remittente sono state da questi gia' parzialmente applicate nelle precedenti fasi del procedimento di controllo, ma occorre osservare che il procedimento e' tuttora in corso (l'"ausilio" da parte del magistrato istruttore al consigliere delegato e' stato impostato, ma non perfezionato) e che proprio nella fase conclusiva dell'istruttoria - consistente, come innanzi ricordato, nella formulazione di una proposta informale al consigliere delegato, anziche' nell'adozione, da parte del magistrato addetto al controllo, per competenza propria, di una formale determinazione in ordine alla questione trattata - si evidenzia il denunciato contrasto delle norme impugnate con i principi costituzionali di indipendenza e autonomia funzionale del magistrato (anche nei rapporti interni), espressi negli artt. 101, secondo comma, 107, terzo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione e di buona amministrazione, di cui all'art. 97, primo comma, della Costituzione. 6.4. - Resta da esaminare - per concludere la verifica della "rilevanza" della questione, considerata sotto l'aspetto consequenziale della legittimazione del remittente a proporla - se sia soddisfatta nella specie anche la condizione indicata con la lettera d): il magistrato remittente dovrebbe essere tenuto ad applicare le disposizioni, oggetto della censura, in sede di adozione di un provvedimento - di competenza sua propria - avente carattere decisorio. Appare evidente che nel caso in esame tale requisito non sussiste, in quanto il "magistrato istruttore", come si e' gia' visto, non solo non decide nulla, ma non adotta neppure un atto formale (cioe' previsto dalla legge come atto tipico del procedimento di controllo) di parere o proposta. Pur potendo sembrare, dunque, prima facie preclusa la legittimazione del "magistrato istruttore" a promuovere la presente questione di costituzionalita', il remittente ritiene, invece, che la stessa debba ammettersi per due ordini di motivi. A) Deve considerarsi, infatti, in primo luogo, che la Corte costituzionale, come risulta dalla motivazione della sentenza n. 109/1962, non ha desunto direttamente il principio giurisprudenziale di cui si discute, dall'interpretazione di una singola norma, ma lo ha, in un certo senso, "costruito" in base al seguente ragionamento: il giudice che non decide la controversia, se fosse ammesso a valutare la non manifesta infondatezza e la rilevanza della questione, verrebbe a "interferire sull'attivita' di giudizio" che compete ad altri (in altre occasioni, tuttavia, la Corte ha preferito operare un piu' stretto collegamento del gia' enunciato principio con la lettera del citato art. 23, secondo comma, della legge n. 87/1953: si confrontino le sentenze nn. 141/1971 e 1104/1988 nelle quali e' fatto riferimento alla rilevanza della questione ai fini della pronunzia "definitiva" del giudizio). Il principio in esame, pertanto, e' sorto ed e' stato costantemente applicato - e non vengono qui in considerazione quelle pronunce, solo apparentemente analoghe, con le quali si e' accertato il difetto di legittimazione del pubbblico ministero, ritenuto piu' "parte" che organo giurisdizionale fin dalla sentenza n. 40/1963 per giungere alla ordinanza n. 245/1990 riferita al nuovo codice di procedura penale, nonche' quelle decisioni (cfr., ad esempio, sentenze nn. 186/1976 e 579/1989) con cui e' stata negata la legittimazione di giudici che avevano gia' "esaurito" il potere decisorio - per le questioni di costituzionalita' aventi ad oggetto norme sostanziali ovvero procedurali o processuali la cui applicazione incideva direttamente sulla "definizione del giudizio" o di parte di esso (ovvero, per la verita', anche sulla decisione relativa a fatti "ai margini" del giudizio: cfr. sentenza n. 88/1970). La Corte costituzionale ha, cioe', ritenuto nelle ricordate decisioni che solo il giudice chiamato ad applicare le norme di sospetta incostituzionalita' per una qualsivoglia decisione, definitiva o suscettibile di divenire tale, sia ammesso a valutare la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione e, pertanto, sia legittimato a promuovere il giudizio di legittimita' costituzionale. Quid iuris, allora, per quelle disposizioni che il giudice deve egualmente applicare nel corso di un giudizio, ma che non influiscono sul merito di una decisione, presentandosi affatto neutre o indifferenti rispetto alle varie possibili statuizioni da assumere? E' forse ipotizzabile che tali norme sfuggano al sindacato della Corte costituzionale? Dall'esame della giurisprudenza della Corte pare emergere al riguardo un ulteriore principio, non enunciato espressamente, ma ricavabile per deduzione: la legittimazione a proporre la questione di legittimita' costituzionale delle disposizioni in argomento spetta al giudice che comunque le debba applicare. Si richiamano, sul tema, fra le altre, le sentenze pronunciate in materia di legittima costituzione del giudice (n. 177/1973, punto 3, ove si ammette - tra l'altro - che trattasi di questione pregiudiziale ancorche' non attinente al merito della decisione, n. 71/1975 e, in particolare, n. 19/1978, punto 3, ove e' coerentemente riconosciuta la legittimazione addirittura al giudice relatore, singolo componente di un collegio) e le non poche pronunce - riconducibili alla medesima categoria - con cui sono state dichiarate ammissibili varie questioni in base alla espressa considerazione che, diversamente, le disposizioni denunciate non avrebbero mai potuto essere assoggettate al controllo di costituzionalita' (si confrontino le sentenze n. 226/1976, punto 3, n. 8/1979, n. 17/1980, letta a contrariis, e, segnatamente, la sentenza n. 204/1974, con la quale e' stata decisa una questione proposta dal giudice di sorveglianza in sede di resa di un parere). Nella fattispecie, solo il "magistrato istruttore" da' applicazione alle disposizioni che ne disciplinano le funzioni. Ne' il consigliere delegato ne' la sezione del controllo potrebbero, infatti, proporre la questione di legittimita' costituzionale delle stesse norme, in quanto nelle fasi del procedimento, in cui operano tali organi dotati di potere decisionale, le disposizioni de quibus hanno gia' esaurito i loro effetti: quando il "magistrato istruttore" ha completato l'istruttoria e ha formulato la "proposta informale" al consigliere delegato, affinche' assuma la decisione di sua spettanza, quest'ultimo e' gia' stato "coadiuvato" e la questione di costituzionalita' sarebbe, conseguentemente inammissibile per difetto di rilevanza. Puo' aggiungersi che, proprio nella posizione servente del magistrato istruttore nei confronti del consigliere delegato, si rinviene un ulteriore elemento che conferma la carenza di legittimazione del consigliere delegato a sollevare la questione di legittimita' costituzionale delle denunciate disposizioni: la "proposta informale" dell'istruttore ha una influenza di mero fatto sulla decisione del consigliere delegato, il quale ben potrebbe legittimamente decidere senza neppure aver richiesto l'"ausilio" dell'istruttore ovvero, comunque, in assenza di una proposta o di un parere di questo. Le norme impugnate non hanno, dunque, quell'effetto giuridicamente rilevante sulla decisione del consigliere delegato che renda la soluzione della questione di legittimita' costituzionale delle stesse una pregiudiziale necessaria rispetto alla determinazione da assumere. A maggior ragione la Corte costituzionale non potrebbe essere investita del giudizio dalla seziome del controllo, che interviene - eventualmente - nel procedimento in una fase ancora successiva. Deve concludersi, che essendo tenuto solo il "magistrato istruttore" ad applicare le disposizioni denunciate e mancando, comunque, un qualsivoglia effetto giuridico di tale applicazione sulla decisione che "definisce" il procedimento di controllo, solo il medesimo "magistrato istruttore" e' legittimato - sotto il profilo della rilevanza - a promuovere la questione di legittimita' costituzionale delle norme in parola. B) A fondare la legittimazione del remittente soccorre, infine, un'ulteriore diversa considerazione: la mancanza di potere decisorio del magistrato istruttore che, secondo il criterio generale innanzi esposto, impedirebbe a questo magistrato di sollevare questioni di costituzionalita', deriva proprio dalle norme delle quali viene denunciato il contrasto con diversi principi costituzionali. Se le disposizioni de quibus non limitassero le funzioni dei magistrati preposti o addetti agli uffici di controllo a quelle di coadiutori di altri magistrati e, prevedessero, invece, in armonia con i ricordati principi costituzionali di indipendenza dei magistrati e di buona amministrazione, la competenza di tutti i magistrati addetti al controllo ad assumere direttamente le decisioni dei casi trattati, non difetterebbe in capo ad essi quel requisito che - ricorrendo le note ulteriori condizioni - legittima la proposizione di questioni di costituzionalita'. Si vuole evidenziare che la soluzione della presente questione di legittimita' costituzionale potrebbe esplicare influenza sui poteri decisori del giudice remittente, circostanza che la Corte costituzionale ha mostrato di ritenere "sostitutiva" del requisito dell'attuale sussistenza di potere decisorio del giudice. Tale equiparazione emerge dalla sentenza n. 8/1979, sviluppando a contrariis il motivo di inammissibilita' di cui ai punti 4 e 5 della stessa: in quella ipotesi la Corte costituzionale aveva, infatti, ritenuto non legittimato il giudice remittente in quanto lo stesso, privo di poteri decisori (punti 3 e 4 della medesima sentenza), non aveva neppure prospettato una questione, la cui soluzione potesse avere effetti sui suoi stessi poteri. 7. - Sulla base di quanto sopra evidenziato il remittente ritiene costituzionalmente illegittime per violazione degli artt. 97, primo comma, 101, secondo comma, 107, terzo comma, e 108, primo e secondo comma, della Costituzione le disposizioni di cui all'art. 22, primo comma, del r.d. n. 1214/1934 e agli artt. 7, primo comma, e 11, primo e secondo comma, della legge n. 1345/1961, nella parte in cui prevedono, quali componenti degli uffici di controllo della Corte dei conti dei magistrati in posizione servente sia fra loro che rispetto al consigliere delegato, anziche' prevedere, in armonia con i richiamati precetti costituzionali, per un verso, la pari ordinazione - relativamente alla funziome del controllo - di tutti i magistrati assegnati all'ufficio e, per altro verso, l'attribuzione (implicita o esplicita) al magistrato dirigente dei compiti di direzione dell'ufficio, ripartizione preventiva del lavoro tra i vari magistrati, organizzazione amministrativa e vigilanza sull'andamento generale dei servizi, in analogia, ad esempio, all'ordinamento delle preture ripartite in sezioni (si richiama sul punto - trovandosi curiosamente l'analogia di situazione rispecchiata anche, in parte, nella similare anacronisticita' del testo normativo - l'interpretazione, resa dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 80/1970, punto 6, e, segnatamente, n. 143/1973, punti 3 e 4, dell'art. 34, primo comma, del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, contenente una espressione del tutto analoga alla formula utilizzata per le norme denunciate con la presente ordinanza: "i magistrati in sottordine coadiuvano il titolare nell'adempimento delle sue funzioni"). Ne' potrebbe porsi il problema di un eventuale "vuoto legislativo", quale conseguenza della declaratoria di incostituzionalita' delle disposizioni impugnate, in quanto gia' il legislatore fin dal 1862 ha - nella sua discrezionalita' - ritenuto adeguato all'esercizio della funzione del controllo preventivo di legittimita' un organo monocratico con il solo temperamento della previsione, in delimitate ipotesi, dell'intervento di organi collegiali (sezione del controllo e sezioni riunite in sede di controllo).