IL MAGISTRATO ISTRUTTORE
    Visto il decreto del provveditore agli studi di La Spezia  n.  358
 in  data  28  marzo  1985,  con il quale il preside Giromini Folco e'
 stato inquadrato - previo annullamento di un precedente decreto - nei
 livelli retributivi, di cui al d.P.R. 2 giugno 1981,  n.  271,  sulla
 base di una valutazione dell'anzianita' di servizio che il magistrato
 istruttore remittente ritiene non conforme a legge;
    Vista   la  richiesta  di  chiarimenti  formulata  dal  magistrato
 istruttore con foglio di rilievo n. 280  del  31  luglio  1985  e  la
 risposta dell'amministrazione in data 4 settembre 1985;
    Viste   le   osservazioni   formulate  dal  magistrato  istruttore
 remittente (addetto al controllo degli atti degli  organi  decentrati
 del Ministero della pubblica istruzione, giusta ordini di servizio in
 data  8  gennaio  1990  e  in  data  7 settembre 1990 del consigliere
 dirigente la delegazione regionale) con rilievo "di replica"  n.  132
 del  25 luglio 1990 e le controdeduzioni dell'amministrazione in data
 7 marzo 1991;
    Considerate le funzioni spettanti  al  remittente  magistrato,  ai
 sensi  dell'art. 22, primo comma, del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, e
 degli artt. 7, primo comma, e 11, primo e secondo comma, della  legge
 20  dicembre  1961, n. 1345, nel procedimento di controllo preventivo
 di legittimita' dell'atto de quo;
                             O S S E R V A
    1.1.  -  E' necessario premettere che il remittente magistrato nel
 procedimento di controllo dell'atto in premessa svolge - e non  viene
 in rilievo in questa sede la eventuale illegittimita' (per violazione
 dell'art.  22, primo comma, del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, e degli
 artt. 7, primo comma, e 11, primo  comma,  della  legge  20  dicembre
 1961,  n. 1345) dell'assegnazione o della permanenza presso uffici di
 controllo centrali o periferici della Corte dei conti  di  magistrati
 rivestenti,  come il remittente, la qualifica di consigliere senza la
 contestuale attribuzione delle  funzioni  di  "consigliere  delegato"
 (cfr.,  per  analoga  divaricazione  tra  qualifica  e  funzione,  la
 sentenza della Corte costituzionale n. 86/1982) -  quale  "magistrato
 piu'  anziano"  le  funzioni  di  "preposto  all'ufficio",  ai  sensi
 dell'art. 22, primo comma, r.d. n. 1214/1934 e degli artt.  7,  primo
 comma,  e 11, primo comma, della legge n. 1345/1961 sopra citata, per
 effetto della determinazione assunta in data 17  settembre  1990  dal
 Consiglio  di  presidenza  della  Corte  dei conti, applicativa della
 delibera dello stesso Consiglio n. 237 del 4 luglio  1989,  punto  1,
 ovvero  quelle,  nella  specie,  di  fatto  identiche  -  come meglio
 precisato infra - di "magistrato istruttore", figura  individuata  ad
 opera   della   medesima   delibera  n.  237/1989  del  Consiglio  di
 Presidenza, interpretativa delle norme di legge ora richiamate.
    1.2. - Le attribuzioni del remittente magistrato consistono,  come
 stabilito  dalle  sopra  menzionate disposizioni, nel "coadiuvare" il
 consigliere delegato al controllo.  In  particolare,  nella  presente
 fase  del  procedimento  di controllo, competerebbe allo scrivente la
 formulazione  di  una  motivata  proposta  informale  riguardo   alla
 soluzione  da  dare  alla  questione,  proposta  che  dovrebbe essere
 sottoposta al consigliere  delegato  per  la  determinazione  di  sua
 competenza   (ammissione   al   visto   dell'atto,  prosecuzione  del
 contraddittorio  con  l'amministrazione  mediante  adozione   di   un
 ulteriore  "rilievo  di  replica"  ovvero  trasmissione degli atti al
 Presidente della Corte per il deferimento alla sezione del  controllo
 della pronuncia sul visto e la registrazione del provvedimento).
    1.3.  - Ritiene il remittente che l'art. 22, primo comma, del r.d.
 n. 1214/1934 nonche' gli artt. 7, primo comma, e 11, primo e  secondo
 comma, della legge n. 1345/1961, nella parte in cui, disciplinando le
 funzioni  dei magistrati addetti agli uffici di controllo della Corte
 dei conti, attribuiscono agli stessi un mero compito di  ausilio  nei
 confronti   del   consigliere   delegato,   contrastino  con  diverse
 disposizioni della Carta costituzionale - come  infra  specificato  -
 non  solo  secondo  l'interpretazione (rectius: le modalita' applica-
 tive) che tali norme di legge attualmente ricevono, ma anche in  base
 a  qualsiasi  altro significato alle stesse attribuibile nel rispetto
 dei canoni che presiedono all'interpretazione delle norme giuridiche.
    2.1. - Per meglio descrivere l'attuale  sistema  normativo  (fonti
 primarie e secondarie) occorre prendere le mosse dalla considerazione
 dell'ordinamento previgente al t.u. n. 1214/1934.
    La legge 14 agosto 1862, n. 800, istitutiva della Corte dei conti,
 conteneva  negli  artt. 13 e segg. una disciplina del procedimento di
 controllo sugli  atti  estremamente  sintetica  e,  conseguentemente,
 prevedeva  - all'art. 50 - l'adozione, da parte delle sezioni riunite
 della stessa Corte, di  un  regolamento  per  l'esercizio  delle  sue
 attribuzioni  non contenziose "fino all'emanazione di una legge sulla
 materia".
    Si  dovette  attendere  fino al 1913 perche' le ss.rr. adempissero
 alla delega ricevuta: con la deliberazione del 2 luglio  1913  (artt.
 26  e  segg.)  venne  stabilita  nei  dettagli  la  procedura  per il
 controllo di legittimita' sugli atti (procedura, peraltro,  in  linea
 di  massima  non dissimile dall'attuale). Tali disposizioni restarono
 in vigore sicuramente fino all'emanazione del testo unico, di cui  al
 citato  r.d.  n. 1214/1934, che, dopo aver dettato con gli artt. 18 e
 segg. una nuova disciplina  del  controllo  (non  meno  sintetica  di
 quella  della  legge n. 800/1862), ha previsto all'art. 97, lett. b),
 l'adozione di un decreto reale a relazione del Capo del  Governo,  su
 proposta   della   Corte  dei  conti,  per  stabilire  le  norme  per
 l'esercizio delle attribuzioni non contenziose dell'istituto.
    Cosi' come non e' mai stata emanata la legge prevista dall'art. 50
 della legge n. 800/1862, anche il regio decreto (o,  successivamente,
 il decreto del Presidente della Repubblica), di cui al citato art. 97
 del t.u. n. 1214/1934, non ha visto la luce.
    In questa situazione si dovrebbe forse propendere per una sorta di
 ultrattivita'  -  a livello di norme secondarie - della deliberazione
 delle ss.rr. del 1913, modificata ed integrata con  la  deliberazione
 delle  ss.rr.  del 25 giugno 1915, senonche' risulta arduo conciliare
 tali disposizioni con le nuove norme del  t.u.  n.  1214/34  e  della
 legge n. 1345/1961.
    2.2.  -  Per  ovviare  al  vuoto normativo cosi' delineatosi, vari
 presidenti della Corte dei conti si sono adoperati a disciplinare con
 propri atti (ordinanze) quanto il legislatore o il governo omettevano
 di regolare. Ultima in ordine di tempo e' l'ordinanza 10 maggio 1976,
 n. 76, che, pur essendo intitolata "Regolamento interno degli  uffici
 della  Corte  dei  conti",  disciplina  -  accanto  ad altre materie,
 parimenti riservate al regio decreto o decreto del  Presidente  della
 Repubblica,  quali  gli  organi  e  la  procedura per l'esercizio del
 controllo successivo (artt.  da  37  a  45),  la  composizione  e  il
 funzionamento  delle  sezioni  riunite  (artt. da 51 a 55) - anche il
 procedimento del controllo preventivo di legittimita' degli atti e le
 funzioni dei magistrati che vi partecipano (artt. 18 e segg.).
    Il  Presidente  della  Corte,  nell'emanazione  di  queste  ultime
 disposizioni,  non  poteva  certo,  come viene invece enunciato nelle
 premesse dell'ordinanza, fondare il proprio potere  sulla  delega  di
 cui  all'art.  98  del  t.u.  n. 1214/1934, chiaramente limitata alla
 regolamentazione  della  disciplina  e  del  servizio  interno  degli
 uffici.  La  menzionata ordinanza n. 76/1976, tuttavia, pur dovendosi
 considerare nulla per essere stata adottata da autorita' incompetente
 (in  assoluto)  a  disciplinare  la  materia  de   qua,   costituisce
 attualmente   l'unico   riferimento   normativo  per  l'attivita'  di
 controllo e come tale viene, in via di massima, seguita  da  tutti  i
 magistrati della Corte che operano nel settore.
    Solo  recentemente  il  consiglio  di  presidenza  della Corte dei
 conti, facendosi  carico  dell'esigenza  di  "interpretare  le  norme
 vigenti  in coerenza con i principi costituzionali previsti dall'art.
 107, terzo comma, della Costituzione", ha ritenuto, "in via del tutto
 temporanea e in  attesa  della  gia'  richiesta  riforma  legislativa
 relativa  all'esercizio  delle  funzioni negli uffici di controllo da
 attuare anche a stralcio in via di estrema urgenza", di modificare in
 parte - con la gia' citata delibera n. 237 del 4  luglio  1989  -  la
 disciplina   contenuta  nella  predetta  ordinanza  presidenziale  n.
 76/1976.  Il  consiglio  di   presidenza   ha,   pertanto,   disposto
 l'unificazione  delle  funzioni istruttorie - gia' svolte, secondo il
 dettato legislativo, rispettivamente dal referendario in ausilio  del
 primo referendario preposto all'ufficio e, quindi, da quest'ultimo in
 ausilio   del   consigliere   delegato   -  in  capo  al  "magistrato
 istruttore",   stabilendo   che   questi   "riferisce    direttamente
 sull'attivita' istruttoria al consigliere delegato".
    Deve  osservarsi,  tuttavia,  che  anche  la predetta delibera del
 consiglio di presidenza, pur emanata con lodevolissimi propositi, non
 solo confligge gravemente  nella  parte  precettiva  con  la  lettera
 dell'art.  11,  secondo  comma,  della  citata legge n. 1345/1961, ma
 appare,  per  di  piu',  come   gia'   le   precedenti   disposizioni
 regolamentari, adottata da organo privo in via assoluta di competenza
 in  materia: non si rinviene, infatti, nella legge 13 aprile 1988, n.
 117, istitutiva dell'organo "di autogoverno" della magistratura della
 Corte dei conti, alcuna disposizione che attribuisca allo stesso tale
 potere normativo, cosi' che deve ritenersi tuttora  vigente  il  piu'
 volte ricordato art. 97 del t.u. n. 1214/1934, che riserva la materia
 alla  disciplina  promanante  da  altra fonte (decreto del Capo dello
 Stato).
    Tali considerazioni sono state, da ultimo, recepite  dallo  stesso
 consiglio  di  presidenza,  il quale, con delibera del 12 marzo 1991,
 pur senza pronunciarsi in merito alla validita' delle  determinazioni
 in  precedenza  adottate,  ha  denegato  la  propria  competenza  "ad
 assumere determinazioni a valore decisionale e provvedimentale  sulle
 modalita'  di esercizio e sui contenuti delle funzioni monocratiche e
 collegiali dei magistrati della Corte dei conti".
    2.3. - In sintesi, dunque, il  procedimento  del  controllo  degli
 atti  innanzi  alla  Corte  dei  conti  e  le funzioni dei magistrati
 addetti sono attualmente disciplinati, in via primaria, dalle  scarne
 disposizioni del t.u. n. 1214/1934 e della legge n. 1345/1961 - norme
 che  richiederebbero  un  regolamento  di attuazione mai emanato - e,
 secondariamente, dalle menzionate disposizioni interne,  nulle  -  in
 quanto adottate da organi (presidente e consiglio di presidenza della
 Corte  dei  conti)  privi  di  potere  normativo in materia -, ma che
 hanno, comunque, di fatto interamente superato le prescrizioni di cui
 alla sopra citata deliberazione delle ss.rr. del 1913.
    2.4. - Questo sistema di regole interne - abbia dato o no  origine
 a  un  "diritto vivente" in senso tecnico (cfr. Corte costituzionale,
 sentenza n. 86/1982, punto 5) -  prevede,  in  sintesi,  che  l'esame
 istruttorio  dell'atto venga compiuto dal "magistrato istruttore" con
 la  collaborazione  del  personale  amministrativo.   Il   magistrato
 istruttore  conclude  la  prima fase della propria attivita' o con la
 proposta di ammissione al visto rivolta al consigliere delegato o con
 la  predisposizione  di  un  foglio   di   rilievo   per   contestare
 all'amministrazione  controllata errori materiali ovvero elementi che
 siano ritenuti motivo di  illegittimita'  dell'atto.  Il  consigliere
 delegato, se concorda con la proposta di ammissione al visto o con il
 contenuto  del  foglio  di  rilievo,  da' corso a quanto proposto dal
 magistrato  istruttore;  se,  viceversa,  non  concorda,  adotta  una
 "determinazione  succintamente  motivata".  Con  tale determinazione,
 nella prima ipotesi, il magistrato istruttore, che aveva concluso per
 l'ammissione al visto, viene invitato  a  formulare  un  rilievo  per
 contestare  i  vizi  dell'atto  riscontrati dal consigliere delegato;
 nella seconda ipotesi, contro la proposta del magistrato  istruttore,
 l'atto  viene  ammesso  al visto e il magistrato preposto all'ufficio
 deve disporne la registrazione.
    Nel   caso,   infine,   sia   stato   formulato   il   rilievo   e
 l'amministrazione,  controdeducendo,  abbia  insistito nel richiedere
 l'ammissione al visto e alla registrazione dell'atto,  il  magistrato
 istruttore, esaminate le argomentazioni dell'amministrazione, formula
 una  proposta  al  consigliere  delegato, con la quale conclude o per
 l'ammissione al visto e alla registrazione o per la  formulazione  di
 un c.d. "rilievo di replica" ovvero, ancora, per il deferimento della
 questione  alla  sezione  del  controllo  tramite il presidente della
 Corte. Il consigliere delegato, ove non concordi con la proposta  del
 magistrato  istruttore,  puo'  -  come  nella  precedente  fase - con
 determinazione succintamente motivata disporre diversamente.
    Le regole di fatto applicate attribuiscono, dunque, al  magistrato
 istruttore   (rivestente  la  qualifica  di  referendario,  di  primo
 referendario o anche di  consigliere,  per  effetto  della  ricordata
 delibera   n.  237  del  consiglio  di  presidenza)  la  funzione  di
 effettuare l'esame istruttorio dell'atto e di formulare - al  termine
 -  una  proposta  informale  al consigliere delegato, il quale potra'
 decidere, comunque, in difformita' della proposta e,  in  tale  caso,
 mediante  determinazione  -  altrettanto  informale  e "succintamente
 motivata" - potra' dare anche disposizioni per l'ulteriore  attivita'
 del  magistrato  istruttore sia in ordine alla questione trattata sia
 per il controllo di atti analoghi che pervengano in futuro  all'esame
 dell'ufficio.
    2.5.  -  A  conclusione  del  presente  sommario  excursus si deve
 constatare che le regole interne, che disciplinano il procedimento di
 controllo, pur  essendo  contenute  in  atti  normativi  non  ammessi
 dall'ordinamento  quali  fonti  di  produzione  giuridica in materia,
 appaiono, tuttavia, costituire un corretto sviluppo  delle  norme  di
 legge  (art.  22, primo comma, del r.d. n. 1214/1934 e artt. 7, primo
 comma, e 11, primo e secondo comma, della  legge  n.  1345/1961)  che
 attribuiscono  ai magistrati addetti agli uffici di controllo diversi
 dal  consigliere  delegato  una  mera  funzione   di   ausilio   (del
 referendario  nei  confronti del primo referendario e di quest'ultimo
 nei  confronti  del   consigliere   delegato).   Tale   funzione   di
 "coadiutore"   non  puo'  che  identificarsi,  infatti,  comunque  si
 interpretino le predette  norme,  nel  partecipare  -  attraverso  lo
 svolgimento  di  attivita' istruttoria o la predisposizione di atti o
 la formulazione di proposte non vincolanti o  l'adempimento  di  piu'
 d'uno di questi o similari compiti - ad una funzione altrui.
    2.6.  -  Si  ritiene,  dunque,  che  -  come  si era in precedenza
 anticipato - le disposizioni che si sottopongono  al  giudizio  della
 Corte  costituzionale,  anche  se ricevessero attuazione mediante gli
 atti regolamentari previsti dall'art. 97  del  t.u.  n.  1214/1934  e
 anche  se  fossero  diversamente  interpretate  in sede di normazione
 secondaria, confliggerebbero in ogni caso con diversi precetti  della
 Costituzione, come di seguito si rappresenta.
    3.1.  -  Deve  considerarsi, in primo luogo, che l'art. 108, primo
 comma,  della  Costituzione  riserva  alla  legge  (statale)  sia  la
 disciplina  dell'"ordinamento  giudiziario"  che le norme relative ad
 "ogni  magistratura":  ne  discende  che  anche  l'ordinamento  della
 magistratura  della  Corte  dei  conti,  ivi comprese le funzioni dei
 magistrati e l'esercizio delle stesse (concetto ribadito, da  ultimo,
 per   la   magistratura   ordinaria   dalla   sentenza   della  Corte
 costituzionale n. 72/1991) deve essere stabilito con  legge.  Analoga
 riserva, peraltro, gia' anteriormente alla Costituzione, era prevista
 dall'art. 1, secondo comma, della legge 31 gennaio 1926, n. 100.
    Se  si  volesse  intendere tale riserva come assoluta, apparirebbe
 ictu oculi che le disposizioni del testo unico sulla Corte dei  conti
 n.  1214/1934  e,  segnatamente,  il combinato disposto dell'art. 22,
 primo comma, e dell'art. 97, lett. b), contrastano  con  l'art.  108,
 primo  comma,  della  Costituzione,  in  quanto viene demandata ad un
 regolamento  -  fra  l'altro  -  la  disciplina  delle  funzioni  dei
 magistrati degli uffici di controllo.
    Sembra,  tuttavia,  essersi  storicamente  affermato  il carattere
 relativo  della  riserva  in  parola   con   la   conseguenza   della
 legittimita'  di  fonti  diverse  dalla  legge (e dagli atti a questa
 equiparati) che intervengano a regolare la materia.
    Ma  anche  in  tale  prospettiva  le  norme   impugnate   appaiono
 contrastare  con l'art. 108, primo comma, della Costituzione sotto un
 duplice profilo.
    3.2. - Per un primo aspetto si rileva che dette  disposizioni  non
 soddisfano  i requisiti che le norme di legge operanti nell'ambito di
 una materia  oggetto  di  riserva  di  legge  devono  possedere:  non
 contengono, infatti, neppure l'enunciazione di un minimum di criteri,
 idoneo a delimitare la discrezionalita' dell'autorita' amministrativa
 nell'emanazione  delle  norme  secondarie (si richiamano al riguardo,
 fra le altre, le sentenze della Corte costituzionale nn. 4 e  30  del
 1957,  n.  34/1986,  nn.  127  e  333  del 1988). L'unico "principio"
 stabilito e',  infatti,  rappresentato  dall'attributo  "coadiuvato",
 espressione  che  non appare di certo sufficiente a definire le linee
 guida, cui dovrebbe attenersi il Governo  nell'adozione  delle  norme
 regolamentari  in  materia  di  funzioni  dei referendari e dei primi
 referendari - ma oggi anche dei "consiglieri" -  addetti  o  preposti
 agli uffici di controllo.
    3.3.  -  Sotto  altro aspetto deve osservarsi che anche l'unica (e
 insufficiente) indicazione fornita dal legislatore -  "coadiuvato"  -
 gia'  di  per  se'  contrasta  con  l'art.  108,  primo  comma, della
 Costituzione,  in  quanto  e'  implicito  nella  stessa   espressione
 "coadiuvato"  che,  oltre  alle  norme  generali e astratte contenute
 nell'emanando regolamento, intervengano a  disciplinare  le  funzioni
 dei  singoli  magistrati  (nonche'  le  modalita'  di esercizio delle
 stesse) anche direttive ed ordini del consigliere delegato.
    La funzione di ausilio presuppone,  infatti,  che  il  coadiuvando
 possa  stabilire quali funzioni riservare a se stesso, quali funzioni
 attribuire al coadiuvante e come quest'ultimo le debba esercitare.  E
 cio'  appare  contraddire  il  concetto  medesimo di riserva di legge
 relativa: tale nozione presuppone si' l'intervento di norme di  grado
 diverso  da  quello  della  legge (e degli atti normativi equiparati)
 nella disciplina di una materia, ma postula pur sempre la generalita'
 e l'astrattezza della disciplina di  grado  inferiore.  Nel  caso  in
 esame,  invece,  la  legge  demanda,  -  e  senza,  come si e' visto,
 indicazione di criteri -  direttamente  ad  organi  privi  di  potere
 normativo  (in  senso  proprio)  una  parte  della  disciplina  della
 materia,  da  realizzarsi  mediante l'adozione di comandi a contenuto
 concreto e indirizzati a singoli destinatari.
    4.1. - Deve escludersi, inoltre, la compatibilita'  dell'art.  22,
 primo  comma,  del  t.u. n. 1214/1934 e degli artt. 7, primo comma, e
 11, primo e secondo comma, della legge n.  1345/1961  con  gli  artt.
 101,  secondo  comma, e 107, terzo comma, e 108, secondo comma, della
 Costituzione:  le  disposizioni  di  legge  in  questione,   infatti,
 contrastano   con   il   principio  costituzionale  dell'indipendenza
 funzionale  del  giudice,  in  quanto  instaurano  un   rapporto   di
 strettissima  subordinazione  funzionale  dei referendari e dei primi
 referendari, rispettivamente, nei confronti del primo referendario  e
 del   consigliere   delegato  (ovvero,  per  usare  la  piu'  recente
 espressione, del  "magistrato  istruttore"  rispetto  al  consigliere
 delegato).    Tale    subordinazione,    per   la   sua   particolare
 configurazione, si sostanzia in un  vincolo  ancor  piu'  stretto  di
 quello  che  si  rinviene  nel  rapporto gerarchico: la relazione fra
 superiore e inferiore gerarchico  (che,  peraltro,  nella  sua  forma
 tradizionale  trova  ormai,  a seguito della soppressione del sistema
 delle "carriere", intervenuta ad opera della legge 11 luglio 1980, n.
 312, e della definizione  dei  "profili  professionali",  di  cui  al
 d.P.C.M.   29   dicembre   1984,  n.  1219,  espressione  solo  negli
 ordinamenti del personale militare) e' sempre stata intesa nel  senso
 che  il subordinato svolge le proprie funzioni secondo le direttive e
 ottemperando agli  ordini  del  superiore,  il  quale  e'  dotato  di
 competenza,   di  norma,  piu'  ampia  del  subordinato  e  possiede,
 generalmente, anche il potere di avocare  a  se'  la  trattazione  di
 singole questioni. Nella fattispecie in esame, invece, il subordinato
 non  ha neppure funzioni proprie, ma semplicemente aiuta il superiore
 nell'adempimento delle competenze di quest'ultimo  e,  anzi,  qualora
 nell'ufficio  di  controllo  vi  siano - come di solito si verifica -
 accanto  al  "magistrato  preposto"  anche  uno  o  piu'  "magistrati
 addetti"  (ipotesi  prevista dall'art. 11, secondo comma, della legge
 n. 1345/1961) il "referendario"  aiuta  il  "primo  referendario"  ad
 aiutare  il  consigliere  delegato.  Il  "referendario"  e  il "primo
 referendario"  sono  percio'  magistrati  totalmente  dipendenti  dal
 superiore, il quale puo' stabilire ad libitum le loro competenze e le
 rispettive modalita' di esercizio.
    I   "coadiutori",   dunque,  esercitando  una  funzione  meramente
 servente e non essendo, conseguentemente, titolari  di  atti  formali
 propri,  non  decidono  o  non  concorrono a decidere alcunche' e non
 possono neppure deferire la decisione di una  questione  al  collegio
 (sezione del controllo); gli stessi, inoltre, sono soggetti al potere
 di avocazione da parte del consigliere delegato delle questioni volta
 a   volta  affidate,  esercitabile,  peraltro,  senza  necessita'  di
 motivazione in quanto si tratta, in  realta'  non  di  avocazione  in
 senso tecnico, ma di esercizio diretto delle proprie funzioni.
    La  situazione  si  presenta,  poi,  paradossale  negli  uffici di
 controllo in cui il "preposto all'ufficio" e i  "magistrati  addetti"
 rivestono  la  qualifica di consigliere: in tal caso - e l'ipotesi si
 verifica frequentemente - un consigliere (in luogo del  referendario)
 dovrebbe   coadiuvare  un  altro  consigliere  (in  luogo  del  primo
 referendario) a  coadiuvare  un  terzo  consigliere  (il  consigliere
 delegato).
    Le norme denunciate contrastano, pertanto, con gli artt. 101 cpv.,
 107,   terzo   comma  (espressione  di  un  principio  che  non  puo'
 ipotizzarsi limitato alla magistratura  ordinaria:  si  veda  in  tal
 senso,  la formula "i magistrati della Corte dei conti si distinguono
 secondo le funzioni", avente scopo presumibilmente  di  richiamo  del
 principio  in  argomento, contenuta nell'art. 10 della legge 21 marzo
 1953, n. 161, e  il  punto  4  della  motivazione  in  diritto  della
 sentenza  della  Corte  costituzionale  n.  74/1978),  e 108, secondo
 comma, della Costituzione: si  richiamano  le  sentenze  della  Corte
 costituzionale  nn.  102/1964, 80/1970, 143/1973, 98/1976 (punto 11),
 86/1982 (punto 6) e quelle da queste  richiamate  e,  da  ultimo,  le
 sentenze nn. 72 e 263/1991.
    Con  particolare  riferimento  all'art.  108, secondo comma, della
 Costituzione, che appare un "adattamento" del principio enunciato con
 il  precedente  art.  101  cpv.,  agli  specifici  ordinamenti  delle
 magistrature  "speciali",  occorre  notare  che il costituente ha si'
 demandato alla legge la salvaguardia  dell'indipendenza  sia  esterna
 che  interna dei giudici (tutela che per la magistratura ordinaria e'
 apprestata direttamente dalla Costituzione), ma non ha consentito con
 cio' al legislatore ordinario di  comprimere  tale  indipendenza:  il
 precetto  costituzionale, infatti, rivolto agli organi legislativi e'
 proprio di "assicurare" l'indipendenza delle magistrature speciali  e
 dei  singoli  magistrati  a  queste appartenenti. E tale precetto non
 puo' dirsi certamente realizzato dalle norme in questione (due  delle
 quali,  tra  l'altro,  sono  successive  all'entrata  in vigore della
 Costituzione).
    Occorre  ricordare  che  gia'  in  numerose  occasioni  la   Corte
 costituzionale    si    e'    occupata,    sotto   profili   diversi,
 dell'indipendenza dei magistrati della  Corte  dei  conti  senza  mai
 incidere, tuttavia, sull'ordinamento dell'istituto e sulla disciplina
 delle  sue  attribuzioni.  L'evoluzione  della giurisprudenza mostra,
 peraltro, una crescente preoccupazione per il divario - che il  tempo
 e l'inerzia del legislatore concorrono ad approfondire - fra le norme
 che  governano  la  magistratura  della  Corte dei conti e i principi
 costituzionali (che hanno ricevuto, invece,  di  massima,  attuazione
 per  le  altre  magistrature  ordinaria  e amministrativa): mentre la
 sentenza n. 1/1967, "assolve con formula piena" il t.u. n. 1214/1934,
 gia' le  sentenze  n.  1/1978  e,  piu'  specificamente,  n.  74/1978
 contengono  un  invito  al  legislatore  ad un "globale riesame della
 progressione delle funzioni dei magistrati della Corte dei conti", e,
 infine,   con   la   sentenza   n.   230/1987   viene    riconosciuto
 esplicitamente,  -  sia pur con riferimento a disposizioni diverse da
 quelle oggetto della presente questione - che  "non  e'  sotto  alcun
 aspetto  garantita  la  indipendenza  di  magistrati  della Corte dei
 conti". Certamente alcuni aspetti  dell'indipendenza  dei  magistrati
 della Corte dei conti sono stati di recente maggiormente tutelati con
 la  riforma  del  consiglio di presidenza e l'abolizione del rapporto
 informativo  per  i  referendari  e   primi   referendari,   attuate,
 rispettivamente  dagli  artt.  10 e 11 della legge 13 aprile 1988, n.
 117, ma nessun adeguamento ai precetti della Costituzione  e'  ancora
 intervenuto nella materia oggetto della presente ordinanza.
    5.1.  -  Le  disposizioni  in  esame  contrastano,  infine, con il
 principio di "buona  amministrazione",  di  cui  all'art.  97,  primo
 comma,  della  Costituzione,  principio  che  non  puo' non ritenersi
 esteso  oltre  che  all'attivita'  della  magistratura  ordinaria   e
 amministrativa  (si richiamano le sentenze della Corte costituzionale
 n. 177/1973, punto  10,  e  n.  86/1982)  anche  all'attivita'  della
 magistratura contabile.
    5.2.   -   Deve,  in  primo  luogo,  porsi  in  rilievo  come  sia
 irragionevole il mantenimento di una complessa  procedura,  concepita
 in  altra  epoca e in altro contesto per il controllo di legittimita'
 di pochi atti ad opera di una piccola struttura, quando le condizioni
 oggettive sono totalmente mutate: la  struttura,  articolata  ora  in
 molteplici uffici, ha assunto dimensioni incomparabilmente maggiori e
 il  confronto  del  numero  dei soli decreti (trascurando i titoli di
 spesa, i rendiconti, ecc.) pervenuti al  controllo  della  Corte  dei
 conti  nel  1934  (n.  5.648)  rispetto  al  numero degli stessi atti
 pervenuti al controllo nel corso del 1990 (n. 1.342.562) nonche'  dei
 rilievi  formulati nel 1934 (n. 209) rispetto a quelli effettuati nel
 1990 (n. 64.935) mostra in tutta la sua evidenza il divario esistente
 fra la situazione dell'epoca, in  cui  la  normativa  concernente  la
 Corte dei conti e' stata raccolta nel t.u. n. 1214/1934, e la realta'
 attuale.
    Le  disposizioni  in  questione  prevedono che il singolo atto sia
 esaminato sotto il medesimo profilo  (conformita'  a  legge),  quanto
 meno, da quattro soggetti diversi, ai quali puo' aggiungersi, qualora
 ne  ricorrano  i  presupposti,  l'organo  collegiale.  L'atto  viene,
 infatti,  esaminato  innanzitutto  dal  personale  amministrativo  di
 revisione,  poi dal magistrato addetto al settore, quindi (secondo la
 legge, ancorche' diversamente disponga la citata ordinanza n. 237 del
 consiglio  di  presidenza  della  Corte  dei  conti)  dal  magistrato
 preposto  all'ufficio,  poi  ancora  dal  consigliere  delegato e, da
 ultimo,  in  via  eventuale,  dalla  sezione  del  controllo.  Questo
 procedimento  riguarda  indifferentemente  tutti gli atti soggetti al
 controllo: da quelli piu' complessi e rilevanti  -  per  i  quali  si
 giustificherebbe  un esame approfondito - a quelli piu' semplici (per
 struttura e oggetto) produttivi  di  limitatissimi  effetti  (come  i
 decreti  concessivi  di  congedo  straordinario  e di aspettativa per
 motivi di salute adottati nei confronti degli impiegati dello Stato).
    Come e' ovvio tale procedura,  pur  prevista  dalla  legge,  viene
 totalmente  disattesa  -  per evitare la paralisi dell'istituto - nel
 concreto operare  degli  uffici  di  controllo,  ma  quanto  di  essa
 sopravvive  a  livello  di  "apparenza formale" e' gia' sufficiente a
 creare irrimediabili ritardi nell'espletamento delle  funzioni  della
 Corte  dei  conti.  A  cio'  si  aggiunga  che,  anche  nella  prassi
 ordinariamente seguita, non si riesce ad evitare  che  i  qualificati
 apporti  del personale amministrativo e di magistratura, gia' in gran
 parte  vanificati  nell'espletamento  di   compiti   palesemente   di
 scarsissima  utilita'  per  l'attuale  sistema socio-economico, siano
 resi  ancor  meno  produttivi  di  proficui  effetti  a  causa  delle
 descritte  molteplici  sovrapposizioni  di funzioni sia fra impiegati
 amministrativi e magistrati che nell'ambito di questi ultimi.
    Le  anacronistiche  disposizioni   che   prevedono   il   concorso
 dell'opera  di  tanti  soggetti  nello  svolgimento di compiti talora
 semplicissimi violano, dunque, non solo il principio della speditezza
 del procedimento amministrativo, ma anche quello del miglior utilizzo
 delle risorse (per  l'impiego  eccessivo  di  personale  con  compiti
 indifferenziati  e  sovrapposti)  con  conseguente  notevole aggravio
 della  spesa  pubblica  (si  richiamano in particolare la sentenza n.
 123/1968 e, con riferimento alla valutazione di proporzionalita'  dei
 mezzi  prescelti dal legislatore rispetto alle esigenze da soddisfare
 o alle finalita'  da  perseguire,  la  sentenza  n.  1130/1988  e  le
 sentenze  dalla  stessa  richiamate),  assurti  entrambi  a  principi
 fondamentali dell'ordinamento giuridico  per  effetto  del  combinato
 disposto  dell'art.  1  e  dell'art.  29,  primo comma, della legge 7
 agosto 1990, n. 241.
    La descritta  situazione  e'  ulteriormente  aggravata,  sotto  il
 profilo dello spreco di pubbliche risorse, dal fatto che, in mancanza
 di  referendari  e  di  primi  referendari,  sono  utilizzati  - come
 nell'ufficio  cui  appartiene  il  magistrato  remittente  -  per  le
 funzioni che la legge a questi avrebbe affidato dei magistrati aventi
 qualifica  di  consigliere  con  la abnorme conseguenza che lo stesso
 atto dovrebbe essere esaminato, di  regola,  in  successione  da  tre
 consiglieri prima ancora dell'eventuale esame dell'organo collegiale.
    Si   deve,   infine,   porre   in   evidenza  la  circostanza  che
 l'adeguamento di un ordinamento alle mutate condizioni oggettive e ai
 diversi bisogni della societa' non puo' essere affidato, come  accade
 per  le  norme  in  esame, alla parziale disapplicazione che di fatto
 avviene dello stesso.  Tale  necessitata  disapplicazione,  peraltro,
 mentre  consente  un  minimo  di  funzionamento dell'amministrazione,
 tende a celare le profonde disfunzioni  che  derivano  dalla  mancata
 riforma legislativa dell'istituto.
    Non  puo',  d'altro  canto,  richiedersi  tale  riforma alla Corte
 costituzionale: le decisioni della Corte costituzionale, come nota in
 diverse  occasioni  lo  stesso  giudice,  non  sono   strumento   ne'
 giuridicamente  possibile  ne'  tecnicamente  adeguato allo scopo. La
 riforma spetta, pertanto, unicamente al legislatore  (cfr.  ordinanza
 n.  95/1987).  Ma  cio'  non  significa  che gli altri organi debbano
 cessare di operare secondo i propri compiti istituzionali: considera,
 pertanto, il remittente che sia doveroso  da  parte  del  "magistrato
 istruttore"  segnalare alla Corte costituzionale le norme che ritiene
 incompatibili con la Costituzione,  e  ritiene,  parimenti,  funzione
 irrinunciabile   della   Corte  costituzionale  quella  di  espungere
 dall'ordinamento  le   disposizioni   contrastanti   con   le   norme
 costituzionali.
    Constatato, dunque, che l'impiego presso la Corte dei conti di una
 pletora  di  magistrati  -  per  esaminare  in  successione  fra loro
 questioni  talora  irrilevanti  -  e'  irragionevole  di  per  se'  e
 incongruo  rispetto  all'impiego  in  altre  magistrature  di giudici
 monocratici  o  di  collegi  composti  di  magistrati  di   inferiore
 qualifica   per   la   pronuncia   su  cause  spesso  di  notevole  o
 notevolissima   importanza   socioecononica    e    che    contrasta,
 conseguentemente,  con il principio della "buona amministrazione", di
 cui all'art. 97, primo comma, della Costituzione,  il  remittente  si
 ritiene tenuto a sottoporre al giudizio della Corte costituzionale le
 norme  che,  applicate  dallo  stesso  magistrato,  determinano  tale
 fenomeno.
    5.3.  -  Ma  il  sistema  oltreche'  irragionevole  appare   anche
 irrazionale   per  il  fatto  che  il  magistrato  con  qualifica  di
 consigliere,  che  svolga  le  funzioni  dalla  legge  attribuite  al
 referendario  o  al  primo  referendario,  non  puo',  ricorrendone i
 presupposti, ne' deferire la questione esaminata al collegio (sezione
 del controllo), in quanto tale potere spetta unicamente al coadiuvato
 consigliere  delegato  (art.  24, primo comma, del t.u. n. 1214/1934,
 nel testo sostituito dall'art. 1 della citata legge n. 161/1953), ne'
 far parte della stessa sezione del controllo (art. 24,  primo  comma,
 del  t.u.  n.  1214/1934 ora citato), mentre fa parte, di diritto con
 tutti i poteri, del collegio "di appello" (sezioni riunite in sede di
 riesame dell'atto a seguito di richiesta di registrazione con riserva
 ex art. 25 secondo comma, del t.u.  n. 1214/1934).
    Se si riconosce che il consigliere, in quanto tale,  e'  idoneo  a
 giudicare  definitivamente in sede di appello, non si vede come possa
 negarsi allo stesso magistrato,  invece,  l'idoneita'  ad  effettuare
 quella preliminare valutazione di "dubbia legittimita' dell'atto" che
 sta  alla  base  del  deferimento  della  questione  alla sezione del
 controllo.   Anche   sotto   questo   profilo,   dunque,   l'evidente
 irrazionalita'  del sistema - e delle norme denunciate in particolare
 - induce a ritenere esistente un contrasto di queste con  l'art.  97,
 primo comma, della Costituzione.
    6.1. - Non si nasconde, infine, il magistrato remittente che - per
 quanto  a sua conoscenza - non sono state fino ad ora sottoposte alla
 Corte costituzionale questioni di legittimita' ad opera di magistrati
 preposti ad uffici di controllo della Corte  dei  conti,  e  ritiene,
 conseguentemente, opportuno illustrare in breve alcune considerazioni
 riguardo  alla legittimazione dello stesso remittente a promuovere il
 giudizio di costituzionalita' delle  norme  denunciate  (trascurando,
 pertanto,  la  astratta  ed  irrilevante  disamina  circa l'eventuale
 proponibilita' di diverse ed ulteriori  questioni).  Si  precisa  che
 l'argomento,  pur  certamente pregiudiziale sotto un profilo logico e
 giuridico rispetto agli altri gia' svolti, viene trattato per  ultimo
 per   ragioni   sistematiche:   l'esposizione   risulta  notevolmente
 semplificata dalla presupposizione di elementi gia'  evidenziati  nei
 punti precedenti.
    I  consolidati principi giurisprudenziali, sviluppati dalla stessa
 Corte  costituzionale  in  ordine  ai  requisiti  di   proponibilita'
 previsti dagli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n.
 1,  e  23  della legge 11 marzo 1953, n. 87, si possono pacificamente
 ricondurre alla seguente schematica  enunciazione:  la  questione  di
 legittimita'  costituzionale  -  sia  per  iniziativa  di  parte  che
 d'ufficio - deve essere sollevata:
       a) nel corso di un giudizio;
       b) ad opera di un organo giurisdizionale;
       c) che sia tenuto a dare applicazione alle norme denunciate;
       d) nell'esercizio di un potere decisiorio.
    6.2.  -  Non  dovrebbe  porsi  in  dubbio  che  sussistano   nella
 fattispecie,  i  requisiti  sub  a) e sub b). Gia' con la sentenza n.
 226/1976   la   Corte   costituzionale   ha,   infatti,    dimostrato
 l'equiparabilita'  -  ai  fini  del  promovimento  delle questioni di
 legittimita' costituzionale - della funzione di controllo della Corte
 dei conti ad una funzione giurisdizionale  e,  conseguentemente,  del
 procedimento  del  controllo ad un "giudizio". Nella stessa sentenza,
 inoltre, al punto  3,  la  Corte  si  riferisce  espressamente  anche
 all'attivita'  istruttoria,  preliminare rispetto alla determinazione
 del consigliere delegato e, quindi, al  deferimento  della  questione
 alla  sezione  del  controllo  ("intanto  un contrasto di valutazioni
 sussiste tra l'autorita' che ebbe ad emanare l'atto ed il  magistrato
 che  assolve la funzione di controllo nella fase istruttoria; sicche'
 ove il consigliere delegato non ritenga di apporre il visto,  provoca
 il  deferimento  della  pronuncia  alla  sezione di controllo") quale
 attivita' svolta nel corso del "giudizio".
    Dal ragionamento sviluppato nella citata sentenza sembra,  dunque,
 potersi  inferire  con  sicurezza  che il "magistrato istruttore" del
 procedimento di controllo debba essere  riguardato,  sotto  l'aspetto
 della  legittimazione a proporre questioni di costituzionalita', come
 gli altri magistrati che svolgono, nel  corso  di  giudizi  civili  o
 penali,  funzioni  istruttorie: potrebbe, in particolare, assimilarsi
 al  giudice  istruttore  del  processo  civile,  organo   della   cui
 legittimazione   si  e'  ampiamente  occupata  in  passato  la  Corte
 costituzionale, ammettendola quando fossero soddisfatti gli ulteriori
 requisiti indicati sub c) e sub d) (si rammentano, fra le  altre,  le
 sentenze   nn.  62/1966,  45/1969,  88/1970,  125/1980  e,  in  senso
 negativo, ma pur sempre quali espressioni del medesimo principio, nn.
 109/1962, 44/1963, ord. n. 11/1964, sentenze nn.  60/1970,  333/1988,
 1104/1988 e l'ordinanza n. 199/1990).
    Ne'  potrebbe sostenersi, traendo argomento dal compito tipico del
 magistrato   istruttore   -   consistente   nell'instaurazione    del
 "contraddittorio"   con  l'amministrazione  che  ha  adottato  l'atto
 oggetto del controllo -, che lo  stesso  magistrato  abbia  veste  di
 "parte"  nel  procedimento,  quale  "attore" nell'interesse obiettivo
 dell'ordinamento. Malgrado l'apparente  plausibilita'  della  cennata
 tesi  e'  sufficiente  osservare  in  contrario  che  il  "magistrato
 istruttore" non esercita  una  funzione  propria,  ma  "coadiuva"  il
 consigliere  delegato,  il  quale  ultimo  - che, come si e' visto in
 precedenza, puo'  anche  condurre  autonomamente  e  direttamente  il
 "contraddittorio"  con  l'amministrazione  -  pronuncia,  infine,  la
 "sentenza" ("ammissione al  visto")  o  investe  della  questione  la
 sezione  del  controllo.  Come  la sezione del controllo (sentenza n.
 226/1976) anche il consigliere delegato e', dunque, "giudice" - e non
 parte - in quanto, a conclusione del procedimento, puo' adottare  una
 decisione    (definitiva):    non    diversamente   deve,   pertanto,
 considerarsi,  quale  "soggetto  processuale",  anche  il  magistrato
 istruttore,  che  ripete  i  propri  poteri  e  le  proprie  funzioni
 esclusivamente dal consigliere delegato. Si consideri, inoltre,  che,
 anche  in un ordinamento piu' adeguato ai principi costituzionali, il
 magistrato istruttore verrebbe - al piu' - ad assumere, quale propria
 autonoma funzione,  una  parte  o  la  totalita'  delle  attribuzioni
 attualmente   conferite  al  consigliere  delegato,  conservando,  di
 conseguenza,  anche  in  tale  ipotesi,  una  posizione  di  assoluta
 terzieta' rispetto alle questioni da trattare.
    6.3.  -  Pure  la  sussistenza - nella fattispecie - del requisito
 indicato con la lettera  c)  non  appare  res  dubia:  il  remittente
 "magistrato   istruttore"   deve   applicare  nell'attuale  fase  del
 procedimento di controllo le norme di cui con la  presente  ordinanza
 prospetta  l'illegittimita' costituzionale. Si verifica, pertanto, la
 condizione di pregiudizialita'  necessaria  -  di  cui  all'art.  23,
 secondo  e  terzo  comma,  della  citata  legge  n.  87/1953  - della
 soluzione delle questioni di costituzionalita' proposte rispetto alla
 prosecuzione e conclusione del procedimento del  controllo  da  parte
 del remittente.
    Ne' potrebbe ritenersi che delle norme impugnate (cfr. le sentenze
 della  Corte  costituzionale nn. 118 e 186 del 1976 e n. 579/1989) si
 sia "esaurita" in precedenza l'applicazione  o  che  alle  stesse  il
 magistrato  istruttore abbia gia' fatto definitiva acquiescenza (cfr.
 punto 4 della sentenza della Corte costituzionale n. 242/1990): e ben
 vero, infatti, che tali disposizioni,  disciplinando  per  intero  le
 funzioni svolte dal remittente sono state da questi gia' parzialmente
 applicate  nelle  precedenti  fasi  del procedimento di controllo, ma
 occorre  osservare  che  il  procedimento   e'   tuttora   in   corso
 (l'"ausilio"  da  parte  del  magistrato  istruttore  al  consigliere
 delegato e' stato impostato, ma non perfezionato) e che proprio nella
 fase  conclusiva  dell'istruttoria  -   consistente,   come   innanzi
 ricordato,   nella   formulazione   di   una  proposta  informale  al
 consigliere delegato, anziche' nell'adozione, da parte del magistrato
 addetto  al  controllo,  per  competenza  propria,  di  una   formale
 determinazione  in  ordine  alla questione trattata - si evidenzia il
 denunciato  contrasto  delle   norme   impugnate   con   i   principi
 costituzionali  di indipendenza e autonomia funzionale del magistrato
 (anche nei rapporti  interni),  espressi  negli  artt.  101,  secondo
 comma,  107,  terzo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione e
 di buona amministrazione, di cui  all'art.  97,  primo  comma,  della
 Costituzione.
    6.4.  -  Resta  da  esaminare  -  per concludere la verifica della
 "rilevanza"   della   questione,    considerata    sotto    l'aspetto
 consequenziale  della  legittimazione  del remittente a proporla - se
 sia soddisfatta nella specie anche  la  condizione  indicata  con  la
 lettera  d):  il  magistrato  remittente  dovrebbe  essere  tenuto ad
 applicare le disposizioni, oggetto della censura, in sede di adozione
 di un provvedimento - di competenza sua propria  -  avente  carattere
 decisorio.
    Appare evidente che nel caso in esame tale requisito non sussiste,
 in quanto il "magistrato istruttore", come si e' gia' visto, non solo
 non  decide  nulla,  ma  non  adotta  neppure  un atto formale (cioe'
 previsto dalla legge come atto tipico del procedimento di  controllo)
 di parere o proposta.
    Pur   potendo   sembrare,   dunque,   prima   facie   preclusa  la
 legittimazione del "magistrato istruttore" a promuovere  la  presente
 questione di costituzionalita', il remittente ritiene, invece, che la
 stessa debba ammettersi per due ordini di motivi.
     A)  Deve  considerarsi,  infatti,  in  primo  luogo, che la Corte
 costituzionale, come risulta  dalla  motivazione  della  sentenza  n.
 109/1962,  non ha desunto direttamente il principio giurisprudenziale
 di cui si discute, dall'interpretazione di una singola norma,  ma  lo
 ha,  in un certo senso, "costruito" in base al seguente ragionamento:
 il giudice che  non  decide  la  controversia,  se  fosse  ammesso  a
 valutare   la   non  manifesta  infondatezza  e  la  rilevanza  della
 questione, verrebbe a "interferire sull'attivita'  di  giudizio"  che
 compete ad altri (in altre occasioni, tuttavia, la Corte ha preferito
 operare un piu' stretto collegamento del gia' enunciato principio con
 la lettera del citato art. 23, secondo comma, della legge n. 87/1953:
 si  confrontino  le  sentenze nn. 141/1971 e 1104/1988 nelle quali e'
 fatto riferimento  alla  rilevanza  della  questione  ai  fini  della
 pronunzia "definitiva" del giudizio).
    Il   principio   in   esame,   pertanto,  e'  sorto  ed  e'  stato
 costantemente applicato - e non vengono qui in considerazione  quelle
 pronunce,  solo apparentemente analoghe, con le quali si e' accertato
 il difetto di legittimazione del pubbblico ministero,  ritenuto  piu'
 "parte"  che organo giurisdizionale fin dalla sentenza n. 40/1963 per
 giungere alla ordinanza n.  245/1990  riferita  al  nuovo  codice  di
 procedura   penale,  nonche'  quelle  decisioni  (cfr.,  ad  esempio,
 sentenze nn.  186/1976  e  579/1989)  con  cui  e'  stata  negata  la
 legittimazione  di  giudici  che  avevano  gia'  "esaurito" il potere
 decisorio - per le questioni di costituzionalita' aventi  ad  oggetto
 norme   sostanziali   ovvero   procedurali   o   processuali  la  cui
 applicazione incideva direttamente sulla "definizione del giudizio" o
 di parte di esso (ovvero,  per  la  verita',  anche  sulla  decisione
 relativa  a  fatti  "ai  margini"  del  giudizio:  cfr.  sentenza  n.
 88/1970).
    La  Corte  costituzionale  ha,  cioe',  ritenuto  nelle  ricordate
 decisioni  che  solo  il  giudice  chiamato  ad applicare le norme di
 sospetta  incostituzionalita'   per   una   qualsivoglia   decisione,
 definitiva o suscettibile di divenire tale, sia ammesso a valutare la
 rilevanza   e  la  non  manifesta  infondatezza  della  questione  e,
 pertanto, sia legittimato a promuovere il  giudizio  di  legittimita'
 costituzionale.
    Quid  iuris,  allora,  per quelle disposizioni che il giudice deve
 egualmente applicare nel corso di un giudizio, ma che non influiscono
 sul  merito  di  una  decisione,  presentandosi  affatto   neutre   o
 indifferenti  rispetto  alle varie possibili statuizioni da assumere?
 E' forse ipotizzabile che tali  norme  sfuggano  al  sindacato  della
 Corte costituzionale?
    Dall'esame  della  giurisprudenza  della  Corte  pare  emergere al
 riguardo un ulteriore  principio,  non  enunciato  espressamente,  ma
 ricavabile  per  deduzione: la legittimazione a proporre la questione
 di legittimita' costituzionale delle disposizioni in argomento spetta
 al giudice che comunque le debba applicare. Si richiamano, sul  tema,
 fra  le  altre,  le  sentenze  pronunciate  in  materia  di legittima
 costituzione del giudice (n. 177/1973, punto 3, ove si ammette -  tra
 l'altro  -  che  trattasi  di  questione  pregiudiziale ancorche' non
 attinente al merito della decisione, n. 71/1975 e, in particolare, n.
 19/1978, punto 3, ove e' coerentemente riconosciuta la legittimazione
 addirittura al giudice relatore, singolo componente di un collegio) e
 le non poche pronunce - riconducibili alla medesima categoria  -  con
 cui  sono  state  dichiarate ammissibili varie questioni in base alla
 espressa considerazione che, diversamente, le disposizioni denunciate
 non  avrebbero  mai  potuto  essere  assoggettate  al  controllo   di
 costituzionalita'  (si  confrontino le sentenze n. 226/1976, punto 3,
 n. 8/1979, n.  17/1980,  letta  a  contrariis,  e,  segnatamente,  la
 sentenza  n.  204/1974,  con  la  quale e' stata decisa una questione
 proposta dal giudice di sorveglianza in sede di resa di un parere).
    Nella   fattispecie,   solo   il   "magistrato   istruttore"   da'
 applicazione  alle  disposizioni che ne disciplinano le funzioni. Ne'
 il consigliere delegato ne'  la  sezione  del  controllo  potrebbero,
 infatti,  proporre  la questione di legittimita' costituzionale delle
 stesse norme, in quanto nelle fasi del procedimento, in  cui  operano
 tali  organi  dotati di potere decisionale, le disposizioni de quibus
 hanno gia' esaurito i loro effetti: quando il "magistrato istruttore"
 ha completato l'istruttoria e ha formulato la "proposta informale" al
 consigliere delegato, affinche' assuma la decisione di sua spettanza,
 quest'ultimo   e'   gia'   stato   "coadiuvato"  e  la  questione  di
 costituzionalita' sarebbe, conseguentemente inammissibile per difetto
 di rilevanza. Puo' aggiungersi che, proprio nella posizione  servente
 del  magistrato istruttore nei confronti del consigliere delegato, si
 rinviene  un  ulteriore  elemento  che   conferma   la   carenza   di
 legittimazione  del  consigliere delegato a sollevare la questione di
 legittimita'  costituzionale  delle   denunciate   disposizioni:   la
 "proposta  informale"  dell'istruttore ha una influenza di mero fatto
 sulla decisione del  consigliere  delegato,  il  quale  ben  potrebbe
 legittimamente  decidere  senza  neppure  aver  richiesto l'"ausilio"
 dell'istruttore ovvero, comunque, in assenza di una proposta o di  un
 parere di questo. Le norme impugnate non hanno, dunque, quell'effetto
 giuridicamente rilevante sulla decisione del consigliere delegato che
 renda  la  soluzione  della  questione di legittimita' costituzionale
 delle   stesse   una   pregiudiziale   necessaria    rispetto    alla
 determinazione da assumere. A maggior ragione la Corte costituzionale
 non   potrebbe  essere  investita  del  giudizio  dalla  seziome  del
 controllo, che interviene - eventualmente - nel procedimento  in  una
 fase ancora successiva.
    Deve   concludersi,   che   essendo  tenuto  solo  il  "magistrato
 istruttore" ad  applicare  le  disposizioni  denunciate  e  mancando,
 comunque,  un  qualsivoglia  effetto  giuridico  di tale applicazione
 sulla decisione che "definisce" il procedimento di controllo, solo il
 medesimo "magistrato istruttore" e' legittimato -  sotto  il  profilo
 della   rilevanza   -  a  promuovere  la  questione  di  legittimita'
 costituzionale delle norme in parola.
     B) A fondare la legittimazione del remittente  soccorre,  infine,
 un'ulteriore  diversa considerazione: la mancanza di potere decisorio
 del magistrato istruttore che, secondo il criterio  generale  innanzi
 esposto,  impedirebbe  a  questo magistrato di sollevare questioni di
 costituzionalita', deriva  proprio  dalle  norme  delle  quali  viene
 denunciato  il  contrasto  con diversi principi costituzionali. Se le
 disposizioni de quibus non limitassero  le  funzioni  dei  magistrati
 preposti o addetti agli uffici di controllo a quelle di coadiutori di
 altri  magistrati e, prevedessero, invece, in armonia con i ricordati
 principi costituzionali di indipendenza dei  magistrati  e  di  buona
 amministrazione,  la  competenza  di  tutti  i  magistrati addetti al
 controllo ad assumere direttamente le decisioni  dei  casi  trattati,
 non  difetterebbe  in capo ad essi quel requisito che - ricorrendo le
 note ulteriori condizioni - legittima la proposizione di questioni di
 costituzionalita'.
    Si vuole evidenziare che la soluzione della presente questione  di
 legittimita'  costituzionale  potrebbe esplicare influenza sui poteri
 decisori  del  giudice   remittente,   circostanza   che   la   Corte
 costituzionale  ha  mostrato  di ritenere "sostitutiva" del requisito
 dell'attuale  sussistenza  di  potere  decisorio  del  giudice.  Tale
 equiparazione   emerge   dalla  sentenza  n.  8/1979,  sviluppando  a
 contrariis il motivo di inammissibilita' di cui ai punti 4 e 5  della
 stessa:  in  quella  ipotesi  la Corte costituzionale aveva, infatti,
 ritenuto non legittimato il giudice remittente in quanto  lo  stesso,
 privo  di  poteri decisori (punti 3 e 4 della medesima sentenza), non
 aveva neppure prospettato una questione,  la  cui  soluzione  potesse
 avere effetti sui suoi stessi poteri.
    7.  - Sulla base di quanto sopra evidenziato il remittente ritiene
 costituzionalmente illegittime per violazione degli artt.  97,  primo
 comma,  101,  secondo comma, 107, terzo comma, e 108, primo e secondo
 comma, della Costituzione le disposizioni di cui all'art.  22,  primo
 comma, del r.d. n. 1214/1934 e agli artt. 7, primo comma, e 11, primo
 e  secondo  comma,  della  legge  n.  1345/1961,  nella  parte in cui
 prevedono, quali componenti degli uffici di controllo della Corte dei
 conti dei magistrati in posizione servente sia fra loro che  rispetto
 al  consigliere  delegato,  anziche'  prevedere,  in  armonia  con  i
 richiamati precetti costituzionali, per un verso, la pari ordinazione
 - relativamente alla funziome del controllo - di tutti  i  magistrati
 assegnati all'ufficio e, per altro verso, l'attribuzione (implicita o
 esplicita)   al   magistrato   dirigente  dei  compiti  di  direzione
 dell'ufficio,  ripartizione  preventiva  del  lavoro   tra   i   vari
 magistrati,  organizzazione amministrativa e vigilanza sull'andamento
 generale dei servizi, in analogia, ad esempio, all'ordinamento  delle
 preture  ripartite  in  sezioni  (si  richiama sul punto - trovandosi
 curiosamente l'analogia di situazione rispecchiata anche,  in  parte,
 nella    similare    anacronisticita'    del    testo   normativo   -
 l'interpretazione, resa dalla Corte costituzionale con le sentenze n.
 80/1970, punto  6,  e,  segnatamente,  n.  143/1973,  punti  3  e  4,
 dell'art.  34,  primo  comma,  del  r.d.  30  gennaio  1941,  n.  12,
 contenente una espressione del tutto analoga alla formula  utilizzata
 per  le  norme denunciate con la presente ordinanza: "i magistrati in
 sottordine  coadiuvano  il  titolare   nell'adempimento   delle   sue
 funzioni").  Ne'  potrebbe  porsi  il problema di un eventuale "vuoto
 legislativo",    quale    conseguenza    della    declaratoria     di
 incostituzionalita'  delle  disposizioni impugnate, in quanto gia' il
 legislatore fin dal 1862 ha - nella sua discrezionalita'  -  ritenuto
 adeguato  all'esercizio  della  funzione  del controllo preventivo di
 legittimita' un organo monocratico con  il  solo  temperamento  della
 previsione,   in   delimitate   ipotesi,  dell'intervento  di  organi
 collegiali (sezione del  controllo  e  sezioni  riunite  in  sede  di
 controllo).