IL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Ha pronunciato, in camera di consiglio, la seguente ordinanza nel procedimento disciplinare n. 57/81 del registro generale a carico del dott. Giuseppe Renato Croce (nato a Foggia il 3 novembre 1939) magistrato di appello con funzioni di pretore di Tivoli, su rinvio dalle sezioni unite civili della suprema Corte di cassazione, per sentenza 11 gennaio-6 aprile 1991. Con sentenza del 9 febbraio 1983, la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, infliggeva la sanzione della censura al dott. Giuseppe Renato Croce, pretore in Tivoli, e la sentenza diveniva successivamente irrevocabile, avendo le sezioni unite della Corte di Cassazione, rigettato il ricorso. Il Croce, con istanza del 1ยบ luglio 1986, chiedeva al Consiglio la concessione della riabilitazione, ma la sezione disciplinare la rigettava, ritenendo inapplicabile ai magistrati sia la riabilitazione prevista dall'art. 178 del codice penale, sia l'istituto previsto per gli impiegati civili dello Stato dall'art. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3. Il Croce proponeva allora ricorso per Cassazione, e le sezioni unite civili - sulle difformi conclusioni del p.g. - con sentenza dell'11 gennaio 1991, hanno cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa per nuovo esame alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, fissando il seguente principio di diritto: "Poiche', ai sensi del terzo comma dell'art. 276 del r.d.-l. 31 maggio 1946, n. 511, sono applicabili ai magistrati le disposizoni generali relative agli impiegati dello Stato, che non siano contrarie ai regolamenti dell'ordinamento giudiziario, la riabilitazione, prevista dall'art. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, e' applicabile ai magistrati, costituendo un istituto di carattere generale che non si pone in contrasto ne' con le norme dell'ordinamento giudiziario, ne' con lo status riconosciuto ai giudici". Questa sezione dovrebbe quindi chiedere il parere del consiglio giudiziario, e dichiarare eventualmente la riabilitazione del magistrato. Peraltro sussistono motivi per dubitare della legittimita' costituzionale delle norme in esame. Va rilevato che manca ogni contraria interpretazione della suprema Corte e, tenuto conto sia della vincolativita' del principio di diritto per il giudice di rinvio, sia soprattutto della circostanza che l'estensione ai magistrati, di norme di favore dettate dal legislatore per i procedimenti disciplinari degli impiegati civili dello Stato, costituisce ormai una consolidata linea interpretativa (v. sentenza s.u. 7 gennaio 1976, n. 10, sull'estensione ai magistrati di norme sulla revisione previste dall'art. 121 del testo unico per gli impiegati dello Stato e n. 647/1990 delle s.u. relativa all'estensione del condono concesso agli impiegati civili dello Stato con legge n. 198/1986), la interpretazione delle sezioni unite deve ritenersi diritto vivente. Non e' in alcun modo controverso in dottrina e nella giurisprudenza (inclusa quella della Corte costituzionale), che il giudice di rinvio possa sollevare questione di legittimita' costituzionale della norma indicata nel principio di diritto. Ritiene la sezione che, tra i possibili significati del combinato disposto degli artt. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, nn. 3 e 276, del r.d.-l. 31 maggio 1946, n. 511, quello accolto dalle sezioni unite, possa essere viziato da illegittimita' costituzionale sotto diversi profili: per contrasto con gli artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, e 105 della Costituzione, nella parte in cui mediante adattamenti procedimentali, attribuisce competenza al consiglio giudiziario ad emettere un parere vincolante per un organo, quale la sezione disciplinare, avente natura giurisdizionale, e per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui la predetta interpretazione equipara irragionevolmente situazioni profondamente diverse. Va premesso che la suprema Corte ammette che l'istituto della riabilitazione non e' direttamente contemplato nell'ordinamento giudiziario, e che del pari inapplicabili sono le speciali riabilitazioni previste dal codice penale (artt. 178 e 179), dal codice civile (art. 466), della legge fallimentare (artt. 142 e 143 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267), ma si sofferma, poi, sul procedimento riabilitativo previsto dall'art. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, ritenendolo "istituto di carattere generale". Tale ultima affermazione sembra opinabile, perche' la norma citata suona testualmente: "Trascorsi due anni dalla data dell'atto con cui fu inflitta la sanzione disciplinare e sempre che l'impiegato abbia riportato nei due anni la qualifica di 'ottimo', possono essere resi nulli gli effetti di essa, esclusa ogni efficacia retroattiva, e possono, altresi', essere modificati i giudizi complessivi riportati dall'impiegato dopo la sanzione ed in conseguenza di questa. Il provvedimento e' adottato con decreto ministeriale, sentiti il consiglio di amministrazione e la commissione di disciplina". La Corte di cassazione, tuttavia, non si nasconde affatto la evidente difficolta' di adattamento della riabilitazione prevista dall'art. 87 al di fuori dell'ordinamento per gli impiegati civili dello Stato, quantomeno per l'inesistenza della "qualifica annuale", dei giudizi analitici espressi nelle "note caratteristiche" (rispetto ai quali la qualifica, ai sensi dell'art. 42 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, e' la "sintesi complessiva"), ma ritiene che la mancanza, per i magistrati, di tale sistema di valutazioni non sia l'ovvia conseguenza della strutturazione dell'ordinamento giudiziario rispetto a valori costituzionali particolari cui deve essere improntato lo status del magistrato, e interpreta la mancanza dell'istituto della riabilitazione nell'ordinamento giudiziario come una sorta di accidentale vuoto normativo, colmabile in via interpretativa. Dal punto di vista strettamente tecnico-ermeneutico la sezione non contesta, in astratto, il potere del giudice - ed in primo luogo della suprema Corte - di colmare le "lacune dell'ordinamento", sia che si faccia ricorso all'analogia (come prevista dall. 12 cpv. delle preleggi, ed elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza), sia che - come sembra in realta' aver fatto la suprema Corte nella sentenza in esame - si ricorra al concetto moderno di "interpretazione adeguatrice" della legge alla Costituzione. Secondo entrambi i criteri (peraltro integrabili tra loro, perche' la norma costituzionale entra all'interno del sistema normativo in posizione dominante come "principio dell'ordinamento"), l'interprete si deve comunque arrestare alla conseguenza estrema del rispetto della ripartizione di competenza delineato dalla Costituzione, anche nella posizione del principio di diritto ad opera della Cassazione. La "riserva di giurisdizione" contenuta nell'art. 101 della Costituzione, impedisce alla fonte normativa di invadere lo spazio idealmente riservato alla giurisdizione, ma impedisce correlativamente a quest'ultima di assumere i connotati sostanziali della normazione. Come e' stato autorevolmente osservato "il processo che va dalla posizione del precetto alla sua concreta applicazione giudiziale (dall'universale, cioe', della norma, al particolare della sentenza) si rivela, pertanto, dominato da questa rigorosa 'doppia riserva'. Se, quindi, dal combinato disposto degli artt. 101, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione puo' evincersi la possibilita' che un qualunque giudice - in principio soggetto 'soltanto' alla legge - sia tenuto a far propria una enunciazione della Cassazione, dallo stesso collegamento interpretativo, deve ricavarsi la necessita' che tale enunciazione presenti i contrassegni strutturali (ed i conseguenti limiti di efficacia) dell'atto giurisdizionale". (A. D'Atena, La liberta' interpretativa del giudice e l'intangibilita' del punto di diritto enucleato dalla Cassazione, in Giur. cost., 1970, 563 e segg.). Nonostante la crescente enfatizzazione del "ruolo creatore" della giurisprudenza, derivante dalla "crisi del diritto" come norma preventivamente posta da un'autorita' esterna al rapporto da regolare ed orientata ad "una visione casistica del diritto come composizione dialogica del conflitto di interessi, attraverso il contributo delle parti (il c.d. droit controversial)", nessuno dubita che i princi'pi della soggezione del giudice alla legge e della funzione meramente applicativa della giurisprudenza "continuano ad operare sul piano degli schemi giuridici" e che dottrine come quelle sopracitate devono fare i conti con il principio di soggezione del giudice alla legge e "si prestano a diversa valutazione a seconda dei settori dell'ordinamento in cui vogliono farsi operare: per esempio, non e' la stessa cosa il diritto penale in cui vige il principio di stretta legalita', e il diritto familiare, il diritto delle locazioni, o il diritto sindacale, dove la legge stessa attribuisce al giudice un ruolo di equilibrio tra gli interessi in gioco". (G. Zagrebelsky, Manuale, vol. I, 91). Orbene, la materia in esame e' assoggettata dall'art. 108, primo comma, della Costituzione alla riserva di legge. Ma la Corte di cassazione, nel procedere ad "interpretazione adeguatrice" prescrive "quegli adattamenti in mancanza dei quali la norma dell'art. 276 dell'ordinamento giudiziario finirebbe col risultare priva di concreta portata giuridica", ed afferma che alla qualifica annuale di "ottimo", inesistente per i magistrati, ed evidentemente anche il parere del "consiglio d'amministrazione", vada equiparato un "parere del consiglio giudiziario", richiesto ad istanza dell'interessato o d'ufficio, dalla sezione disciplinare cui sia stata presentata la richiesta di riabilitazione. La portata di tali "adeguamenti" costituisce, in realta', una integrazione a carattere normativo in materia riservata al legislatore, e suscita gravi perplessita' sotto piu' profili. Sotto l'aspetto sostanziale va rilevato che, a norma dell'art. 87, la speciale riabilitazione ivi prevista e' provvedimento discrezionale, ed attiene quindi alla categoria dei provvedimenti amministrativi di revoca per motivi di opportunita': funzionale a questa qualificazione e' il prescritto parere del consiglio di amministrazione, massimo organo collegiale dell'ordinamento delle singole amministrazioni. E' evidente che i criteri a cui il consiglio di amministrazione, la commissione di disciplina ed il Ministro debbono attenersi nel concedere o negare il provvedimento, sono in stretta relazione con l'art. 97 della Costituzione, ed in primo luogo con il principio del "buon andamento dell'amministrazione". La valutazione dovrebbe quindi comparare l'interesse dell'istante, la gravita' della violazione rispetto al pubblico interesse perseguito dall'amministrazione, e la conseguenza che la riabilitazione avrebbe sull'ordine, disciplina, produttivita' del lavoro negli uffici. Ma, poiche' la natura giurisdizionale dei provvedimenti della sezione disciplinare, piu' volte ribadita dalla Corte costituzionale, non puo' essere una mera formula vuota di significato, e' evidente che la sezione non puo' che applicare le regole proprie della giurisdizione, rispetto alla quale si e' sempre dubitato che, (salvo che nel campo della volontaria giurisdizione), possa parlarsi di vera e propria 'discrezionalita'' del giudice, anche quando i poteri di questi appaiono amplissimi. (Raselli, Il potere discrezionale del giudice; Satta, Diritto processuale civile, p. 751). Si e' osservato che, persino in materia di determinazione della pena, i parametri previsti dall'art. 133 del c.p. impongono un accertamento di fatto (per quanto complesso ed opinabile), su tutte le componenti, anche soggettive, del reato. L'assenza di discrezionalita' e' comunque palese nella giurisdizione della sezione disciplinare, per la quale le regole di giudizio espressamente richiamate dalla legge sono quelle previste nel codice di procedura penale. Il "principio di diritto" enunciato dalle s.u. non dice, esplicitamente, se la sezione disciplinare, in caso di parere favorevole del consiglio giudiziario, possa o debba concedere la riabilitazione, ma non sembra dubbio che, non esistendo alcun criterio normativo a guidarne la scelta, la riabilitazione diviene un diritto soggettivo di chi abbia riportato una sanzione disciplinare, una volta che abbia ottenuto il parere favorevole del consiglio giudiziario, come avviene infatti, per la riabilitazione prevista dagli artt. 178 e 179 del codice penale, che configurano tale provvedimento come diritto soggettivo del condannato. Dunque l'interpretazione accolta dalle sezioni unite, piu' che estendere anche ai magistrati la riabilitazione speciale prevista dall'art. 87 del d.P.R. n. 3/1957, sembra aver creato una forma di "riabilitazione speciale" configurabile come diritto soggettivo di chi abbia riportato una sanzione. Sotto il profilo piu' evidente, quello procedimentale, le sezioni unite hanno in sostanza dettato una disciplina normativa che non ha alcuna attinenza con le qualifiche ed i pareri (discrezionali) previsti per gli impiegati civili dello Stato, e che prescrive invece, alternativamente, al sanzionato o alla sezione, di richiedere un parere vincolante al consiglio giudiziario. A tale proposito, si impongono le seguenti considerazioni: a) indipendentemente dalla natura delle funzioni e dal suo carattere elettivo, il consiglio giudiziario non e' un organo ausiliario della sezione disciplinare, ma semmai del consiglio superiore, rispetto al quale la sezione ha una sua autonomia, ribadita anche dalla Corte costituzionale. La sentenza delle sezioni unite viene, quindi, a conferire una competenza in materia disciplinare al consiglio giudiziario; b) il sistema disciplinare e', quanto alle forme, un sistema teoricamente completo, attraverso il rinvio, in quanto compatibili, alle norme del codice di procedura penale approvato con r.d. 19 ottobre 1930, n. 1399 (artt. 32 e 34 della legge sulle guarentigie): norma anch'essa implicitamente modificata dal principio di diritto delle sezioni unite. Il rinvio alle norme del codice di procedura penale abrogato imporrebbe, infatti, di chiedere solo il parere del procuratore generale sull'istanza: viceversa la sezione ha l'obbligo di richiedere (o quanto meno di acquisire) il parere del consiglio giudiziario competente sul comportamento del magistrato nel biennio successivo a quello della irrogazione della sanzione. Anche a ritenere compatibile la riabilitazione prevista dall'art. 87 del d.P.R. n. 3/1957, e surrogabile l'assenza di qualifiche annuali, una soluzione che salvasse la discrezionalita' del provvedimento e utilizzasse un parere del consiglio giudiziario, si sarebbe potuto ravvisare nell'attribuire la competenza al plenum del C.S.M. in quanto organo investito anche di funzioni amministrative rispetto alle quali i consigli giudiziari si pongono come organi ausiliari di autogoverno. Ma cio' e' certamente escluso dalla s.C., per il fatto stesso che ha posto un principio di diritto al giudice della deontologia dei magistrati; c) le sezioni unite prendono atto che gli effetti che la legge attribuisce alla riabilitazione prevista per gli impiegati civili dello Stato (modifica dei giudizi riportati a seguito della sanzione, possibilita' di ottenere le promozioni ritardate per effetto della stessa, recupero degli scatti di anzianita' perduti) non si verificano per i magistrati, ma concludono in tali termini: "La riabilitazione, pur non potendo determinare, come per gli impiegati civili, la modifica dei giudizi complessivi .. non essendo questi prescritti dall'ordinamento giudiziario, fa cessare la coseguenza negativa delle pene disciplinari e, quindi, oltre a soddisfare un innegabile interesse morale del beneficiato, opera sulle stesse, annullando, in particolare nel caso della censura, che e' la sanzione inflitta al ricorrente, l'effetto dell'ineleggibilita' a componente del Consiglio superiore della magistratura, posto dall'art. 24 dell'ordinamento giudiziario, a carico dei giudici che ad essa siano stati sottoposti nel decennio .. Inoltre, della riabilitazione concessa, il Consiglio superiore deve tenere conto in sede di progressione in carriera, di trasferimento e di conferimento degli incarichi direttivi ..". E' evidente, a questo punto che le sezioni unite non hanno esaminato quali siano gli effetti della riabilitazione prevista dall'art. 87 del d.P.R. n. 3/1957, e quali di essi siano compatibili con lo status di magistrato a sensi dell'art. 276 dell'ordinamentogiudiziario, ma introdotto un diverso istituto recante lo stesso nome di riabilitazione nellordinamento giudiziario, attribuendogli effetti tipici e non previsti dall'art. 87 (cosa particolarmente chiara per quanto riguarda l'ineleggibilita' al Consiglio superiore della magistratura). La sezione non ignora che, particolarmente in tema di norme c.d. di favore, nel nostro ordinamento esiste la possibilita' di ravvisare una lesione del principio di eguaglianza selezionando, all'interno di una previsione normativa, i soli precetti compatibili con il diverso sistema al quale si ritiene debba essere estesa la norma, anche dettando gli opportuni adattamenti che divengono, cosi' norme integrative dell'ordinamento. Ma tale possibilita', nel nostro sistema, e' consentita solo alla Corte costituzionale, con le c.d. "sentenze manipolative", per la precisa ragione che le sentenze della Corte entrano a pieno titolo tra le fonti del diritto sotto piu' profili (dall'annullamento della disposizione di legge al carattere vincolante della interpretazione della Corte per il giudice), mentre al giudice e' consentita solo un'interpretazione adeguatrice, che non richieda "adattamenti" normativi. Certo la sezione, attesa la particolare efficacia attribuita dalla legge (art. 384 del c.p.c.) al principio di diritto enunciato dalla Cassazione, deve considerare certa (perche' non discutibile) l'interpretazione enucleata, e conseguentemente ricompresi nella legge il significato e gli "adattamenti" forniti nonostante la stessa formulazione letterale della sentenza che parla della necessita' di "adattamenti". Ma in definitiva (nonstante le piu' ampie riserve sulla rispondenza della sentenza delle s.u. in esame agli schemi logici della categoria dell'interpretazione nella parte in cui detta "adattamenti" procedimentali e attribuisce competenza ad organi pubblici in materia assistita da riserva di legge) va rilevato che l'attribuzione alla sezione disciplinare del potere di pronunciare la riabilitazione per i magistrati, per quanto gia' accennato, trasforma un interesse legittimo in diritto soggettivo e rende il provvedimento della sezione vincolato rispetto al parere del consiglio giudiziario. E' infatti del tutto improprio ritenere che il parere di tale organo surroghi, per i magistrati, la qualifica annuale, il parere del consiglio d'amministrazione e quello del consiglio di disciplina. Nell'ordinamento degli impiegati civili dello Stato la qualifica di "ottimo" nel biennio successivo al fatto costituente un illecito disciplinare e il parere favorevole alla riabilitazione dei due organi predetti non toglie al Ministro la sua piena discrezionalita', che si traduce nel contemperamento tra interesse del riabilitando ed interesse al buon andamento degli uffici. Viceversa dalla particolare natura giurisdizionale del procedimento disciplinare per i magistrati, modellato sul processo penale, deriva la conseguenza che la sezione non e' titolare di poteri discrezionali: di fronte ad un parere favorevole del consiglio giudiziario, infatti, il giudice della deontologia non ha altra strada che pronunziare la riabilitazione (salvo il generale potere di disapplicazione per meri vizi di legittimita'). Con l'ulteriore antinomia che deriva dalla circostanza che il consiglio giudiziario non perde, tuttavia, il suo carattere amministrativo, ed esprimerebbe, quindi, in tale materia, un parere sul merito (in senso amministrativo), vincolante per un'autorita' giurisdizionale. Tale ricostruzione e' pero' lesiva sia delle prerogative che competono alla sezione in quanto organo giuridizionale (ed in particolare dell'indipendenza come contenuto essenziale della soggezione alla sola legge prevista dall'art. 101, secondo comma, e dell'indipendenza ordinamentale sancita dall'art. 104, primo comma, della Costituzione), sia dell'attribuzione esclusiva al Consiglio superiore (attraverso la sezione) della materia disciplinare ad opera dell'art. 105, che non sembra compatibile con la possibile vanificazione delle sentenze della sezione disciplinare ad opera di un organo amministrativo. Sembra, quindi, che in relazione agli artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, e 105 della Costituzione non sia infondato il dubbio sulla legittimita' costituzionale degli artt. 87 del d.P.R. n. 3/1957 e 276 dell'ordinamento giudiziario, nel significato loro attribuito dalle sezioni unite della Corte di cassazione. Sotto il secondo profilo, quello relativo al principio di eguaglianza, la sezione ritiene che l'esclusione dei magistrati dalla riabilitazione prevista dall'art. 87 piu' volte citato non violerebbe affatto l'art. 3 della Costituzione, e quindi, contrariamente a quanto afferma la sentenza delle sezioni unite, qui recepita come diritto vivente, possa essere la equiparazione tra magistrati ed impiegati a ledere il principio di eguaglianza, che impone di disciplinare in modo diverso situazioni profondamente diverse. Soccorrono a tale opinione due linee argomentative, strettamente collegate. La prima ravvisa sul piano formale, una evidente diversita' tra il sistema di sanzioni disciplinari esistente per il pubblico impiego (di natura amministrativa e con garanzie assai piu' limitate) e un sistema disciplinare che adotta le garanzie del processo penale, si conclude con sentenza, prevede un'impugnazione alle sezioni unite, un procedimento di revisione della sentenza modellato sull'omonimo istituto previsto dal c.p.c. Tutto il procedimento disciplinare per i magistrati e' ispirato ad un rigido garantismo che - al di la' del tenore formale degli artt. 32 e 34 della legge sulle guarentigie - estende le norme del processo penale anche in tema di regole di giudizio e di valutazione della prova, in funzione dell'esigenza di tutela dell'innocenza del magistrato, ma anche del suo prestigio in quanto rappresentante dell'ordine giudiziario, e della sua indipendenza interna ed esterna. Eguale siginificato ha la stessa doppia titolarita' dell'azione disciplinare (v. Corte costituzionale sentenza n. 12/1971). In realta', una valutazione complessiva dei due sistemi e' necessaria non solo per il giudizio di compatibilita', ex art. 276 ordinamento giudiziario, di singole norme dettate per uno solo dei due, ma anche per comprendere la ragione di fondo dei singoli istituti e quindi la fondatezza di un'interpretazione adeguatrice che faccia leva sull'art. 3 della Costituzione. Altrimenti, funzionando il rinvio dell'art. 276 a senso unico in direzione dell'estensione delle sole norme di favore ai magistrati, si finisce per creare un sistema che cumula tutte le garanzie e tutti i benefici, esclusivamente per i magistrati in quanto tali, anziche' dei sistemi razionalmente diversi perche' funzionali a principi costituzionali diversi. Va infatti rilevato, con riferimento al sistema sanzionatorio, che per gli impiegati dello Stato gli artt. 80, 81 e 84 dello statuto, prevedono sanzioni quali la riduzione dello stipendio, la sospensione della qualifica e la destituzione, come conseguenza di determinate violazioni; a cio' e' correlato un regime diverso della revisione (art. 121 del testo unico), che consente tale istituto anche in presenza di prove di un illecito meno grave. Viceversa, il sistema sanzionatorio previsto per i magistrati prevede un'unica norma (l'art. 18 della legge sulle guarentigie), alla quale, secondo la gravita' della violazione, possono conseguire le sanzioni dell'ammonimento, della censura, della perdita di anzianita', della rimozione, della destituzione conseguente a condanna penale, e la sanzione (cumulabile con tutte quelle piu' gravi dell'ammonimento), del trasferimento d'ufficio, nonche' la possibilita' di dispensa dal servizio anche in caso di proscioglimento, qualora risulti che il magistrato ha perso, nell'opinione pubblica, la considerazione e la fiducia richieste dalla sua funzione. Tali differenze attengono a ragioni di fondo espresse negli artt. 101, 107, 104 e 105 della Costituzione, che sono alla radice sia della giurisdizionalizzazione del settore disciplinare, sia della particolare configurazione del rapporto di pubblico impiego del magistrato. Occorre dunque, passare ad una riflessione sul significato di tali differenze. La legge sulle guarentigie, proprio per ripristinare l'indipendenza della magistratura, si preoccupo' di smantellare tutte le norme piu' vistosamente incompatibili con l'indipendenza della magistratura, ed affermo' per la prima volta il carattere giurisdizionale del procedimento, attribuendo alle decisioni il nome di sentenza. La Costituzione ha poi accentuato le particolarita' funzionali dello status del magistrato. La giurisdizionalita' della sezione disciplinare e' poi stata ribadita dalla Corte costituzionale, con le sentenze 30 dicembre 1961, n. 76; 30 aprile 1968, n. 44; 2 febbraio 1971, n. 12; 8 giugno 1981, n. 100, sostanzialmente con la motivazione che la soggezione dei magistrati alla sola legge comporta che, nei loro confronti, il potere disciplinare non sia fondato (come avviene, invece, per gli altri pubblici dipendenti) sul rapporto di supremazia speciale spettante alla amministrazione di appartenenza, poiche' la giurisdizione non afferma un fine suo proprio (come avviene per l'amministrazione), ma tutela direttamente i valori dell'ordinamento giuridico-generale dello Stato. Ne consegue che anche la sezione disciplinare, proprio perche' riafferma questo valore deontologico di tutela dei valori dell'ordinamento giuridico, si differenzia profondamente dai vari organi disciplinari costituiti in seno alla pubbliche amministrazioni, per inserirsi nell'ambito della giurisdizione. Cio' spiega le numerose particolarita' degli aspetti, anche sanzionatori, del procedimento disciplinare previsto per i magistrati, quali l'integrazione giurisprudenziale dell'unica fattispecie sostanziale, in funzione dei particolari caratteri del rapporto di servizio, la relativa non sindacabilita' del merito dei provvedimenti giurisdizionali (non assimilabili al risultato concreto dell'adozione amministrativa del pubblico impiegato), il rilievo dato al trasferimento d'ufficio ed alla rimozione, o perfino alla destituzione senza colpa in funzione della credibilita' della giurisdizione: se il magistrato esercita un potere diffuso, in condizioni di indipendenza funzionale e rappresenta nei suoi atti interamente e personalmente l'ordine giudiziario, tanto da essere abilitato a promuovere personalmente conflitto di attribuzione, e' evidente che ha doveri particolarmente intensi di credibilita' e di obiettivita'. Infine, la sostanziale assenza di sanzioni economiche e di carriera e' del tutto correlata alla ristrutturazione delle carriere introdotta dalle leggi nn. 570/1966 e 831/1973. Tornando, allora, alla riabilitazione prevista dall'art. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, ed ai suoi effetti (sopra indicati), sembra chiaro che l'assenza delle qualifiche annuali dei dirigenti gli uffici, e' funzionale, per i magistrati, al valore dell'indipendenza interna, mentre la loro previsione, per gli altri impiegati, e' espressione di rapporto gerarchico. Il rapporto di pubblico impiego ha come norma costituzionale di riferimento l'art. 97 della Costituzione, compatibile con un'organizzazione gerarchica per assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione. Il pubblico funzionario e' chiamato continuamente a comparare interessi diversi, mentre tale comparazione, per il giudice, e' normalmente esclusa nell'esercizio della giurisdizione, salvo particolari ipotesi in cui, in alcune materie, una comparazione limitata e predeterminata di interessi gli e' devoluta dal legislatore. Ad esempio, in materia di diritto di famiglia, il giudice deve comparare l'interesse dei genitori con quello, prevalente per legge, del minore: ma si tratta pur sempre di interessi che egli contempera, senza esserne esponezialmente portatore. Viceversa, normalmente il magistrato adotta provvedimenti doverosi, come nel caso dell'esercizio obbligatorio ed irretrattabile dell'azione penale per il pubblico ministero, e della doverosita' della decizione per il giudice. D'altro canto, la possibilita' di rimuovere gli effetti della ritardata progressione in carriera, anche in dipendenza della sanzione disciplinare, e' prevista, per i magistrati, in via generale, con il procedimento di riesame dopo un triennio, su parere del consiglio giudiziario (artt. 2 della legge n. 570/1966 e legge n. 831/1973), ed attuata non da organi gerarchicamente sovraordinati (quali il consiglio di amministrazione), od a carattere amministrativo-disciplinare (quali la commissione di disciplina), ma dal plenum del Consiglio superiore della magistratura, cui e' attribuita dall'art. 105 della Costituzione. Prevedere, in via analogica, che vi proceda la sezione disciplinare in sede di riabilitazione sembra, dunque, da un lato irragionevole, dall'altro lesivo di attribuzioni che la Costituzione devolve al Consiglio superiore della magistratura nel suo complesso, in funzione della loro natura amministrativa. Nel particolare rapporto di pubblico impiego previsto per i magistrati esistono, dunque, strumenti analoghi a quello della riabilitazione, che consentono di rimuovere gli effetti della sanzione disciplinare sulla progressione in carriera e sui tramutamenti dei magistrati, nei tempi e con le modalita' determinati dal legislatore, in funzione della particolarita' del rapporto di servizio. Disposizioni che invece - al di fuori dell'ipotesi eccezionale della riabilitazione - mancano, in via generale, nel rapporto di pubblico impiego: non si ravvisa, quindi, alcuna lesione del principio di eguaglianza ai danni dei magistrati, ai quali si farebbe viceversa, un trattamento di irrazionale maggior favore estendendo loro anche i benefici del provvedimento riabilitativo. Ma le sezioni unite, nel generico riferimento degli effetti della riabilitazione sui "trasferimenti", potrebberpo includere anche la sanzione accessoria del trasferimento d'ufficio; inoltre indicano due ulteriori effetti negativi della sanzione disciplinare, che la riabilitazione potrebbe rimuovere: il mancato conferimento di incarichi direttivi, e l'ineleggibilita', per dieci anni, al Consiglio superiore della magistratura. Quanto al trasferimento d'ufficio, occorre rilevare che esso non deriva automaticamente dalla gravita' della sanzione, bensi' da una perdita di credibilita' che puo' essere, o meno, connessa all'illecito commesso: infatti allo stesso provvedimento si puo' pervenire, indipendentemente dal procedimento disciplinare, in base all'art. 2 della legge sulle guarentigie. L'istituto trova spiegazione proprio in quella necessita' di particolare affidabilita' correlativa, da un lato, alla indipendenza esterna del magistrato e dall'altro all'inamovibilita', che impone almeno il limite dell'interesse generale alla credibilita' dell'ufficio: affidabilita' che si puo' perdere per violazione della deontologia, o per altra causa incolpevole. Prevedere una automatica caducazione degli effetti del trasferimento d'ufficio solo se questo e' conseguente ad una accertata violazione di norme deontologiche (ed e' quindi possibile chiedere la riabilitazione), mentre resterebbero fermi gli effetti del trasferimento d'ufficio senza colpa, suscita gravi perplessita' proprio in relazione a quel principio di egualianza che vieta di trattare in modo piu' grave situazioni in cui il magistrato non versi in colpa. Del resto, lo stesso principio della inamovibilita' formulato dall'art. 107, e' una garanzia funzionale dell'indipendenza, rispetto al sistema precedente che garantiva al Ministro il potere di eseguire trasferimenti punitivi, e contiene quindi, nello stesso testo, deroghe relative al pubblico interesse, nelle quali e' inscrivibile il trasferimento d'ufficio per perdita di credibilita'. L'incompatibilita' ambientale e' il limite dell'inamovibilita' che ne esclude il carattere di privilegio corporativo. Sotto tale aspetto, non e' possibile paragonare tali situazioni eccezionali con il trasferimento dei pubblici impiegati. In relazione al conferimento degli incarichi direttivi, va invece osservato che il dirigente dell'ufficio e' investito irreversibilmente, di un munus publicum che comporta ineludibili esigenze di credibilita' e trasparenza, e che conseguentemente, la scelta richiede particolare ponderazione. Tale situazione e' del tutto al di fuori del concetto di "carriera" e di status: Le sezioni unite, ripetendo una formulazione gia' prospettata dal Consiglio di Stato, del resto, affermano che la riabilitazione impedirebbe di tener conto della sanzione, ma non del fatto storico che l'ha determinata. Cio' appare una spia evidente della difficolta' di attribuire una efficacia alla riabilitazione in ordine ad una attribuzione di poteri esercitati in piena autonomia, che non ha riscontro nella pubblica amministrazione, perche' l'incarico puo' cessare, normalmente solo per spontanea domanda di tramutamento. In- fine, nessuna eadem ratio che giustifichi l'estensione, sembra riscontrabile neppure tra la posizione del pubblico impiegato riabilitato e quella del magistrato ineleggibile per sanzione disciplinare al Consiglio superiore della magistratura: l'ineleggibilita' e', infatti, preclusiva dell'accesso ad un organo di rilevanza costituzionale che ha tra i suoi compiti quello di riaffermare la corretteza deontologica dei magistrati, ed una disciplina di particolare rigore, sembra del tutto razionale. Pertanto la sezione ritiene prospettabile il dubbio di legittimita' costituzionale degli artt. 87 del decreto del Presidente della Repubblica n. 3/1957 e 276 ordinamento giudiziario (in quanto interpretati nel senso che la riabilitazione deve essere concessa anche ai magistrati, dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore, previo parere favorevole del Consiglio giudiziario) per contrasto con gli artt. 3, 101, secondo comma, 104, primo comma, 105, della Costituzione, e ritiene di non poter definire il giudizio indipendentemente dalla risoluzione di tale questione di legittimita' costituzionale.