IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Letti gli atti dell'emarginato procedimento, osserva;
                            FATTO E DIRITTO
    Con   richiesta   del  3-16  maggio  1990,  il  procuratore  della
 Repubblica presso la pretura circondariale di Matera chiedeva che  il
 g.i.p.  di  questo ufficio emettesse decreto penale di condanna, alla
 somma di L. 855.000 di multa (oltre spese processuali), nei confronti
 di Rago Leonardo, generalizzato come in atti, imputato del delitto di
 cui agli artt. 81 cpv., del c.p. e 116, n. 2, del  r.d.  21  dicembre
 1933,  n.  1736,  per  aver  emesso,  in  esecuzione  di  un medesimo
 criminoso, due  assegni  bancari  per  l'importo  complessivo  di  L.
 28.500.000, senza che presso la banca trattaria vi fosse provvista.
    Fatti commessi in Montalbano Jonico, il 15 marzo 1990.
    Questo  giudicante,  premesso  che nella specie non era consentito
 pronunciare sentenza assolutoria ex art. 129  del  c.p.p.,  affermava
 che la richiesta non poteva trovare accoglimento.
    Assumeva, all'uopo, che la pena indicata dal p.m. era incongrua in
 relazione al " .. rilevante importo degli assegni in discussione ..";
 aggiungeva,  anche,  che " .. diversamente qualificando il fatto ..",
 lo stesso doveva essere ritenuto " .. 'caso grave' ex art. 116, primo
 comma, p.p., del r.d. n. 1736/1933, insuscettivo di esser  sanzionato
 con  la sola pena pecuniaria (art. 459, primo comma, del c.p.p.) ..",
 e, quindi, regolato con lo strumento del procedimento per decreto.
    Restituiva, pertanto gli atti al p.m.
    In conseguenza, questi emetteva, in data 1ยบ ottobre 1990,  decreto
 di citazione a giudizio nei confronti del predetto nominativo.
    Integrava  l'orginario editto accusatorio dell'indicazione: "fatto
 grave per l'entita' degli importi disposti".
    Con  atto  depositato  il  2  novembre  1990  l'imputato,  facendo
 riferimento  al  decreto di citazione in questione, chiedeva di esser
 giudicato con le forme del rito abbreviato.
    Fissata, ex art.  160  delle  disp.  att.  del  c.p.p.,  l'udienza
 dinanzi a questo giudicante, la stessa non aveva luogo in quanto, per
 la  sopravvenienza  della  legge  15  dicembre  1990,  n. 386 ("Nuova
 disciplina sanzionatoria degli assegni bancari") e la sospensione  ex
 lege   dei   procedimenti   penali  in  essa  prevista  (disposizione
 transitoria di cui all'art. 11), il  p.m.  trascurava  di  provvedere
 alla  notifica  dell'avviso  ex art. 556, secondo comma, della c.p.p.
 all'imputato.
    Superata la fase di sospensione, del tutto  analoga  richiesta  di
 fissazione  della data d'udienza per il giudizio abbreviato perveniva
 in questo ufficio il 13 luglio 1991.
    A seguito di tanto, il giudicante, il quale si trova  al  contempo
 nella  duplice  veste (tabellare) di sostituto del pretore dirigente,
 titolare dell'ufficio, assente per ferie, ed  in  quella  di  g.i.p.,
 dovrebbe  procedere  (art.  160,  secondo  comma,  disp. att. c.p.p.)
 all'adempimento  richiesto  dal  p.m.  in  sede,  indicando  la  data
 dell'udienza dinanzi a se'.
    Di guisa che, in forza di una rigorosa applicazione delle norme di
 rito  in  materia,  dovrebbe avvenire che questo giudice, il quale ha
 legittimamente rigettato la richiesta di decreto penale del p.m.  per
 motivi   non   strettamente   attinenti   alla   ammissibilita'   del
 procedimento (i quali, se esistenti, avrebbero dovuto precedere  ogni
 altra    diversa    giustificazione   del   rigetto),   ma   relativi
 all'inadeguatezza  della  pena  in  relazione   alla   qualificazione
 giuridica   del   fatto,   e   cioe'   alla  valutazione  del  merito
 dell'imputazione, ed ha, altresi', escluso  di  poter  provvedere  ex
 art.  129  del  c.p.p.,  manifestando  di condividere il giudizio del
 requirente sulla sufficienza della prova per la condanna, per  giunta
 effettuando   una  prospettazione  di  maggiore  gravita'  del  fatto
 medesimo rispetto all'originario livello d'accusa, verrebbe  chiamato
 a pronunciare sentenza, a seguito di richiesta di giudizio abbreviato
 da parte dell'imputato, nel medesimo procedimento.
    Senonche',  il  decidente  ritiene  di  non  poter accogliere e di
 dover, anzi, evitare siffatta eventualita'.
    A tale scopo, unico strumento di legge consentito  consiste  nella
 rimessione   del   problema  al  giudice  delle  leggi  (con  il  che
 s'evidenzia la rilevanza della sollevanda  questione):  la  paventata
 eventualita'  si  pone,  invero,  in  palese contrasto con i principi
 costituzionali d'imparzialita' ed indipendenza del  giudice,  di  cui
 sono  espressione,  in  uno  a quelli in tema di incompatibilita', le
 direttive nn. 67 e 103 dell'art. 2 della legge  n.  81/1987  ("Delega
 legislativa  al  governo  della repubblica per l'emanazione del nuovo
 codice di procedura penale").
    Di guisa che, poiche'  si  e',  nella  specie,  concretizzata  una
 ipotesi  che,  pur se analoga a quelle indicate nell'art. 34, secondo
 comma, del c.p.p., non e' in tale norma - di stretta  interpretazione
 -  contemplata,  non  e' manifestamente infondato ritenere che questa
 confligga con le disposizioni della legge fondamentale  dello  Stato,
 poste  a presidio dei citati principi, e cioe' con gli artt. 25 e 101
 (che    dettando    la    garanzia    della     precostituzione     e
 dell'assoggettamento  esclusivo  del  giudice  naturale  alla  legge,
 postulano i sottostanti requisiti  dell'indipendenza  di  giudizio  e
 della  certezza  che  chi  e'  chiamato  a giudicare sia alieno dalle
 suggestioni di convincimenti formatisi anteriormente ed al  di  fuori
 del  processo), nonche' con gli artt. 76 e 77 della Costituzione (che
 impongono  condizioni  e  limiti  per  l'esercizio   della   funzione
 legislativa da parte dell'esecutivo).
    L'assunto  e'  confortato dalla constatazione che, con sentenza n.
 496 del 15-26 ottobre 1990 (Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale,
 n.  25  del  1990)  la  Corte  costituzionale  ha   gia'   dichiarato
 l'illegittimita'  costituzionale,  per violazione degli artt. 76 e 77
 della Costituzione, in relazione all'art. 2 della legge  16  febbraio
 1987,  n.  81, dello stesso art. 34, secondo comma, del c.p.p., nella
 parte in cui non prevede  tra  le  ipotesi  di  incompatibilita'  ivi
 disciplinate quella del g.i.p. presso la pretura che, decidendo sulla
 richiesta  di  archiviazione  del  p.m.,  abbia ordinato di formulare
 l'imputazione e sia poi chiamato a decidere sul merito  di  questa  a
 seguito di giudizio abbreviato.
    Nella  pronuncia,  e' stato, a sostegno della decisione, osservato
 che:
      1) " .. il regime delle incompatibilita' indicato dalla  (legge)
 delega  risponde  ..  all'esigenza  di  evitare che la valutazione di
 merito  del  giudice  possa  essere  (o  possa  ritenersi  che   sia)
 condizionata   dallo   svolgimento  di  determinate  attivita'  nelle
 precedenti fasi  del  procedimento  o  dalla  previa  conoscenza  dei
 relativi atti processuali. E' ben vero che
 nell'ottica   della  delega,  quale  emerge  dalle  sue  enunciazioni
 espresse, non ogni attivita' precedentemente svolta vale  a  radicare
 l'incompatibilita'.  Ma e' anche vero che il suo sostanziale rispetto
 richiede la verifica della ricorrenza o meno, nei singoli casi, delle
 ragioni che hanno ispirato tali enunciazioni: e cio'  specie  ove  si
 tratti di istituti che la delega non ha direttamente previsto ..";
      2)  "  ..  ordinando  ..  di formulare l'imputazione, il giudice
 delle indagini preliminari compie .. una valutazione non formale,  ma
 di  contenuto,  dei  risultati  delle  indagini  preliminari  e della
 sussistenza delle condizioni necessarie per  assoggettare  l'imputato
 al giudizio di merito ..";
      3)  "  ..  ai fini delle valutazioni sull'incompatibilita' conta
 non  tanto   la   natura   giurisdizionale   dell'atto,   quanto   la
 constatazione che con esso il giudice per le indagini preliminari da'
 ex officio l'impulso determinante alla procedura ..";
      4)  " .. Se si considera che il legislatore delegante ha dettato
 per il processo pretorile una  specifica  direttiva  (n.  103)  sulla
 necessaria  distinzione  fra  funzioni requirenti e giudicanti .. non
 puo' negarsi che demandare il giudizio allo stesso soggetto che lo ha
 promosso disattendendo la contraria opinione del p.m. sia  dissonante
 con tale indirizzo ..";
      5) " .. Nel nuovo sistema .. il rilievo assegnato alla terzieta'
 del  giudice e' stato significativamente accentuato con la previsione
 che il giudice della fase del giudizio non debba conoscere  gli  atti
 compiuti durante le indagini preliminari.
    Una  cosi'  pregnante  garanzia  puo'  indubbiamente  risultare, o
 almeno, apparire, pregiudicata, ove il giudice investito del giudizio
 abbreviato debba valutare la responsabilita'  dell'imputato  partendo
 dagli atti gia' da lui conosciuti ..".
    Orbene,  a  parere  del  decidente, le su riportate argomentazioni
 possono, in questa sede e mutatis mutandis, valere per sostenere  del
 tutto   analoga   affermazione   d'incostituzionalita'  del  ripetuto
 articolo del codice di rito, nella parte in cui non prevede  che  non
 possa partecipare al successivo giudizio abbreviato il giudice per le
 indagini  preliminari  che  abbia  rigettato, per motivi attinenti al
 merito, la richiesta di decreto penale di condanna formulata dal p.m.
    Opinare    altrimenti,    significherebbe     assolutamente     ed
 apoditticamente escludere che lo stesso giudice, chiamato a una nuova
 delibazione - in detta sede - del merito di identica fattispecie gia'
 compiutamente  valutata  alla  stregua dei risultati conclusivi delle
 indagini preliminari (che' la richiesta di decreto penale e' uno  dei
 modi  di  esercizio  dell'azione penle: art. 554, primo comma), possa
 essere, o anche  soltanto  apparire,  condizionato  dalla  precedente
 attivita' giurisdizionale espletata nel medesimo incarto.
    Evidente  e',  poi,  il  carattere contenutistico, e non meramente
 formale, di tale attivita'.
    Basti considerare l'esempio derivante dalla vicenda in esame.
    Non solo la  valutazione  del  giudicante  si  e'  manifestata  in
 termini  di  minor  vantaggio  per l'imputato rispetto all'originaria
 imputazione, ma anche e' stata d'"impulso"  all'attivita'  del  p.m.,
 tant'e'  che  questi, dopo il rigetto della richiesta, ha, in sede di
 emissione  del  decreto  di  citazione  a  giudizio,  fatta   propria
 l'indicazione in ordine alla "gravita'" del fatto.
    E  se  e'  vero  che  appartiene  alle  prerogative del giudice la
 funzione di controllo e di giudizio sull'impostazione accusatoria del
 p.m., funzione che si esprime anche nell'attivita' di  qualificazione
 giuridica  del  fatto, e' anche vero che essa normalmente deve essere
 espressa al momento della decisione e non in una fase anteriore.
    Dovrebbero altrimenti ritenersi consentite,  nei  termini  di  cui
 alla  specie,  le  anticipazioni  di  giudizio,  sia  pur in singolar
 maniera (e contrariamente al caso  contemplato  dall'art.  36,  primo
 comma,   sub   c),   del   c.p.p.,   in   tema   d'astensione)  fatte
 "nell'esercizio" e non al di fuori delle funzioni giudiziarie.
    Cattiva sorte avrebbe in tal modo il principio della terzieta' del
 giudice, di cui sono baluardo, nell'ambito della legge di delega,  le
 direttive in predicato.
    Si   verificherebbe   una   incongruenza  del  sistema,  del  tipo
 evidenziato nella sentenza n. 445/1990 della Corte costituzionale, in
 quanto, mutuando le parole adoperate  dall'alto  consesso  in  quella
 sede,  in  tal  modo " .. si avrebbe la completa inversione dei ruoli
 del pubblico ministero e del  giudice  ..",  e  questi  "  ..  stesso
 dovrebbe  pronunciare .." su di una ipotesi accusatoria, frutto della
 prospettazione  che  proprio  egli  ha,  in  sostanza,  proposta   al
 requirente.
    E'  appena  il  caso,  di  aggiungere che la evidenziata rilevanza
 della  questione  non  viene  meno  sol  perche',  nelle   more   del
 procedimento,  e'  sopraggiunta  la  legge  15  dicembre 1990, n. 386
 ("Nuova disciplina sanzionatoria degli assegni bancari").
    Invero, in essa non solo e' ancora  prevista  quale  reato  (salva
 l'applicazione  dell'art.  2,  terzo comma, del c.p., in relazione ai
 fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge)  l'emissione
 di  assegno  bancario senza provvista (v.: artt. 2 ed 11), ipotesi in
 cui e' individuato - in fatto -  l'addebito  mosso  all'imputato,  ma
 anche vi e' rimasta la previsione della alternativita' della pena.
    Il  che  significa  -  all'evidenza - che e' stato pure conservato
 (tranne che per il caso dell'art. 5, primo comma,  per  il  quale  e'
 sancito  che  la pena accessoria del divieto di emettere assegni deve
 seguire comunque la condanna, anche se alla sola pena pecuniaria)  il
 particolare  rilievo  dei  "casi  gravi" (quale e' stato valutato dal
 decidente quello in esame), che sono i soli suscettibili di  condanna
 alla detenzione.