IL PRETORE
    Sulla  questione  di legittimita' costituzionale proposta dal p.m.
 nel presente  procedimento  penale  a  carico  di  Borella  Francesca
 imputata  del  reato  di  falsa  testimonianza  - art. 372 del c.p. -
 commesso in  Bergamo  il  18  giugno  1991  davanti  ai  giudici  del
 tribunale di Bergamo osserva quanto segue.
                           OSSERVA IN FATTO
    Nel  corso  di indagini di p.g. relative ad una vicenda di assegni
 rubati, Borella Francesca veniva fermata a bordo dell'auto su cui  si
 trovava con Vanin Luca e Cortesi.
    Nell'occasione  -  secondo  quanto  e'  dato  di comprendere dalla
 relazione orale svolta dal p.m. ex art. 483 del c.p.p.,  nonche'  dai
 verbali  di  udienza  del  separato processo penale tutt'ora pendente
 presso il tribunale di Bergamo - essa dichiarava ai carabinieri,  con
 dichiarazioni  raccolte  a  verbale  ex art. 357 del c.p.p., di avere
 ricevuto la droga dal Vanin, conseguentemente imputato del  reato  di
 cessione  di stupefacente. Esaminata in dibattimento quale principale
 teste a sostegno dell'accusa, la Borella negava di avere  mai  inteso
 dire  di  aver ricevuto la droga dal Vanin poiche' la droga era stata
 da lei autonomamente acquistata e pagata  con  danari  propri,  cosi'
 ritrattando le dichiarazioni accusatorie rese alla p.g. Veniva quindi
 sospeso  il  procedimento a carico di Vanin Luca e trasmessi gli atti
 alla procura presso la pretura perche' procedesse nei confronti della
 Borella  stavolta  in  qualita'  di  imputata  del  reato  di   falsa
 testimonianza.
    Nel  giudizio  oggi  pendente  davanti  a  questo  pretore il p.m.
 richiedeva l'esame del teste maresciallo Palma quale  unica  prova  a
 sostegno  dell'accusa,  esseno  state  le prime dichiarazioni rese al
 maresciallo  dei  carabinieri  in  assenza  di  altri  testimoni;  la
 testimonianza  resa  in  dibattimento  in  tribunale, ed in ispecie i
 verbali di udienza del 18 giugno 1991, venivano invece  inseriti  nel
 fascicolo  del  dibattimento  ex art. 431, lett. f), in quanto "corpo
 del reato" o comunque "cose  pertinenti  al  reato",  trattandosi  di
 reato  di falsa testimonianza che necessariamente si sostanzia in una
 dichiarazione raccolta a verbale.
   Orbene, chiamato a deporre il maresciallo Palma, ed esaminato sulle
 circostanze   di  contorno,  il  p.m.  chiedeva  cosa  avesse  a  lui
 dichiarato  la  Borella  -   domanda   che   costituisce   il   perno
 dell'imputazione  ascritta  - ma a tale domanda si opponeva la difesa
 ai sensi del quarto comma dell'art. 495 del c.p.p., stante il divieto
 assoluto posto dalla legge agli ufficiali  di  p.g.  di  riferire  le
 dichiarazioni  rese dai testimoni: tale era infatti la qualita' della
 Borella nel momento  in  cui  rendeva  tali  dichiarazioni.  Il  p.m.
 chiedeva  allora di allegare al fascicolo del dibattimento il verbale
 delle s.i.t. raccolte dai carabinieri ex  art.  357  del  c.p.p.,  ma
 anche questa volta la domanda veniva respinta stante il divieto posto
 dall'art.  514  del  c.p.p.  di dare lettura delle dichiarazioni rese
 dall'imputato e  dai  testimoni  alla  p.g.  al  di  fuori  dei  casi
 consentiti, casi in cui non ricade la fattispecie in esame.
                           RILEVA IN DIRITTO
    Va  preliminarmente  sottolineata  la  evidente rilevanza, ai fini
 della  decisione  nel  merito  del  processo  e   della   valutazione
 dell'ipotesi  accusatoria  espressa  nell'imputazione,  del contenuto
 delle dichiarazioni rese da Borella Francesca al maresciallo Palma.
    E' sin  troppo  evidente  che  il  giudizio  sul  reato  di  falsa
 testimonianza,  nei  casi  di  c.d.  ritrattazione,  si  fonda  sulla
 valutazione  della  dichiarazione  resa   dal   teste   all'autorita'
 giudiziaria  alla  luce  di  quell'altra resa in precedenza, e che ha
 dato origine  all'esercizio  dell'azione  penale  nei  confronti  del
 soggetto accusato (asseritamente) per errore o per equivoco.
    La   comparazione  fra  le  due  dichiarazioni,  i  termini  e  le
 circostanze delle stesse, esaminate alla luce delle altre  risultanze
 istruttorie  (qualora  ve  ne  siano)  costituiscono  il  fulcro e la
 sostanza del giudizio.
    Pertanto e' proprio nei processi per falsa testimonianza  che  as-
 sume  rilievo  la possibilita' per il giudicante di "conoscere" prima
 ancora che di valutare il contenuto  delle  dichirazioni  rese  dalla
 testimone sia alla p.g. che alla autorita' giudiziaria.
    Appare  al  pretore la non manifesta infondatezza del dubbio sulla
 legittimita'  costituzionale  del  congegno  normativo   voluto   dal
 legislatore  delegato (artt. 195, nn. 3 e 4, 514 e 512 del c.p.p.) in
 attuazione dell'art. 2, n. 31, della legge delega, nella parte in cui
 viene impedito l'esame dell'ufficiale di p.g. che abbia raccolto tali
 dichiarazioni ovvero l'utilizzazione delle  stesse  a  seguito  della
 assunzione della qualita' di imputato da parte del teste.
    Esaminiamo l'articolarsi del congegno normativo:
      divieto  assoluto - art. 195, quarto colonnino, del c.p.p. - per
 gli ufficiali ed agenti  di  p.g.  di  deporre  sul  contenuto  delle
 dichiarazioni  rese dai testimoni (tale qualita' rivestiva la Borella
 al momento in cui rese le dichiarazioni);
      impossibilita' conseguente di  procedere  ad  un  confronto  fra
 l'Ufficiale  di p.g. e l'imputata (che avesse accettato di sottoporsi
 all'esame)  per  mancanza  del   necessario   presupposto   richiesto
 dall'art.  211  del  c.p.p. che le persone siano state gia' esaminate
 sulle circostanze su cui vi e' disaccordo;
      impossibilita' di applicare  il  meccanismo  previsto  dall'art.
 500,  quarto  comma,  che  consente,  e'  vero, la contestazione e la
 conseguente utilizzabilita' delle dichiarazioni rese dal  teste  alla
 p.g.  sul  luogo e nell'immediatezza del fatto (quali quelle nel caso
 in esame), ma presuppone altresi'  il  permanere  della  qualita'  di
 teste  in  capo  al soggetto che le ha rese, mentre, nella specie, la
 Borella ha oggi  assunto  la  qualita'  di  imputata  e  pertanto  e'
 all'art. 503 che occorre fare ricorso;
      impossibilita'  assoluta  di  utilizzare  le  dichiarazioni rese
 dall'imputato alla p.g. anche ai soli  fini  della  contestazione  ex
 art.  500,  terzo  comma,  stante  il  divieto posto dall'art. 63 del
 c.p.p. di utilizzare le dichiarazioni rese dalla persona non imputata
 ne' sottoposta alle indagini contro se stessa;
      divieto di  lettura  dei  verbali  redatti  dalla  p.g.  sancito
 dall'art. 514 del c.p.p. al di fuori dei casi consentiti;
      mancata previsione, nell'art. 512 del c.p.p., della possibilita'
 di  dare  lettura degli atti assunti dalla p.g. (oltre che dal p.m. e
 dal giudice nel corso dell'udienza preliminare) quando, per  fatti  o
 circostanze   imprevedibili,   ne   sia   divenuta   impossibile   la
 ripetizione.
    In  conclusione,  lo  sbarramento   congegnato   dalla   normativa
 richiamata  e' insuperabile e di fatto rende diabolica la prova della
 falsa testimonianza in tutti i casi in cui  al  fatto  reato  oggetto
 della  testimonianza  non fossero presenti altri testi, e l'accusa si
 poggi sulle dichiarazioni rese dal (presunto)  falso  testimone  alla
 p.g.,  come  spesso  avviene  nei  processi  di piccolo spaccio quale
 quello pendente presso il tribunale o in casi piu' gravi come i reati
 contro la liberta' sessuale che normalmente avvengono  alla  presenza
 di sole due persone.
   In  tutti questi casi in cui la ritrattazione del teste dell'accusa
 e' assai frequente, ed e' dipendente da motivi differenti  da  quelli
 che   legittimerebbero   il   ricorso  all'incidente  probatorio,  e'
 sostanzialmente sottratta al giudice, a priori,  la  possibilita'  di
 valutare quale delle due versioni rese dal teste sia quella veritiera
 poiche'  gli  viene  sottratta  la possibilita' di conoscere anche il
 dato storico costituito  dall'avere  il  teste  reso  alla  p.g.  una
 versione  differente  da  quella  resa in seguito. E cio', sebbene le
 prime dichiarazioni rese alla p.g. abbiano verosimilmente  comportato
 l'incriminazione  del  soggetto  accusato,  la possibile emissione di
 misure cautelari e tutte le conseguenze giuridiche di un  processo  a
 suo carico. Tale grave empasse sarebbe facilmente superabile se fosse
 consentito  agli  ufficiali  o agenti di p.g., come a tutti gli altri
 testi  de  relatio  di  deporre  sul  contenuto  delle  dichiarazioni
 acquisite dai testimoni.
    Il  divieto  assoluto  posto  dal  quarto  comma dell'art. 195 del
 c.p.p. appare violare il principio di ragionevolezza e di eguaglianza
 dei cittadini dinanzi alla  legge  (art.  3  della  Costituzione)  in
 quanto  discrimina i cittadini chiamati a testimoniare. Viene vietato
 senza alcuna ragionevole giustificazione,  al  teste  che  sia  anche
 appartenente  alla  p.g.  cio'  che  viene  consentito  al  teste non
 qualificato. Tale aperta discriminazione  non  sembra  rispondere  ad
 alcuna   concreta  e  sostanziale  differenziazione  fra  i  soggetti
 chiamati a deporre, a  meno  che  non  si  voglia  sostenere  che  il
 testimone,  che  sia anche appartenente alla p.g., e' per cio' stesso
 inattendibile  in  quanto  portatore  di   un   interesse   personale
 all'accusa aprioristicamente e generalmente inteso.
    Tuttavia,  tale  aprioristica presupposizione generale non e' dato
 rilevare nei principi generali  dell'ordinamento  giuridico  positivo
 che,  al  contrario,  attribuisce  rilievo e credibilita' all'operato
 della p.g., tanto da  consentire  alla  stessa,  sia  pure  sotto  il
 controllo  dell'autorita'  giudiziaria,  di incidere ben pesantemente
 sulla posizione del  cittadino:  le  misure  cautelari  sono  infatti
 richieste  ed emesse sulla base degli indizi raccolti dalla p.g. e lo
 stesso rinvio a  giudizio  si  fonda  sui  risultati  delle  indagini
 preliminari, sia pure vagliati dal p.m. (in Pretura) o dal g.i.p. (in
 tribunale).
    Appare  dunque  arbitraria  la scelta del legislatore di revocare,
 proprio nella sede dibattimentale in cui piu' diretto e immediato  e'
 il  controllo  da  parte  di  tutti  i  soggetti  processuali, quella
 credibilita' gia' ampiamente affidata alle forze di Polizia.
    Anche sotto altro profilo le norme richiamate  sembrano  ledere  i
 principi costituzionalmente garantiti.
    Appaiono  infatti  lesi i principi sanciti dall'art. 102 e 112 del
 c.p.p.  in  quanto,   sotto   il   primo   aspetto,   l'esercizio   e
 l'effettivita'  dell'esercizio della funzione giurisdizionale vengono
 in concreto resi impossibili dalla serie  di  sbarramenti  e  divieti
 configurati dal legislatore e sopra richiamati.
    Viene  cioe'  praticamente sottratta al giudicante la possibilita'
 anche solo astratta di valutazione e sindacato delle  prove  raccolte
 in dibattimento, nel contraddittorio delle parti processuali, per una
 generale   e   apriorisica  incapacita'  dell'ufficiale  di  p.g.  di
 testimoniare  nel  caso  richiamato,  negandosi  la  possibilita'  di
 esercizio della funzione giurisdizionale.
    E   cio'   altresi'   in   contrasto   con  l'ulteriore  principio
 costituzionale dell'obbligatorieta' dell'azione penale (art. 112). Da
 un lato, infatti, il p.m. ha "dovuto" rinviare a giudizio la  Borella
 per  falsa  testimonianza,  dall'altro  non  ha  potuto  in  concreto
 "esercitare" l'azione  penale  tramite  la  raccolta  delle  prove  a
 sostegno  della  sua accusa: gli e' infatti negata la possibilita' di
 esaminare il suo teste principale, di  richiedere  un  confronto,  di
 utilizzare i verbali delle s.i.t. raccolte dalla p.g.
    In   concreto,   l'obbligo   di   esercizio   dell'azione   penale
 costituzionalmente  sancito  resta  -  nel  caso  di  specie  -  solo
 formalmente riconosciuto, mentre sono sottratti al p.m. gli strumenti
 per sostenere l'accusa e rendere effettivo tale esercizio.
    Concludendo,  ritiene  il  pretore  che il divieto di cui all'art.
 195,  terzo  e  quarto  comma,  del  c.p.p.  riverberi   la   propria
 incostituzionalita' anche sull'art. 512 del c.p.p. Invero, tale norma
 impedisce  l'utilizzazione  processuale  di quelle dichiarazioni che,
 proprio perche' rese sul luogo e nell'immediatezza del fatto, vengono
 ritenute dallo stesso legislatore piu' attendibili. Gli ufficiali  di
 p.g.  dovrebbero  poter  essere  esaminati, alla stregua di qualunque
 altro teste  de  relato,  sulle  dichiarazioni  rese  dal  testimone,
 secondo  le  modalita'  previste  dal  primo  comma dell'art. 195 del
 c.p.p. Qualora, tuttavia, come nel caso di specie, l'esame del  primo
 teste  non  fosse  possibile poiche' questi ha assunto la qualita' di
 imputato -  e  quindi  secondo  un  criterio  di  impossibilita'  non
 naturalistico    ma    giuridico   -   dovrebbe   essere   consentita
 l'acquisizione agli atti del verbale delle s.i.t. redatto dalla  p.g.
 ex  art.  357  del  c.p.p.  Invero,  l'assunzione  della  qualita' di
 imputato e' circostanza certamente imprevedibile e  dipendente  dalle
 successive  vicende  processuali,  mentre l'irripetibilita' (concetto
 che attiene alla natura intrinseca dell'atto e da valutare al momento
 di   formazione  dell'atto  stesso,  non  successivamente)  dell'atto
 discende dal mutamento della qualita' del teste in imputato  e  della
 ben nota facolta' di avvalersi del diritto di non rispondere.
    Pertanto,  solo  attraverso  l'acquisizione e la lettura dell'atto
 raccolto dalla p.g. puo' evitarsi di "sottrarre" definitivamente tale
 prova al vaglio dibattimentale nel  generale  e  superiore  interesse
 all'accertamento  della verita' attraverso l'esercizio della funzione
 giurisdizionale.