IL PRETORE
    In  funzione  di  giudice  del  lavoro,  nelle cause previdenziali
 riunite  nn.  1547/91,  2054/91,  2055/91  e  2108/91  vertenti   tra
 Pescarolo  Alvisina  +  3  con  l'avv.  L.  Zanoni  contro l'Istituto
 nazionale  della  previdenza  sociale,  con  l'avv.  G.   Mazzacurati
 all'udienza del 22 ottobre 1991 ha emesso la seguente ordinanza.
                           PREMESSO IN FATTO
    1.  -  Con  ricorso depositato il 9 aprile 1991 esponeva di essere
 titolare di pensione di reversibilita' con decorrenza maggio  1974  e
 di pensione diretta con decorrenza settembre 1974; di avere richiesto
 all'ente   erogatore   l'integrazione  al  trattamento  minimo  sulla
 pensione di reversibilita' in applicazione della sentenza n. 314/1985
 della Corte costituzionale; di essersi visto respingere dall'I.N.P.S.
 la domanda con la motivazione che alla data  di  presentazione  della
 stessa  era  ormai decorso il termine decennale previsto dall'art. 47
 del d.P.R. 30 aprile 1970, n.  639;  di  avere  inutilmente  esperito
 ricorso  in  via amministrativa; di ritenere che al termine ricordato
 dovesse riconoscersi, conformemente alla giurisprudenza delle sezioni
 unite della Corte di cassazione, natura meramente  procedurale  senza
 effetti sui diritti sostanziali; su queste basi conveniva in giudizio
 l'I.N.P.S.,    chiedendo    l'accertamento    del   proprio   diritto
 all'integrazione   al   trattamento   minimo   della   pensione    di
 reversibilita' e la condanna dell'Istituto al pagamento delle somme a
 tale  titolo  dovute. Analoghe domande avanzano, con separati ricorsi
 depositati nei giorni 28  maggio  1991  e  31  maggio  1991  Novarini
 Giuseppa,  Querin  Teresa,  Fianco  Luciana assumendo tutti di essere
 titolari di pensione diretta e di pensione di reversibilita'  con  le
 seguenti,  rispettive  decorrenze: novembre 1967; luglio 1969; agosto
 1967.
    2. - Si costituiva in tutti i giudizi l'I.N.P.S., assumendo che le
 domande non potessero avere accoglimento in applicazione dell'art.  6
 del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito in legge n. 166/1991, che
 aveva  dettato  con  efficacia  espressamente  retroattiva  (sia pure
 limitata  dall'esclusione  dei  giudizi  in  corso) l'interpretazione
 autentica dei commi secondo  e  terzo  dell'art.  47  del  d.P.R.  n.
 639/1970,  sancendo  l'estinzione  del  diritto  ai ratei pregressi e
 l'inammissibilita' della domanda  quali  effetti  della  decadenza  e
 prevedendo   che   in   caso   di  mancata  proposizione  di  ricorso
 amministrativo i termini di  decadenza  decorressero  dall'insorgenza
 del  diritto  ai  singoli  ratei. Osservava infatti l'Istituto che in
 tutti  i  casi  sottoposti  a  giudizio   del   pretore   i   ricorsi
 amministrativi   erano   stati   proposti   oltre  un  decennio  dopo
 l'insorgenza del diritto ai ratei di  pensione  di  cui  si  chiedeva
 l'integrazione al minimo.
    3.  -  Con  memoria  autorizzata  il  procuratore  dei  ricorrenti
 eccepiva l'incostituzionalita' dell'art.  6  del  d.-l.  n.  103/1991
 invocato   dall'I.N.P.S.,   tra   l'altro   sotto  il  profilo  della
 contrarieta' agli artt. 3 e  38  della  Costituzione  della  disposta
 irretroattivita'  della  norma  e  della  discriminazione tra giudizi
 pendenti  o  meno  alla  data  di  entrata  in  vigore  del  decreto.
 L'I.N.P.S.  ribadiva  le  argomentazioni  difensive  e  le  richieste
 inizialmente esposte ed avanzate.
                             O S S E R V A
    L'eccezione sollevata dalla difesa delle parti  ricorrenti  appare
 rilevante  e  non manifestamente infondata, sulla base delle seguenti
 considerazioni:
    1. - L'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970 (nell'ambito del titolo III:
 "ricorsi e  controversie  in  materia  di  prestazioni")  dopo  avere
 previsto  l'esperibilita' dell'azione giudiziaria "esauriti i ricorsi
 amministrativi", al secondo comma, disponeva:  "L'azione  giudiziaria
 puo'  essere  proposta  entro  il termine di dieci anni dalla data di
 comunicazione della decisione definitiva del ricorso pronunziata  dai
 competenti  organi dell'istituto o dalla data di scadenza del termine
 stabilito per la pronunzia della decisione medesima, se  trattasi  di
 controversie  in  materia di trattamenti pensionistici". La questione
 relativa  all'interpretazione  della  ricordata  norma   deve   ormai
 ritenersi  risolta  autorevolmente  e  convincentemente dalle sezioni
 unite civili del supremo collegio, le quali, con sentenza  21  giugno
 1990,  n.  6245,  hanno  chiarito  che  il termine in esame ha natura
 procedimentale e non ha conseguenze negative sui diritti sostanziali.
 Piu' in particolare, la Corte, dopo avere - sulla base  di  un  ampio
 esame  sistematico - enucleato la funzione dell'istituto disciplinato
 dal citato art. 47 (che e' quella di correlare  l'azione  giudiziaria
 con  il  procedimento  amministrativo  e  di "delimitare nel tempo la
 possibilita' di  trasferire  la  pretesa  nella  sede  giudiziaria"),
 ritiene  che  "la  natura  decadenziale dell'istituto .. trova sicuro
 riscontro nella sua stessa struttura e funzione", desumendone che "il
 decorso   del   termine   decennale   dall'esaurimento   della   fase
 amministrativa,  senza  che  sia stata proposta la domanda giudiziale
 per l'accertamento  di  denegati  diritti  a  specifiche  prestazioni
 pensionistiche,   non   determina   la  perenzione  di  tali  diritti
 sostanziali, ma .. incide sulla  fase  di  attuazione  dei  medesimi,
 caducando  la  domanda  amministrativa  e  facendone  venir  meno gli
 effetti tipici ed essenziali  in  relazione  alla  proponenda  azione
 giudiziaria  e  al  successivo  processo.  Per  dar  vita ad un utile
 processo l'assicurato deve presentare nuova domanda all'I.N.P.S.  ..;
 salvi  gli effetti dell'eventuale prescrizione dei diritti a determi-
 nate prestazioni (ratei o integrazioni di essi)".
    2.   -   Su   questa   consolidata    situazione    normativa    e
 giuirisprudenziale  (ben  qualificabile  come  "diritto  vivente"  ed
 applicata senza contrasti anche da  questa  pretura),  e'  venuto  ad
 incidere  l'art.  6 del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito senza
 modificazione sul punto nella legge 1› giugno 1991, n. 166, il quale,
 sotto la rubrica di  "regime  delle  prescrizioni  delle  prestazioni
 previdenziali",  dispone  nei  due commi di cui consta: "1. I termini
 previsti dall'art. 47, secondo comma .. del d.P.R. 30 aprile 1970, n.
 639, sono posti a pena di decadenza per l'esercizio del diritto  alla
 prestazione  previdenziale.  La  decadenza determina l'estinzione del
 diritto  ai  ratei  pregressi  delle  prestazioni   previdenziali   e
 l'inammissibilita'  della  relativa  domanda  giudiziale.  In caso di
 mancata proposizione di ricorso amministrativo, i  termini  decorrono
 dall'insorgenza  del  diritto ai singoli ratei. 2. Le disposizioni di
 cui al primo comma hanno efficacia retroattiva, ma non  si  applicano
 ai  processi  che  sono  in  corso alla data di entrata in vigore del
 presente decreto".
    3.  -  Le  conseguenze  della  norma  ora   ricordata   consistono
 essenzialmente in cio':
       a)  che  dal 2 aprile 1991 (questa la data di entrata in vigore
 del decreto-legge citato) quello che fino allora era  previsto  dalla
 legge  e  interpretato  dalla  giurisprudenza  come un termine avente
 natura meramente procedimentale viene ad assumere natura sostanziale,
 quale termine di "preiscrizione" (stando  alla  rubrica  )  o  meglio
 (secondo  il  testo)  di  "decadenza per l'esercizio del diritto alla
 prestazione   previdenziale"   con   effetti    estintivi    limitati
 letteralmente al "diritto ai ratei pregressi" della prestazione;
       b)  che dalla stessa data all'originario dies a quo del termine
 procedimentale (data di comunicazione  della  decisione  sul  ricorso
 amministrativo o di formazione di silenzio-rigetto) si e' aggiunto un
 nuovo  e alternativo dies a quo destinato ad operare - funzionalmente
 alla mutata natura del termine - "in caso di mancata proposizione  di
 ricorso   amministrativo"   ed   individuato   con  riferimento  alla
 "insorgenza del diritto ai singoli ratei".
    4. - Se si confronta la  disciplina  preesistente  all'entrata  in
 vigore  del  decreto-legge  in esame con quella successiva, emergera'
 con evidenza che quest'ultima  non  avrebbe  potuto  determinarsi  in
 forza  di  una  mera operazione di interpretazione dell'art. 47 cit.,
 sia sotto il profilo della natura del termine (essendo chiara sul pi-
 ano letterale e sistematico la limitazione all'ambito  procedimentale
 della  rilevanza  del  termine  come originariamente congegnato), sia
 sotto il profilo  della  decorrenza  iniziale  del  termine  medesimo
 (essendo  stato aggiunto un dies a quo alternativo non previsto e non
 prevedibile in base alla disposizione del ricordato art. 47). Si deve
 pertanto escludere che l'art. 6 del d.-l.  n.  103/1991  configuri  -
 come  dimostra di ritenere invece la difesa dell'istituto convenuto -
 un'interpretazione  autentica  dell'art.  47,  se  e'  vero  che  "va
 riconosciuto  carattere  interpretativo  soltanto  ad  una legge che,
 fermo il tenore testuale della norma interpretata,  ne  chiarisce  il
 significato    normativo    ovvero   privilegia   una   delle   tante
 interpretazioni   possibili"   (cosi'   la    sentenza    di    Corte
 costituzionale,  4  aprile 1990, n. 155; nello stesso senso, inoltre,
 la  precedente  3 marzo 1988, n. 233, e la successiva 31 luglio 1990,
 n. 380. Anche la Corte di cassazione  ritiene  ormai  la  decisivita'
 della  struttura  e del contenuto della fattispecie normativa al fine
 della qualificazione della stessa come interpretativa: ad esempio, si
 veda Cass., 23 maggio 1990, n. 4633 in Foro italiano, 1990, I, 1824).
 In  realta',  l'art.  6  cit.  e'  norma  innovativa,  che   modifica
 radicalmente  la  precedente  disposizione  (art. 47). Di cio' sembra
 essersi  reso  conto  lo  stesso  legislatore,  che  ha   abbandonato
 l'originaria  rubrica  ("norme  di  interpretazione  autentica  e  in
 materia di decadenza") sotto la quale l'art. 4 del d.-l. 15 settembre
 1990,  n.  259  (non  convertito)  aveva  introdotto  una  norma  che
 costituisce  l'antecedente storico dell'art. 6 in esame. Del resto la
 limitazione della retroattivita' sancita dal secondo  comma  di  tale
 articolo   e'   di  per  se'  incompatibile  con  la  pretesa  natura
 interpretativa dello stesso.
    5. - La normativa innovativa, per  effetto  dell'appena  ricordato
 secondo  comma,  ha  efficacia  retroattiva,  ma  non  si  applica ai
 processi che erano in corso  alla  data  di  entrata  in  vigore  del
 decreto (e cioe' il 2 aprile 1991, ex art. 14 che richiama la data di
 pubblicazione  nella  Gazzetta  Ufficiale).  In  altri termini, dal 2
 aprile 1991 le conseguenze accennate  sopra  sub  3)  si  produrranno
 anche   in   relazione   ai   diritti   a  prestazioni  previdenziali
 perfezionatisi ed ai diritti ai  ratei  pregressi  delle  prestazioni
 medesime  insorti  anteriormente  a  tale  data,  salvo che i diritti
 stessi non formino oggetto di processi a tale data  in  corso,  cioe'
 salvo  che  le relative domande giudiziali siano state proposte prima
 del 2 aprile 1991.
    6. - Nella descritta situazione introdotta dalla nuova norma, sono
 rinvenibili, a parere  di  questo  pretore,  almeno  tre  profili  di
 possibile   violazione  di  norme  costituzionali,  che  rendono  non
 manifestamente infondate le relative questioni  di  costituzionalita'
 della norma stessa.
     A)  In  primo luogo, la sottoposizione dell'esercizio del diritto
 alle prestazioni previdenziali ad un termine di decadenza, e cioe' ad
 un rigido meccanismo estintivo, sembra poter ledere la  garanzia  che
 l'art.  38,  secondo comma, della Costituzione assicura ai lavoratori
 in ordine al  "diritto  che  siano  provveduti  ed  assicurati  mezzi
 adeguati .. in caso di infortunio, malattia, invalidita' e vecchiaia,
 disoccupazione  involontaria".  E'  del  resto  principio comunemente
 affermato quello secondo cui il diritto al trattamento  pensionistico
 per  invalidita',  vecchiaia  e  superstiti  (distinto dal diritto ai
 ratei  della  medesima)   e'   garantito   dalla   Costituzione,   e'
 indisponibile  ed  imprescrittibile  e  "non  e'  (e, in relazione al
 cennato principio costituzionale, non potrebbe essere) assoggettato a
 termini decadenziali .. non  solo  con  riguardo  al  suo  venire  ad
 esistenza,  ma  anche  nell'evolversi  del rapporto fondamentale, dal
 quale derivano i singoli diritti di natura patrimoniale" (sono parole
 della gia' ricordata Cass., sez. unite civili,  21  giugno  1990,  n.
 6245  in  Foro  italiano,  1991, I, 160). E' vero che nel primo comma
 dell'art. 6 si menzionano specificamente - quali effetti  determinati
 dalla  decadenza - solo l'estinzione del diritto ai ratei pregressi e
 l'inammissibilita' della relativa domanda  giudiziale,  ma  e'  anche
 vero  che  la  medesima  norma  espressamente  correla  la  decadenza
 all'esercizio del "diritto  alla  prestazione  previdenziale"  e  che
 simile  espressione  non avrebbe avuto senso se il legislatore avesse
 voluto limitare l'effetto estintivo della decadenza ai  soli  diritti
 ai  singoli  ratei  delle  prestazioni  previdenziali. Il primo comma
 dell'art. 6 del d.-l.  n.  103/1991  (norma  avente  generalmente  ad
 oggetto    le    prestazioni    previdenziali)    introduce    quindi
 nell'ordinamento  la  possibilita'  che  i  diritti  al   trattamento
 pensionistico  per  invalidita',  vecchiaia  e  superstiti, come tali
 dotati di garanzia costituzionale  in  forza  dell'art.  38,  secondo
 comma,  della  Costituzione  (del  quale  l'indisponibilita'  di tali
 diritti costituisce espressione), si estinguano  per  effetto  di  un
 meccanismo  decadenziale:  l'art.  6,  primo  comma, medesimo (in se'
 considerato) si pone  pertanto  in  contrasto  con  la  citata  norma
 costituzionale.
     B)  In  secondo luogo, la retroattivita' delle nuove disposizioni
 sancita  dal  secondo  comma  dell'art.  6,  senza  la  contemporanea
 predisposizione  di meccanismi di recupero delle situazioni pregresse
 in ordine alle quali il decorso del termine  decennale  di  decadenza
 (tenuto  conto  anche  del  dies a quo introdotto dal primo comma del
 medesimo articolo) sia gia' maturato al momento di entrata in  vigore
 del  d.-l.  n. 103/1991, sembra (valutata in rapporto al primo comma)
 porsi in contrasto ancora con l'art. 38, oltre che con l'art. 3 della
 Costituzione. Richiamate le osservazioni gia' svolte in  ordine  alla
 impossibilita' di qualificare le nuove norme come interpretative (che
 comporta  la  non  essenzialita'  della  disposta  retroattivita')  e
 ribadito  quindi  che  si  tratta  di  norme  innovative   dichiarate
 espressamente  e  non  per necessita' intrinseca retroattive, si deve
 ora rilevare che e' ben possibile che relativamente  alle  situazioni
 giuridiche  sorte  antecedentemente  al  2  aprile  1991 i termini di
 decadenza disciplinati  dal  primo  comma  siano  gia'  completamente
 decorsi  a  tale  data,  sia  con  riferimento  all'unico  dies a quo
 originariamente previsto dall'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970, sia  (e
 soprattutto,  ove  si  tenga presente la materia dell'integrazione al
 minimo,  nella  quale  il  susseguirsi  delle  sentenze  dichiarative
 dell'illegittimita'  costituzionale delle norme limitative il diritto
 all'integrazione  in  caso  di  titolarita'   di   piu'   trattamenti
 pensionistici, ha di fatto comportato la proposizione delle domande e
 dei   successivi   ricorsi  amministrativi  spesso  quando  gia'  era
 ampiamente decorso il decennio dal verificarsi della plurititolarita'
 e dalla conseguente insorgenza del diritto) con riferimento al  nuovo
 dies  a  quo introdotto dal d.-l. n. 103/1990. Si verrebbe, in questi
 casi,   a   verificare,   per   effetto   dell'art.    6    applicato
 retroattivamente,  una  estinzione,  per cosi' dire, senza (nel senso
 che l'estinzione stessa non  potrebbe  essere  in  alcun  modo  ormai
 impedita) del diritto alla prestazione previdenziale e del diritto ai
 ratei  pregressi  della  medesima. Ne', in relazione a questi ultimi,
 potrebbero avere alcuna efficacia eventuali atti  interruttivi  della
 prescrizione,  posto  che  la  decadenza  e'  impedita  soltanto  dal
 compimento tempestivo dell'atto tipicamente previsto (che nel caso di
 specie  e'   l'esercizio   dell'azione   giudiziaria).   L'automatica
 applicazione  retroattiva  di  tale  meccanismo  si pone in contrasto
 (ancor piu' della sua applicazione futura) con il gia' ricordato art.
 38, secondo comma, della Costituzione,  in  quanto  puo'  determinare
 l'estinzione   dei   diritti   ai   trattamenti   pensionistici   per
 invalidita', vecchiaia e superstiti sulla base  di  una  inerzia  non
 sanzionata  nel  momento  in  cui  fu  tenuta e senza che neanche sia
 consentito all'interessato di attivarsi. Ma piu' in  generale  (anche
 cioe'  con  riferimento  ai  diritti ai ratei delle prestazioni) tale
 retroattiva  qualificazione  negativa  di  una  inerzia  diversamente
 valutata  dall'ordinamento  nel periodo durante il quale si protrasse
 (si e' gia' rilevata infatti la  profonda  diversita',  sotto  questo
 profilo,  degli istituti della prescrizione e della decadenza) appare
 non conforme al principio di razionalita'  delle  scelte  legislative
 sotteso  al  fondamentale  principio di eguaglianza posto dall'art. 3
 della Costituzione. Non appare razionale di ricollegare una  sanzione
 di   decadenza   ex  post  ad  un  comportamento  (mancato  esercizio
 dell'azione  giudiziaria)  posto  completamente  in   essere   quando
 l'ordinamento  non  gli riconnetteva conseguenze di tale gravita'. Si
 vengono infatti a creare, in tal modo, discriminazioni  tra  soggetti
 che  hanno  o  meno tenuto un comportamento all'epoca sostanzialmente
 non significativo e quindi sulla base  di  una  circostanza  causale.
 Certo  il legislatore avrebbe potuto prevedere meccanismi di recupero
 delle situazioni pregressa (attraverso opportune  norme  transitorie,
 ad  esempio),  ma  cio'  non  ha fatto (e del resto, cio' non avrebbe
 forse corrisposto ai reali motivi che  stanno  dietro  l'introduzione
 delle  norme  in  discorso)  e,  sancendo l'automatica retroattivita'
 della  nuova  disciplina,  ha  posto   in   esame   una   irrazionale
 discriminazione  tra  situazioni eguali, il che non appare rispettoso
 del principio  di  eguglianza  di  cui  al  ricordato  art.  3  della
 Costituzione.
     C) Analoghe considerazioni possono ripetersi con riferimento alla
 esclusione  della  applicazione  retroattiva  delle  nuove  norme "ai
 processi .. in corso alla data di entrata  in  vigore"  espressamente
 sancita  dall'ultima  parte  del  secondo  comma  del  citato art. 6.
 Limitando in tal modo la efficacia retroattiva delle disposizioni del
 primo comma, tale norma pone (in  se'  considerata  prescindendo  dal
 collegamento   col   primo   comma)  in  essere  una  "ingiustificata
 disparita' di trattamento tra cittadini che  si  trovano  in  analoga
 situazione  sociale ed economica .. cosicche' la differenza di tutela
 discende da  una  circostanza  meramente  casuale":  l'avere  o  meno
 l'interessato,  prima  del  2  aprile  1991,  iniziato  un  processo,
 comportamento che puo' dipendere  dai  piu'  diversi  fattori  e  che
 comunque costituisce un presupposto "meramente formale", che non puo'
 essere   posto   a   base   di  una  discriminazione  tra  "categorie
 sostanzialmente  omogenee  ..   senza   violare   il   principio   di
 uguaglianza"   (le  espressioni  virgolettate  si  leggono  in  Corte
 costituzionale, sentenza 12 febbraio 1991, n. 34). Anche sotto questo
 profilo, pertanto, l'art. 6 del d.-l. n.  103/1991  sembra  porsi  in
 contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Vi e' solo da rilevare che
 simile  ultima  censura di incostituzionalita' (la quale non verrebbe
 meno  se  anche  si  volesse  qualificare   l'art.   6   come   norma
 interpretativa)  e'  gia' stata ritenuta non manifestamente infondata
 dal pretore di Sanremo con ordinanza  emessa  il  14  giugno  1991  e
 pubblicata  (con  il  n.  534)  sulla Gazzetta Ufficiale, prima serie
 speciale, n. 34.
     D) Conclusivamente, le considerazioni che precedono danno ragione
 della non manifesta infondatezza di tre diverse - seppur collegate  -
 questioni  di  illegittimita' costituzionale: una (quella esposta sub
 A) limitata al primo comma dell'art. 6  del  d.-l.  n.  103/1991  con
 riferimento  all'art.  38,  secondo  comma,  della  Costituzione,  la
 seconda (quella esposta sub  C)  concernente  il  secondo  comma  del
 medesimo  articolo,  con riferimento all'art. 3 della Costituzione, e
 l'ultima (costituente il compendio delle prime due ed esposta sub B))
 relativa all'intero art. 6 con riferimento  agli  artt.  38,  secondo
 comma, e 3 della Costituzione.
    7.  -  Cio'  detto in ordine alla non manifesta infondatezza delle
 questioni, deve affermarsi a questo punto la rilevanza delle  stesse:
 l'art.  6  citato,  infatti,  e'  applicabile  a  tutte le situazioni
 oggetto dei ricorsi riuniti, sia  da  un  punto  di  vista  temporale
 (poiche'  tutti  i ricorsi sono stati depositati e notificati dopo la
 data del 2 aprile 1991), sia da un  punto  di  vista  piu'  concreto,
 poiche'  in  tutti  i  casi  e il ricorso amministrativo e la domanda
 giudiziale sono stati proposti dopo il decorso di oltre  un  decennio
 dalla  insorgenza  del diritto all'integrazione al trattamento minimo
 delle pensioni indirette, invocato dai ricorrenti. In altri  termini,
 ove  non  fosse  sollevata  la  questione  di  costituzionalita',  si
 dovrebbe  ricercare  nello  stesso  art.  6  (primo  comma  applicato
 retroattivamente  ex  secondo  comma)  la  disciplina della decadenza
 delle situazioni sostanziali  dedotte  in  giudizio  come  del  resto
 richiesto  dalla  difesa dell'I.N.P.S., mentre ove tale norma venisse
 dichiarata incostituzionale sarebbe applicabile l'art. 47 del  d.P.R.
 n.  639/1970 nell'originaria formulazione, in base alla quale domande
 analoghe a quelle avanzate dagli  attuali  ricorrenti  hanno  trovato
 pieno  accoglimento  da  parte di questa pretura. Pertanto, i giudizi
 riuniti  non  possono   essere   definiti   indipendentemente   dalla
 risoluzione   delle   questioni   di   illegittimita'  costituzionale
 dell'art. 6.
    8. - Le questioni medesime  devono  pertanto  essere  sollevate  a
 rimesse  alla  Corte  costituzionale,  dandosi corso agli adempimenti
 previsti dall'art. 23 della legge 11 marzo  1953,  n.  87,  salva  la
 notifica  alle  parti,  non  necessaria  essendo  letta  la  presente
 ordinanza, emessa in giudizio di lavoro, alla udienza pubblica.