LA CORTE DI CASSAZIONE
    Ha   pronunciato   la  seguente  ordinanza  sul  ricorso  proposto
 dall'Istituto  nazionale  della  previdenza  sociale  -  I.N.P.S.  in
 persona del presidente pro-tempore elettivamente domiciliato in Roma,
 via  della  Freza,  17,  presso  gli avvocati Valerio Mercanti, Luigi
 Maresca e Antonio Cotronea che lo rappresentano  e  difendono  giusta
 procura  speciale  in  calce  al ricorso, ricorrente, contro Buccelli
 Luigi, De Rosa Luigi, Esposito Clemente e  Velvi  Armando,  intimati,
 per  l'annullamento  della sentenza del tribunale di Napoli in data 3
 luglio 1989, dep. il 17 novembre 1989 (r.g. n. 1585/89);
    Udita nella pubblica udienza tenutasi il giorno 20 maggio 1991  la
 relazione della causa svolta dal cons. rel.
 dott. Genghini;
    Udito l'avv. Maresca;
    Udito il p.m. nella persona del sost. proc. gen. dott. Chirico che
 ha concluso per il rigetto del ricorso;
                       SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
    Con  distinti ricorsi i lavoratori resistenti deducevano di essere
 dipendenti della S.p.a. Snia B.P.D. in cassa integrazione a zero  ore
 e  di  fruire  di  pensione  di  invalidita';  l'I.N.P.S.,  ai  sensi
 dell'art. 8 della legge  n.  638/1983,  ritenendo  che  il  tetto  di
 riferimento  fissato  in L. 10.765.950 fosse stato superato, dapprima
 sospendeva la pensione, poi ripristinata, e successivamente procedeva
 al recupero di quanto  riteneva  dovuto  da  ognuno  dei  lavoratori;
 secondo   i   lavoratori,   invece,   erroneamente  l'I.N.P.S.  aveva
 considerato superato il tetto, non tenendo conto per l'anno 1983  non
 potevano  conteggiarsi  anche  le  mensilita'  relative  ai  mesi  di
 novembre e dicembre del 1982 percepite successivamente, e,  pertanto,
 chiedevano la restituzione delle somme indebitamente trattenute.
    Si costituiva l'I.N.P.S. che resisteva alla domanda.
    Il pretore di Napoli accoglieva le domande.
    Contro  questa sentenza proponeva ricorso l'I.N.P.S. deducendo che
 il cit. art. 8 della legge n.  638/1983  non  distingue  tra  redditi
 percepiti   e  riferiti  all'anno  di  percezione,  e  altri  redditi
 riferentisi ad anni precedenti, e, inoltre, che, secondo il cit. art.
 8, occorre avere riguardo al reddito lordo.
    Si  costituivano  i  lavoratori  ed  eccepivano  che  il   reddito
 sottoposto  a tassazione separata, per espressa disposizione di legge
 non concorre a determinare il reddito annuo.
    Il tribunale rigettava il gravame, in quanto riteneva  applicabili
 l'art.  12,  lett.  m),  del  d.P.R.  n.  597/1973,  secondo  cui gli
 emolumenti arretrati relativi ad  anni  precedenti  sono  soggetti  a
 tassazione  separata  e  quindi  non  concorrono  alla formazione del
 reddito  relativo  al  periodo  in  cui  sono  stati   effettivamente
 percepiti;  rilevava inoltre come la Snia avesse indicato per ciascun
 dipendente un reddito lordo inferiore al minimo previsto  per  l'anno
 in discussione.
    Contro questa sentenza ha presentato ricorso l'I.N.P.S.
                        MOTIVI DELLA ORDINANZA
    Con  l'unico  mezzo,  il  ricorrente  si duole per la violazione e
 falsa applicazione dell'art. 8 del d.- l. n. 463/1983 convertito  con
 modificazioni  nella  legge  n.  638/1983 (art. 360, numeri 3 e 5 del
 cod. proc.  civ.),  non  avendo  considerato  che  l'art.  8  non  si
 riferisce  esclusivamente al reddito da lavoro dipendente, ma anche a
 quello da lavoro autonomo o professionale  o  da  impresa,  onde  non
 possono  applicarsi  soltanto  le regole stabilite in materia fiscale
 per i redditi da lavoro dipendente; inoltre il limite  fissato  dalla
 norma,  per  il reddito aliunde percepito, e' tale in quanto oltre il
 medesimo la  pensione  di  invalidita'  perde  la  caratteristica  di
 sostegno  alle esigenze primarie del lavoratore e della sua famiglia;
 ne  consegue  che  occorre  aver  riguardo  a  quanto  effettivamente
 introitato  nell'anno  solare;  d'altra  parte il computo del reddito
 secondo il criterio di cassa  e'  stato  confermato  legittimo  dalla
 Corte   costituzionale   (sentenza   n.   1067/1988)  ai  fini  della
 determinazione  del  reddito  per  la  maggiorazione  degli   assegni
 familiari;  si  rileva infine il travisamento di fatto che si risolve
 in un difetto di motivazione,  con  riferimento  al  superamento  del
 limite  stabilito  dalla  legge  sommando  tutti gli emolumenti lordi
 effettivamente percepiti nell'anno 1983.
    Ai fini  della  decisione,  dovendo  applicarsi  alla  fattispecie
 l'art.   10   r.d.-l.   14   aprile  1939,  n.  636,  convertito  con
 modificazioni nella legge  6  luglio  1939,  n.  1272,  e  successive
 modificazioni  ed  integrazioni, ed in particolare l'art. 8 del d.-l.
 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modifiche  nella  legge  11
 novembre  1983, n. 638, occorre porsi, anche di ufficio, la questione
 di costituzionalita' della citata norma, in relazione agli articoli 3
 e 38 della Costituzione, in quanto  non  prevede  specificamente  che
 nella   determinazione  del  tetto  di  riferimento,  fissato  in  L.
 10.765.950, non si debbono  computare  gli  arretrati  percepiti  dal
 lavoratore,  per  compensi  di lavoro subordinato, o dall'assicurato,
 per prestazioni previdenziali.
    La rilevanza della questione e' evidente, posto  che,  qualora  la
 Corte  costituzionale  affermasse  la  illegittimita'  costituzionale
 della norma "in quanto non esclude dal reddito  lordo  annuo,  quanto
 percepito  come  arretrati  da  lavoro  dipendente  o  da trattamento
 previdenziale", ne discenderebbe la conseguenziale legittimita' della
 decisione del  tribunale  impugnata,  pur  con  diversa  motivazione,
 mentre  nel  caso  contrario  si  dovrebbe accogliere la impugnazione
 dell'I.N.P.S. che sulla attuale formulazione della norma si fonda.
    Si deve a questo riguardo ricordare come la definizione legale  di
 "arretrati"  discende  dall'art.  12 del d.P.R. 29 settembre 1973, n.
 597, che prevede per gli stessi la tassazione separata con l'aliquota
 prevista dal successivo art.  86,  e  che  questa  suprema  Corte  ha
 affermato che devono considerarsi tali quelli comunque corrisposti in
 un  periodo di imposta successivo a quello di debenza, anche per mera
 mancanza di fondi da parte del datore di lavoro o per  ritardo  nella
 procedura  di liquidazione; ad esempio i ratei di pensione, che siano
 percepiti  dopo  il  1›  gennaio  1974,  cioe'   della   introduzione
 dell'imposta  sul  reddito  delle persone fisiche di cui al d.P.R. 29
 settembre 1973, n. 597, vanno equiparati agli emolumenti arretrati di
 lavoro dipendente, e restano assoggettati alla detta imposta, secondo
 il criterio della tassazione separata (Cass. 3 maggio 1986, n.  3019,
 5 luglio 1986, n. 4423, 22 gennaio 1987, n. 564).
    La stessa espressione "reddito lordo" e' specificamente deducibile
 dall'art.  11  del  cit.  d.P.R.  n. 597/1973, e, secondo la costante
 interpretazione datane dalla giurisprudenza di questa suprema  Corte,
 deve  intendersi  con  riferimento al reddito considerato prima delle
 ritenute fiscali, compresi i redditi di cui  agli  artt.  4  (redditi
 altrui  imputabili  al  soggetto)  e  5  (redditi  prodotti, in forma
 associata) dello stesso d.P.R.
    Deve tenersi conto che, secondo l'art.  7  citato,  "l'imputazione
 dei  redditi  al  periodo di imposta e' regolata dalle norme relative
 alle  varie  categorie  di  redditi,  salvo  quanto   stabilito   nei
 successivi  artt.  12,  13  e 14 per i redditi sui quali l'imposta si
 applica separatamente"; d'altra parte  occorre  avere  riguardo  alla
 particolare estensione ed assimilazione alla categoria del reddito da
 lavoro  dipendente di cui all'art. 47, e si deve sottolineare come il
 reddito  da  impresa  sia  esplicitamente  escluso  dalla  tassazione
 separata in tutte le sue componenti (art. 12, primo comma).
    Cio' a sottolineare la diversificazione esistente nella disciplina
 del  reddito  da lavoro, rispetto alle diverse fonti di reddito, che,
 in non ultima analisi, e'  attuazione  nel  sistema  legislativo  dei
 principi  generali  di  tutela  del  lavoro  di cui all'art. 35 della
 Costituzione.
    Per quanto poi attiene ai redditi  da  lavoro  autonomo,  si  deve
 osservare  come  la loro disciplina, ai fini che qui interessano, in-
 clude esplicitamente le ipotesi di cui alle lettere f) e g) dell'art.
 12, le quali, qualora, beninteso, non siano componenti del reddito di
 impresa,  rientrano  anche  esse  esplicitamente   nella   previsione
 normativa della tassazione separata.
    Ma  la  elaborazione  interpretativa dei principi fatta in materia
 tributaria,  non  e'  suscettibile   di   applicazione   in   materia
 previdenziale,  posto  che  puo'  ritenersi diritto "vivente" che, ad
 esempio, il principio di progressivita' delle aliquote  contributive,
 dettato  per  il  sistema  fiscale,  non e' estensibile al sistema di
 contribuzione previdenziale (Cass. 15 maggio 1990, n. 4146, 5  aprile
 1990, n. 2820, 27 febbraio 1988, n. 2096, 15 gennaio 1988, n. 281, 17
 gennaio  1983,  n.  408,  23 aprile 1982, n. 2513, 28 giugno 1979, n.
 3642) avendo il detto sistema contributivo carattere solidaristico  e
 non connotazioni tributarie (Cass. 7 aprile 1988, n. 2769); inoltre i
 contributi  unificati  in  agricoltura  non  sono  oneri di carattere
 fiscale, ma prestazioni  pecuniarie  aventi  riferimento  al  sistema
 previdenziale (Cass. 25 marzo 1971, n. 850, 10 giugno 1968, n. 1786),
 cosi'  come  si evince anche dall'art. 7 del d.- l. 23 dicembre 1977,
 n. 942, convertito in legge 27 febbraio 1978, n.  41,  per  il  quale
 "dall'estensione  delle  agevolazioni  fiscali  all'intero territorio
 montano, disposta dall'art. 12, ultimo comma, della legge 3  dicembre
 1971,  n. 1102, deve intendersi esclusa l'esenzione dal pagamento dei
 contributi agricoli unificati di cui al r.d.-l. 28 novembre 1938,  n.
 2138" (Cass. 12 gennaio 1984, n. 265, 9 gennaio 1984, n. 148, s.u. 28
 ottobre  1983,  n.  6375,  22  febbraio  1983,  n.  1323); sporadiche
 decisioni di contenuto diverso, si sono  avute  ma  limitatamente  ad
 applicazioni in materia processuale o procedimentale.
    Neppure  possono  ritenersi  direttamente  applicabili le norme in
 materia di imposte sul reddito delle persone  fisiche,  alla  materia
 previdenziale,   in   generale,   ed   a  quella  della  pensione  di
 invalidita', in particolare, soltanto perche'  il  cit.  art.  8  del
 d.-l.  n.  463/1983  prevede al secondo comma che "per l'accertamento
 del reddito di cui  al  precedente  comma,  gli  interessati  debbono
 presentare  all'I.N.P.S.,  con  le  modalita'  da questo indicate, la
 dichiarazione di cui all'art. 24 della legge 13 aprile 1977, n. 114";
 dichiarazione che, peraltro, evidentemente non potrebbe che avere  lo
 stesso  contenuto  dei  certificati  rilasciati  dagli  uffici  delle
 imposte dirette e, pertanto, dovrebbe distinguere il reddito relativo
 al periodo di imposta dai redditi soggetti a tassazione separata.
    A tale intepretazione sono di ostacolo, oltre ai cennati  principi
 che  non  consentono  di  estendere  alla  materia  previdenziale  la
 elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria in  materia  tributaria,
 il  fatto  che  si  tratta  di  un richiamo alla legge n. 114/1977 di
 contenuto delimitato alla sola  dichiarazione  autocertificatoria,  e
 pertanto  di un richiamo alla legge fiscale meramente indiretto, e di
 contenuto esclusivamente probatorio.
    La sentenza n. 1067 del 6 dicembre 1988 della Corte costituzionale
 ha ritenuto non fondata la questione di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  6 del d.-l. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito nella legge
 25 marzo 1983, n. 79, e dell'art. 2,  secondo  comma,  del  d.-l.  17
 aprile  1984,  n.  70, convertito nella legge 12 giugno 1984, n. 219,
 nella parte in cui, ai  fini  dell'attribuzione  della  maggiorazione
 degli  assegni  familiari,  ricomprendono  nel  calcolo  annuale  del
 reddito familiare  complessivo,  assoggettabile  all'IRPEF  nell'anno
 precedente al periodo di paga in corso, anche gli emolumenti relativi
 ad  anni  anteriori  e  soggetti  a  tassazione  separata, escludendo
 soltanto i trattamenti di fine rapporto.
    Riteneva la Corte che "poiche' il rapporto (tra i flussi salariali
 nella famiglia ed il  reddito  familiare  complessivo  assoggettabile
 all'imposta  personale  sul  reddito,  non inferiore al 70 per cento)
 deve essere verificato anno per anno in base  alle  risultanze  delle
 dichiarazioni annuali dei redditi dei componenti il nucleo familiare,
 e'  ragionevole  che  nel  coacervo  dei  redditi,  da  assumere come
 parametro per stabilire la spettanza o meno  della  maggiorazione  di
 cui  e'  causa,  siano  compresi  anche gli arretrati di retribuzione
 percepiti nel periodo  di  paga  considerato,  posto  che  essi  pure
 concorrono  ad  integrare  la disponibilita' di mezzi economici della
 famiglia in tale periodo". Soggiunge la motivazione della Corte:  "Se
 non fossero conteggiati nell'anno di percezione, i redditi soggetti a
 tassazione   separata  dovrebbero  essere  conteggiati  nell'anno  di
 maturazione. Ma questa soluzione in primo luogo contrasterebbe con la
 ratio della legge, in quanto  la  spettanza  della  maggiorazione  in
 quell'anno  verrebbe  determinata  in  base  alla capacita' economica
 potenziale,  non  effettiva,  della  famiglia;   in   secondo   luogo
 offenderebbe  il  principio  di economicita', addossando all'I.N.P.S.
 l'onere  di  rifare  i  calcoli  per  quell'anno  e  provvedere  alle
 rettifiche  conseguenti,  e  ai lavoratori l'obbligo di restituire le
 somme che risultassero non spettanti".
    Ancorche' possa ritenersi pacifica la natura  previdenziale  degli
 assegni  familiari erogati dall'I.N.P.S. (Cass. 8 marzo 1986, n. 1567
 e 2 ottobre 1985, n. 4775), non sembra che i principi affermati dalla
 Corte delle leggi in tema  di  assegni  familiari,  siano  senz'altro
 recepibili in materia di pensione di invalidita'.
    Si   deve  infatti  sottolineare  la  differenza  esistente  nella
 intrinseca natura degli assegni familiari rispetto alla  pensione  di
 invalidita',  nonche' la del tutto difforme situazione soggettiva che
 tali prestazioni previdenziali presuppongono.
    Gli assegni integrano una "maggiorazione", cioe' una integrazione,
 di un trattamento, retributivo o previdenziale (art. 4  del  d.-l.  2
 marzo  1974, n. 30, convertito in legge 16 aprile 1974, n. 114), che,
 per effetto dei familiari a carico, potrebbe risultare non del  tutto
 sufficiente,  e  pertanto  in eventuale violazione dell'art. 36 della
 Costituzione.
    Diversamente la pensione di invalidita' (secondo la  denominazione
 adottata  nella  legislazione  in  vigore prima della legge 12 giugno
 1984, n. 222) ed ora, con la legislazione  vigente,  la  pensione  di
 inabilita',  presuppongono accertata, una situazione di insufficienza
 reddituale che gia' era  quasi  assoluta  (riduzione  a  meno  di  un
 terzo),  e  che  in base alla formulazione dell'art. 2 della legge n.
 222/1984, e' divenuta assoluta ("assoluta e permanente impossibilita'
 di  svolgere  qualsiasi  attivita'   lavorativa",   ed   e'   inoltre
 "subordinata   alla   cancellazione  dell'interessato  dagli  elenchi
 anagrafici  degli  operai  agricoli,  dagli  elenchi  nominativi  dei
 lavoratori  autonomi  e  dagli  albi  professionali, alla rinuncia ai
 trattamenti  a  carico  dell'assicurazione  obbligatoria  contro   la
 disoccupazione e ad ogni altro trattamento sostitutivo od integrativo
 della retribuzione".
    Ne  discende  che  mentre  gli  assegni  familiari sono rivolti ad
 impedire che, per effetto del carico  familiare  (Cass.  26  novembre
 1977,  n.  5167),  il  trattamento  retributivo  o  previdenziale del
 lavoratore, in astratto non insufficiente "ad  assicurare  a  se'  ed
 alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa", ai sensi dell'art. 36
 della  Costituzione,  possa  risultare in concreto, in relazione alla
 particolare situazione familiare, al disotto del  cennato  limite  di
 sufficienza,  diversamente  la  previgente pensione di invalidita', e
 ancor piu' la pensione di inabilita' di cui all'art. 2  della  citata
 legge n. 222/1984, presuppongono una situazione conclamata di bisogno
 come  conseguenza  della  invalidita'  e  della  inabilita'  (cfr. ex
 pluris, Cass. 7 marzo 1983, n. 1667, e, da ultimo, 16 febbraio  1990,
 n. 1167; cfr. inoltre, a contrario, Cass. 18 dicembre 1985, n. 6484).
 Da  tempo  in  realta'  questa  suprema Corte ha sottolineato come la
 determinazione delle condizioni a cui e' subordinato il  sorgere  del
 diritto   alle   prestazioni   assicurative   e   previdenziali,  per
 conformarsi al disposto dell'art. 38 della Costituzione, deve  essere
 basata  sulla  "sicura" esistenza "di mezzi adeguati alle esigenze di
 vita" del lavoratore,  proprio  "in  caso  di  infortunio,  malattia,
 invalidita'   e  vecchiaia,  disoccupazione  involontaria",  e  cioe'
 corrispondente ad  una  situazione  del  lavoratore  che  escluda  il
 bisogno  della  prestazione  previdenziale  (cfr.,  ad  es., Cass. 17
 gennaio 1972, n. 127). Pertanto le discipline legislative succedutesi
 nel  tempo  a  tutela  di  questa  particolare  condizione,   debbono
 ritenersi  puntuale  applicazione  dei  principi  di uguaglianza e di
 solidarieta'  solennemente  sanciti  dagli  artt.  3   e   38   della
 Costituzione.
    Ed  invero  assicurare all'inabile i mezzi di vita, e' sicuramente
 il  solo  modo  per  rimuovere  quelle  condizioni  di  bisogno   che
 costituirebbero  altrimenti  "ostacoli di ordine economico e sociale"
 limitative di fatto della sua liberta' e della  sua  eguaglianza  con
 gli altri cittadini, e, inoltre, che certamente "impediscono il pieno
 sviluppo  della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
 lavoratori  all'organizzazione  politica,  economica  e  sociale  del
 Paese";  cio'  vale  anche  per  "i  cittadini  inabili  al  lavoro e
 sprovvisti dei mezzi necessari per vivere" di cui all'art.  38  della
 Costituzione.
    Qui  giova  sottolineare che e' risultato accertato in fatto che i
 mezzi dei quali disponeva l'interessato erano intrinsecamente tali da
 non essere sufficienti per vivere, e che soltanto  in  quanto  in  un
 determinata  annualita' erano confluiti anche gli arretrati di alcune
 annualita' precedenti, ne  era  risultato  un  "reddito  complessivo"
 eccedente  il limite posto dalla legge, e conseguentemente l'I.N.P.S.
 aveva disposto di recuperare quanto  nel  frattempo  erogato.  Ed  e'
 evidente  che  la "sovrabbondanza" di reddito in un anno, per effetto
 della percezione degli arretrati relativi ad  annualita'  precedenti,
 era assorbita (e, neppure integralmente, compensata) dalle piu' gravi
 necessita' derivate all'assicurato dalla mancata percezione di quanto
 dovuto;  e'  intuitivo  a quali onerosi rimedi ricorra in tal caso un
 piccolo risparmiatore, ed e' ben nota al riguardo la evoluzione della
 giurisprudenza di questa suprema Corte con riferimento all'art.  1224
 del cod. civ.
    Ma  in  tal  guisa, ove la disciplina cennata dovesse produrre gli
 effetti invocati  dall'istituto  ricorrente,  si  determinerebbe  una
 situazione  di  disparita'  di  trattamento  di  soggetti in identica
 situazione e posizione soggettiva, per effetto  di  un  elemento  del
 tutto  estraneo alla condotta dell'interessato, del tutto casuale, se
 addirittura non riferibile proprio al  soggetto  obbligato  (il  che,
 nell'ambito del grande numero di assistiti, potrebbe persino assumere
 rilevanza   statistica),   quale   e'  la  percezione  di  emolumenti
 arretrati. Anzi, a ben vedere, nel caso in  esame  i  lavoratori  dei
 quali  si  tratta  erano  doppiamente  incolpevoli  della  situazione
 prodottasi: una prima volta allorche'  erano  stati  posti  in  cassa
 integrazione  per  disoccupazione  involontaria, ed una seconda volta
 allorche' la integrazione salariale, in luogo di  essere  corrisposta
 puntualmente,  perveniva,  per  piu' annualita', in ritardo, in unica
 soluzione.
    E'  invero  intuitivo  che  appare  del  tutto  irragionevole  una
 disciplina  legislativa,  la quale, in presenza di due soggetti nella
 identica situazione di invalidita' o addirittura di inabilita', e che
 siano  altresi',  nel  tempo,   percettori   del   medesimo   reddito
 complessivo,   ma   par  i  quali  tuttavia  questo  reddito  risulti
 diversamente distribuito a causa del  fatto  che  uno  solo  di  essi
 percepisca  ritardatamente una parte dei redditi pregressi (per cause
 certo a  lui  non  imputabili),  esclusa  quest'ultimo  soggetto  dal
 trattamento  previdenziale per le annualita' nelle quali, per effetto
 della cennata ritardata percezione degli emolumenti, risulta superata
 la soglia massima di reddito complessivo fissata dalla legge.
    Una siffatta disciplina, invero,  oltre  ad  apparire  lesiva  del
 principio  della  parita'  di  trattamento,  a  parita' di situazioni
 giuridiche, di cui  all'art.  3  della  Costituzione,  e'  fortemente
 sospetta  di  contrasto  con  lo  stesso  art. 38 della Costituzione,
 atteso che, fissati nella legge alcuni parametri di condizione fisica
 e  di  situazione  soggettiva   economica,   dai   quali   discendono
 determinati  trattamenti  previdenziali  in  osservanza  della  norma
 costituzionale, individua poi una eccezione a tale disciplina, per un
 fatto  del  tutto  estrinseco  alla   reale   situazione   soggettiva
 dell'assistito, quale la percezione di arretrati.
    Avviene  cioe' che la Costituzione fissa solennemente dei principi
 di tutela, in osservanza dei quali la  legge  determina  in  concreto
 quali siano le condizioni soggettive in presenza delle quali sorge il
 diritto  ad  ottenere  quella tutela; poi, si verifica un occasionale
 ritardo nella erogazione di  quanto  dovuto,  e,  per  effetto  della
 sommatoria  al  momento  della  percezione, "contabilmente" in quella
 annualita' il reddito risulta superiore alla soglia di legge,  ed  il
 diritto anzidetto ne risulta sospeso.
    Un  fatto,  a ben vedere, che lungi dal prospettare una situazione
 di miglior favore, individua uno stato ulteriore di maggior  bisogno,
 posto che, al di la' di ogni intuitiva considerazione in ordine alla,
 solo  parziale,  reintegrazione del danno dovuto alla svalutazione ed
 al  ritardo  nell'adempimento,  non  e'  revocabile  in  dubbio   che
 economicamente  appare  preferibile  la condizione di colui che abbia
 percepito puntualmente le sue spettanze, rispetto al soggetto che,  a
 parita'  di reddito e di ogni altra circostanza, percepisca invece in
 ritardo alcune  annualita'.  Con  la  conseguenza,  macroscopicamente
 ingiusta,  che  la disciplina legislativa sarebbe piu' favorevole non
 al soggetto in condizione svantaggiata, ma a quello che versa in  una
 situazione  sostanzialmente  migliore:  e  cio'  nell'ambito  di  una
 legislazione rivolta a soccorrere i lavorativi e gli  assicurati  che
 si trovano in una situazione di bisogno.
    Vi e' un ulteriore motivo di irrazionalita' della disciplina della
 pensione  di invalidita' quale risultante dalla modifica disposta con
 il  d.-l.  12  settembre  1983,   n.   463,   come   convertito   con
 modificazioni,  nella  legge  n.  638/1983:  l'art.  8 al primo cpv.,
 infatti,  commisura  l'"importo  lordo   annuo"   all'ammontare   del
 trattamento minimo del fondo pensioni lavoratori dipendenti in misura
 pari  a  tredici  volte  l'importo mensile in vigore al 1› gennaio di
 ogni anno, ma in tal guisa pone in essere un  raffronto  tra  entita'
 eterogenee, atteso che le tredici mensilita' anzidette si riferiscono
 necessariamente  a  quanto percepibile nell'arco di tempo di un anno,
 mentre la inclusione nel reddito inteso come "importo  lordo  annuo",
 include  emolumenti  che  si  riferiscono  ad annualita' arretrate, e
 pertanto  il  confronto  ed   il   riferimento   sono   tra   entita'
 temporalmente non omogenee.
    Ulteriore   elemento   di   irrazionalita'  si  coglie  anche  con
 riferimento alla disciplina di cui all'art.  429,  terzo  comma,  del
 cod.  proc.  civ.  ed  alle  somme  dovute  dal  datore di lavoro per
 rivalutazione monetaria; tali  somme  (delle  quali,  come  noto,  si
 esclude  la  natura  risarcitoria da fatto illecito: Cass. 2 febbraio
 1985, n. 717), sono soggette, all'atto del pagamento,  alla  ritenuta
 di  acconto (art. 23, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n.
 600), con applicazione, ove il  credito  originario  si  riferisca  a
 pregressi  periodi  di  imposta, dell'aliquota propria del sistema di
 tassazione separata di cui agli artt.  12,  lett.  D),  e  13,  primo
 comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597; ma evidentemente di tali
 somme,  anch'esse  percepite  in  ritardo  a causa dell'inadempimento
 totale o  parziale  del  datore  di  lavoro  (ove  dovesse  ritenersi
 legittima  la formulazione legislativa secondo la interpretazione che
 sostiene  la  impugnazione nel presente ricorso, e che innegabilmente
 appare fondata sulla formulazione letterale  della  legge),  dovrebbe
 tenersi conto ai fini della determinazione del reddito complessivo da
 considerare per l'attribuibilita' della pensione di invalidita'.
    Non  resta che esaminare gli argomenti di cui alla citata sentenza
 n. 1067/1988 della Corte costituzionale.
    Occorre  valutare  separatamente  i  due  cennati  argomenti,  per
 stabilire se gli stessi siano suscettibili di spiegare la loro influ-
 enza anche nella fattispecie in esame.
    Va tuttavia innanzi tutto posto in evidenza il divario concettuale
 esistente  tra la maggiorazione degli assegni familiari e la pensione
 di invalidita'.
    A tal fine e' sufficiente considerare che, a prescindere dal  dato
 generico  che  in  entrambi  in  casi  si  versa  nell'ambito  di una
 prestazione di natura previdenziale, mentre l'assegno di  invalidita'
 o  la  pensione  di  inabilita'  presuppongono, come si e' visto, una
 situazione  di  bisogno  dell'assicurato,  e  questa  ne  costituisce
 condizione  ineliminabile  perche' sorga il diritto, diversamente per
 gli  assegni  familiari  si  versa  in  un  ambito  che  e'  di  mera
 integrazione   ed   adeguamento   delle   spettanze   lavorative   (o
 previdenziali) al fine di renderle adeguate alla situazione familiare
 dell'avente diritto; si puo' affermare che mentre il  trattamento  di
 invalidita'   e'  rivolto  a  rimuovere  una  situazione  di  bisogno
 verificatasi  per  effetto  della   malattia,   l'assegno   familiare
 impedisce  che  una situazione di bisogno possa generarsi per effetto
 del  mancato   adeguamento   delle   spettanze   del   lavoratore   o
 dell'assicurato,  alla  maggiore entita' delle esigenze familiari; si
 tratta di una integrazione o di una maggiorazione rivolta ad impedire
 che la presenza di familiari a carico  rendano  insufficiente  quanto
 percepito,  determinandosi, per l'effetto, una situazione di bisogno.
 Vi e' tra le due prestazioni la differenza che corre tra  un  rimedio
 ad  una situazione di bisogno in atto, ed una integrazione rivolta ad
 impedire che una situazione potenzialmente lesiva, possa divenirlo in
 concreto.
    La norma limitativa del diritto per gli assegni familiari (art. 6,
 primo e terzo comma del d.-l. 29 gennaio 1983, n. 17,  convertito  in
 legge  25  marzo  1983,  n.  79 e art. 2, secondo comma, del d.-l. 17
 aprile 1984, n. 70, convertito in legge 12 giugno 1984,  n.  219)  e'
 diversa  da  quella  limitativa  della  pensione (art. 10 del r.d. 14
 aprile 1939, n. 636, convertito, con modificazioni, in legge 6 luglio
 1939, n. 1272, quale risultante per effetto del  d.-l.  12  settembre
 1983,  n. 463, convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre
 1983,  n.  638):  la  prima,  considera  esplicitamente  "il  reddito
 complessivo,  conseguito dai coniugi e dai figli minori ed equiparati
 a carico, nonche' dai figli  maggiorenni  conviventi,  assoggettabile
 all'imposta  sul reddito delle persone fisiche nel periodo di imposta
 dell'anno immediatamente precedente al periodo di paga"; la  seconda,
 invece,  nega  l'attribuzione  della  pensione  di invalidita', o, se
 attribuita ne sospende la corresponsione, qualora l'assicurato  o  il
 pensionato  "siano  percettori di reddito da lavoro dipendente" o "da
 lavoro autonomo, o professionale, o d'impresa per  un  importo  lordo
 annuo"  che  sia  "superiore  a tre volte l'ammontare del trattamento
 minimo del fondo pensioni lavoratori dipendenti calcolato  in  misura
 pari  a  tredici  volte  l'importo mensile in vigore al 1› gennaio di
 ciascun anno", senza alcun riferimento al periodo di imposta.
    Per  quanto  attiene  alla  possibilita'  di conteggiare i redditi
 nell'anno di maturazione, anzicche' in quelli di  percezione,  a  ben
 vedere,  cio'  non  darebbe luogo ad una valutazione della condizione
 individuale in base  alla  "capacita'  economica  potenziale",  cioe'
 meramente  prognostica,  ma  ad una capacita' effettiva e realizzata,
 ancorche' accertata in tempo successivo.
    Ben vero  che  cio'  imporrebbe  di  "rifare  i  calcoli",  ma  la
 incidenza  di  tale  ricalcolo  sui  criteri  di "economicita'" della
 gestione, non appare decisiva, e per diverse ragioni.
    La  Corte  costituzionale  ha  fatto  ricorso   al   concetto   di
 "economicita'"  nelle sentenze n. 177 del 7 luglio 1986, n. 431 del 3
 dicembre 1987, n. 110 del 26 gennaio 1988,  n.  127  del  2  febbraio
 1988,  sempre  inteso come "economicita' di gestione"; nella sentenza
 n. 177 succitata, si trattava del  potere  surrogatorio  statale,  in
 riferimento  ai  soggetti  di  autonomia  speciale,  con  riguardo al
 coordinamento  in  materia  di  spesa  sanitaria,   finalizzato   "ad
 assicurare   maggiore   economicita'   di   gestione   delle  singole
 strutture", e si riteneva illegittima la disciplina  affermativa  del
 potere  surrogatorio, pur se finalizzata ad assicurare tale "maggiore
 economicita' di gestione delle singole strutture";  nella  successiva
 sentenza  n.  431  su precisata, in ordine ad una questione sollevata
 con riguardo alla incoerenza e  difetto  di  univoca  omogeneita'  di
 ripartizione  degli  oneri  relativi  alla  contribuzione  sociale di
 malattia (art. 31 della legge 28 febbraio 1986, n. 41),  riteneva  la
 infondatezza  della stessa "in quanto il sistema, pur frammentizzato,
 risulti,  nei  suoi   collegamenti   con   i   pregressi   interventi
 legislativi,   l'ultimo   definitivo   anello   di  congiunzione  per
 l'attuazione di una disciplina che assicuri puntuale  certezza  nella
 sistemazione  delle  prestazioni e dei relativi oneri, ed in cui alla
 generale contribuzione corrisponda un servizio fruibile  dall'iintera
 collettivita' e improntato ad efficienza, correttezza ed economicita'
 di  gestione"; nella sentenza n. 110/1988 succitata, era affermata la
 manifesta infondatezza della questione  relativa  all'art.  13  della
 legge  istitutiva  dell'E.N.E.L.  (n.  1643  del 6 dicembre 1962) che
 escludeva il trasferimento all'ente del personale assunto dopo il  1›
 gennaio 1962, essendo la ratio della norma rivolta a "determinare con
 certezza  gli  organici  dell'ente  pubblico  secondo un principio di
 economicita'  della  gestione";  infine  nella  citata  sentenza   n.
 127/1988 non era considerata illegittima la disciplina (art. 4, lett.
 f),  del  d.-l.  11  gennaio 1974, n. 1, convertito con modificazioni
 nella legge 11 marzo 1974, n. 46) che attribuiva  all'Ente  Porto  di
 Napoli   la   discrezionale   determinazione  del  corrispettivo  per
 l'approdo, posto che non  si  trattava  di  controprestazione,ma  del
 "risultato  della  valutazione  del  singolo servizio reso nel quadro
 globale  dell'economicita'  della  gestione   e   dell'efficiente   e
 produttivo impiego del bene stesso".
    Come  si  vede  soltanto  nella  sentenza  n.  177/1986 si pone la
 economicita' in diretta relazione  alla  disciplina  legislativa,  al
 fine  di  accertare  se  possa costituire ratio giustificativa di una
 limitazione della sfera soggettiva (nel caso addirittura pubblica), e
 si esclude che  la  finalita'  di  una  maggiore  economicita'  possa
 rendere legittima una "puntuale e penetrante ingerenza nella sfera di
 autonomia  speciale",  soprattutto  allorche'  il potere surrogatorio
 statale  e'  "espressione  di  funzione di coordinamento non connessa
 direttamente alla tutela del  valore  costituzionale  della  salute".
 Cioe'  non  basta il fine di perseguire una maggiore economicita' per
 ledere i limiti di attribuzioni, specialmente se non  vi  e'  diretta
 connessione con la tutela di valori costituzionali.
    Principio  che  nella  sua  assoluta  chiarezza,  non si vede come
 potrebbe non applicarsi anche alla fattispecie in esame.
    Nelle altre  sentenze,  il  richiamo  alla  economicita'  e'  solo
 indiretto,   e   non  costituisce  il  fondamento  per  affermare  la
 legittimita' costituzionale della disciplina in ordine alla quale era
 stata sollevata la questione.
    Nel caso in  esame,  invero,  il  collegamento  tra  la  posizione
 soggettiva,  il  diritto  alla  prestazione previdenziale, di rilievo
 costituzionale (art. 38 della Costituzione), e la economicita'  della
 gestione da parte dell'I.N.P.S., appare indiretto, posto che, innanzi
 tutto,  e'  opinabile,  ed  anzi si deve escludere, che i "ricalcoli"
 delle  posizioni  individuali  in  occasione  della   percezione   di
 arretrati,  debbano  avvenire manualmente e caso per caso; in realta'
 e' ben noto che l'I.N.P.S. e' titolare delle  apparecchiature  e  dei
 programmi  (c.d.  hardware  e  software)  informatici  piu'  avanzati
 esistenti  nella  pubblica  amministrazione,  ne'   potrebbe   essere
 diversamente  per la gestione di un cosi' grande numero di assistiti;
 e' evidente che  al  fine  di  compiere  tali  calcoli,  si  dovrebbe
 predisporre,   una  tantum,  un  programma  che  alla  percezione  di
 arretrati (sottoposti ovviamente a contribuzione), provveda  altresi'
 a  computare  la  somma con quanto gia' percepito nelle annualita' di
 maturazione, stabilendo se, per effetto di cio', si sia verificato il
 superamento, in quella annualita', della  soglia  legale  di  reddito
 massimo al fine di mantenere il diritto al trattamento previdenziale.
 La  incidenza  dei costi di una siffatta programmazione, tenuto conto
 della enorme quantita' di  assistiti  rispetto  alla  quale  dovrebbe
 ripartirsi, non appare invero neppure statisticamente rilevante e non
 e' certo tale da incidere sulla economicita' della gestione.
    Inoltre,  proprio per la esiguita' della incidenza pro capite, non
 appare in nessun caso tale da giustificare la lesione di un principio
 fondamentale  di  tutela,  quale  quello  posto  dall'art.  38  della
 Costituzione,   attraverso   una  disciplina  che  appare  fortemente
 sospetta  di  essere  altresi'  in  contrasto  con  l'art.  3   della
 Costituzione,  quanto meno, come nel caso in esame, con riferimento a
 fattispecie di particolare difficolta' dei  destinatari,  quali  sono
 evidentemente  quelle  riguardanti  lavoratori  in cassa integrazione
 guadagni e titolari di pensione di invalidita' (o di inabilita').
    Infine, il criterio della economicita', introdotto, con  l'art.  3
 della  legge 22 dicembre 1956, n. 1589, nella nostra legislazione con
 riferimento alla gestione  delle  imprese  a  partecipazione  statale
 (delle  quali  e'  appena  il  caso di sottolineare la differenza con
 riguardo all'ente pubblico previdenziale, che, ovviamente non ha  tra
 le  sue  finalita'  la  produzione di profitti), appare difficilmente
 conciliabile, nella fattispecie in esame, con il principio di cui  al
 primo  comma  dell'art.  97  della  Costituzione.  Ed infatti, ove si
 ritenesse che in fattispecie analoghe a quelle oggetto  del  ricorso,
 per  realizzare  la economicita' della gestione dell'I.N.P.S. debbano
 essere sacrificati i diritti soggettivi  degli  assistiti,  cio',  in
 concreto,  produrebbe  il trasferimento in capo agli assicurati delle
 conseguenze  dannose  degli effetti del cattivo (in quanto ritardato)
 funzionamento  dell'istituto  previdenziale,   il   che   certo   non
 contribuirebbe   a   che   "siano  assicurati  il  buon  andamento  e
 l'imparzialita' dell'amministrazione".
    Consegue a quanto esposto che non appare manifestamente infondata,
 in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, la questione  di
 costituzionalita'  dell'art.  10  del r.d.-l. 14 aprile 1939, n. 636,
 convertito con modificazioni nella legge 6 luglio 1939,  n.  1272,  e
 successive   modificazioni   ed  integrazioni,  ed,  in  particolare,
 dell'art. 8 del d.-l. 12  settembre  1983,  n.  463,  convertito  con
 modifiche  nella  legge  11  novembre  1983,  n.  638,  in quanto non
 prevedono la esclusione dal computo del reddito lordo degli arretrati
 da lavoro dipendente o da prestazioni previdenziali ed  il  ricalcolo
 invece  con  riferimento  agli anni nei quali erano maturati; occorre
 pertanto sospendere il procedimento e disporre la trasmissione  degli
 atti  alla  Corte  costituzionale  per  la  decisione  in ordine alla
 questione, disponendo che la cancelleria provveda alle  comunicazioni
 e notifiche come per legge.