LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto dall'Istituto nazionale della previdenza sociale - I.N.P.S. in persona del presidente pro-tempore elettivamente domiciliato in Roma, via della Freza, 17, presso gli avvocati Valerio Mercanti, Luigi Maresca e Antonio Cotronea che lo rappresentano e difendono giusta procura speciale in calce al ricorso, ricorrente, contro Buccelli Luigi, De Rosa Luigi, Esposito Clemente e Velvi Armando, intimati, per l'annullamento della sentenza del tribunale di Napoli in data 3 luglio 1989, dep. il 17 novembre 1989 (r.g. n. 1585/89); Udita nella pubblica udienza tenutasi il giorno 20 maggio 1991 la relazione della causa svolta dal cons. rel. dott. Genghini; Udito l'avv. Maresca; Udito il p.m. nella persona del sost. proc. gen. dott. Chirico che ha concluso per il rigetto del ricorso; SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con distinti ricorsi i lavoratori resistenti deducevano di essere dipendenti della S.p.a. Snia B.P.D. in cassa integrazione a zero ore e di fruire di pensione di invalidita'; l'I.N.P.S., ai sensi dell'art. 8 della legge n. 638/1983, ritenendo che il tetto di riferimento fissato in L. 10.765.950 fosse stato superato, dapprima sospendeva la pensione, poi ripristinata, e successivamente procedeva al recupero di quanto riteneva dovuto da ognuno dei lavoratori; secondo i lavoratori, invece, erroneamente l'I.N.P.S. aveva considerato superato il tetto, non tenendo conto per l'anno 1983 non potevano conteggiarsi anche le mensilita' relative ai mesi di novembre e dicembre del 1982 percepite successivamente, e, pertanto, chiedevano la restituzione delle somme indebitamente trattenute. Si costituiva l'I.N.P.S. che resisteva alla domanda. Il pretore di Napoli accoglieva le domande. Contro questa sentenza proponeva ricorso l'I.N.P.S. deducendo che il cit. art. 8 della legge n. 638/1983 non distingue tra redditi percepiti e riferiti all'anno di percezione, e altri redditi riferentisi ad anni precedenti, e, inoltre, che, secondo il cit. art. 8, occorre avere riguardo al reddito lordo. Si costituivano i lavoratori ed eccepivano che il reddito sottoposto a tassazione separata, per espressa disposizione di legge non concorre a determinare il reddito annuo. Il tribunale rigettava il gravame, in quanto riteneva applicabili l'art. 12, lett. m), del d.P.R. n. 597/1973, secondo cui gli emolumenti arretrati relativi ad anni precedenti sono soggetti a tassazione separata e quindi non concorrono alla formazione del reddito relativo al periodo in cui sono stati effettivamente percepiti; rilevava inoltre come la Snia avesse indicato per ciascun dipendente un reddito lordo inferiore al minimo previsto per l'anno in discussione. Contro questa sentenza ha presentato ricorso l'I.N.P.S. MOTIVI DELLA ORDINANZA Con l'unico mezzo, il ricorrente si duole per la violazione e falsa applicazione dell'art. 8 del d.- l. n. 463/1983 convertito con modificazioni nella legge n. 638/1983 (art. 360, numeri 3 e 5 del cod. proc. civ.), non avendo considerato che l'art. 8 non si riferisce esclusivamente al reddito da lavoro dipendente, ma anche a quello da lavoro autonomo o professionale o da impresa, onde non possono applicarsi soltanto le regole stabilite in materia fiscale per i redditi da lavoro dipendente; inoltre il limite fissato dalla norma, per il reddito aliunde percepito, e' tale in quanto oltre il medesimo la pensione di invalidita' perde la caratteristica di sostegno alle esigenze primarie del lavoratore e della sua famiglia; ne consegue che occorre aver riguardo a quanto effettivamente introitato nell'anno solare; d'altra parte il computo del reddito secondo il criterio di cassa e' stato confermato legittimo dalla Corte costituzionale (sentenza n. 1067/1988) ai fini della determinazione del reddito per la maggiorazione degli assegni familiari; si rileva infine il travisamento di fatto che si risolve in un difetto di motivazione, con riferimento al superamento del limite stabilito dalla legge sommando tutti gli emolumenti lordi effettivamente percepiti nell'anno 1983. Ai fini della decisione, dovendo applicarsi alla fattispecie l'art. 10 r.d.-l. 14 aprile 1939, n. 636, convertito con modificazioni nella legge 6 luglio 1939, n. 1272, e successive modificazioni ed integrazioni, ed in particolare l'art. 8 del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modifiche nella legge 11 novembre 1983, n. 638, occorre porsi, anche di ufficio, la questione di costituzionalita' della citata norma, in relazione agli articoli 3 e 38 della Costituzione, in quanto non prevede specificamente che nella determinazione del tetto di riferimento, fissato in L. 10.765.950, non si debbono computare gli arretrati percepiti dal lavoratore, per compensi di lavoro subordinato, o dall'assicurato, per prestazioni previdenziali. La rilevanza della questione e' evidente, posto che, qualora la Corte costituzionale affermasse la illegittimita' costituzionale della norma "in quanto non esclude dal reddito lordo annuo, quanto percepito come arretrati da lavoro dipendente o da trattamento previdenziale", ne discenderebbe la conseguenziale legittimita' della decisione del tribunale impugnata, pur con diversa motivazione, mentre nel caso contrario si dovrebbe accogliere la impugnazione dell'I.N.P.S. che sulla attuale formulazione della norma si fonda. Si deve a questo riguardo ricordare come la definizione legale di "arretrati" discende dall'art. 12 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, che prevede per gli stessi la tassazione separata con l'aliquota prevista dal successivo art. 86, e che questa suprema Corte ha affermato che devono considerarsi tali quelli comunque corrisposti in un periodo di imposta successivo a quello di debenza, anche per mera mancanza di fondi da parte del datore di lavoro o per ritardo nella procedura di liquidazione; ad esempio i ratei di pensione, che siano percepiti dopo il 1 gennaio 1974, cioe' della introduzione dell'imposta sul reddito delle persone fisiche di cui al d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, vanno equiparati agli emolumenti arretrati di lavoro dipendente, e restano assoggettati alla detta imposta, secondo il criterio della tassazione separata (Cass. 3 maggio 1986, n. 3019, 5 luglio 1986, n. 4423, 22 gennaio 1987, n. 564). La stessa espressione "reddito lordo" e' specificamente deducibile dall'art. 11 del cit. d.P.R. n. 597/1973, e, secondo la costante interpretazione datane dalla giurisprudenza di questa suprema Corte, deve intendersi con riferimento al reddito considerato prima delle ritenute fiscali, compresi i redditi di cui agli artt. 4 (redditi altrui imputabili al soggetto) e 5 (redditi prodotti, in forma associata) dello stesso d.P.R. Deve tenersi conto che, secondo l'art. 7 citato, "l'imputazione dei redditi al periodo di imposta e' regolata dalle norme relative alle varie categorie di redditi, salvo quanto stabilito nei successivi artt. 12, 13 e 14 per i redditi sui quali l'imposta si applica separatamente"; d'altra parte occorre avere riguardo alla particolare estensione ed assimilazione alla categoria del reddito da lavoro dipendente di cui all'art. 47, e si deve sottolineare come il reddito da impresa sia esplicitamente escluso dalla tassazione separata in tutte le sue componenti (art. 12, primo comma). Cio' a sottolineare la diversificazione esistente nella disciplina del reddito da lavoro, rispetto alle diverse fonti di reddito, che, in non ultima analisi, e' attuazione nel sistema legislativo dei principi generali di tutela del lavoro di cui all'art. 35 della Costituzione. Per quanto poi attiene ai redditi da lavoro autonomo, si deve osservare come la loro disciplina, ai fini che qui interessano, in- clude esplicitamente le ipotesi di cui alle lettere f) e g) dell'art. 12, le quali, qualora, beninteso, non siano componenti del reddito di impresa, rientrano anche esse esplicitamente nella previsione normativa della tassazione separata. Ma la elaborazione interpretativa dei principi fatta in materia tributaria, non e' suscettibile di applicazione in materia previdenziale, posto che puo' ritenersi diritto "vivente" che, ad esempio, il principio di progressivita' delle aliquote contributive, dettato per il sistema fiscale, non e' estensibile al sistema di contribuzione previdenziale (Cass. 15 maggio 1990, n. 4146, 5 aprile 1990, n. 2820, 27 febbraio 1988, n. 2096, 15 gennaio 1988, n. 281, 17 gennaio 1983, n. 408, 23 aprile 1982, n. 2513, 28 giugno 1979, n. 3642) avendo il detto sistema contributivo carattere solidaristico e non connotazioni tributarie (Cass. 7 aprile 1988, n. 2769); inoltre i contributi unificati in agricoltura non sono oneri di carattere fiscale, ma prestazioni pecuniarie aventi riferimento al sistema previdenziale (Cass. 25 marzo 1971, n. 850, 10 giugno 1968, n. 1786), cosi' come si evince anche dall'art. 7 del d.- l. 23 dicembre 1977, n. 942, convertito in legge 27 febbraio 1978, n. 41, per il quale "dall'estensione delle agevolazioni fiscali all'intero territorio montano, disposta dall'art. 12, ultimo comma, della legge 3 dicembre 1971, n. 1102, deve intendersi esclusa l'esenzione dal pagamento dei contributi agricoli unificati di cui al r.d.-l. 28 novembre 1938, n. 2138" (Cass. 12 gennaio 1984, n. 265, 9 gennaio 1984, n. 148, s.u. 28 ottobre 1983, n. 6375, 22 febbraio 1983, n. 1323); sporadiche decisioni di contenuto diverso, si sono avute ma limitatamente ad applicazioni in materia processuale o procedimentale. Neppure possono ritenersi direttamente applicabili le norme in materia di imposte sul reddito delle persone fisiche, alla materia previdenziale, in generale, ed a quella della pensione di invalidita', in particolare, soltanto perche' il cit. art. 8 del d.-l. n. 463/1983 prevede al secondo comma che "per l'accertamento del reddito di cui al precedente comma, gli interessati debbono presentare all'I.N.P.S., con le modalita' da questo indicate, la dichiarazione di cui all'art. 24 della legge 13 aprile 1977, n. 114"; dichiarazione che, peraltro, evidentemente non potrebbe che avere lo stesso contenuto dei certificati rilasciati dagli uffici delle imposte dirette e, pertanto, dovrebbe distinguere il reddito relativo al periodo di imposta dai redditi soggetti a tassazione separata. A tale intepretazione sono di ostacolo, oltre ai cennati principi che non consentono di estendere alla materia previdenziale la elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria in materia tributaria, il fatto che si tratta di un richiamo alla legge n. 114/1977 di contenuto delimitato alla sola dichiarazione autocertificatoria, e pertanto di un richiamo alla legge fiscale meramente indiretto, e di contenuto esclusivamente probatorio. La sentenza n. 1067 del 6 dicembre 1988 della Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6 del d.-l. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito nella legge 25 marzo 1983, n. 79, e dell'art. 2, secondo comma, del d.-l. 17 aprile 1984, n. 70, convertito nella legge 12 giugno 1984, n. 219, nella parte in cui, ai fini dell'attribuzione della maggiorazione degli assegni familiari, ricomprendono nel calcolo annuale del reddito familiare complessivo, assoggettabile all'IRPEF nell'anno precedente al periodo di paga in corso, anche gli emolumenti relativi ad anni anteriori e soggetti a tassazione separata, escludendo soltanto i trattamenti di fine rapporto. Riteneva la Corte che "poiche' il rapporto (tra i flussi salariali nella famiglia ed il reddito familiare complessivo assoggettabile all'imposta personale sul reddito, non inferiore al 70 per cento) deve essere verificato anno per anno in base alle risultanze delle dichiarazioni annuali dei redditi dei componenti il nucleo familiare, e' ragionevole che nel coacervo dei redditi, da assumere come parametro per stabilire la spettanza o meno della maggiorazione di cui e' causa, siano compresi anche gli arretrati di retribuzione percepiti nel periodo di paga considerato, posto che essi pure concorrono ad integrare la disponibilita' di mezzi economici della famiglia in tale periodo". Soggiunge la motivazione della Corte: "Se non fossero conteggiati nell'anno di percezione, i redditi soggetti a tassazione separata dovrebbero essere conteggiati nell'anno di maturazione. Ma questa soluzione in primo luogo contrasterebbe con la ratio della legge, in quanto la spettanza della maggiorazione in quell'anno verrebbe determinata in base alla capacita' economica potenziale, non effettiva, della famiglia; in secondo luogo offenderebbe il principio di economicita', addossando all'I.N.P.S. l'onere di rifare i calcoli per quell'anno e provvedere alle rettifiche conseguenti, e ai lavoratori l'obbligo di restituire le somme che risultassero non spettanti". Ancorche' possa ritenersi pacifica la natura previdenziale degli assegni familiari erogati dall'I.N.P.S. (Cass. 8 marzo 1986, n. 1567 e 2 ottobre 1985, n. 4775), non sembra che i principi affermati dalla Corte delle leggi in tema di assegni familiari, siano senz'altro recepibili in materia di pensione di invalidita'. Si deve infatti sottolineare la differenza esistente nella intrinseca natura degli assegni familiari rispetto alla pensione di invalidita', nonche' la del tutto difforme situazione soggettiva che tali prestazioni previdenziali presuppongono. Gli assegni integrano una "maggiorazione", cioe' una integrazione, di un trattamento, retributivo o previdenziale (art. 4 del d.-l. 2 marzo 1974, n. 30, convertito in legge 16 aprile 1974, n. 114), che, per effetto dei familiari a carico, potrebbe risultare non del tutto sufficiente, e pertanto in eventuale violazione dell'art. 36 della Costituzione. Diversamente la pensione di invalidita' (secondo la denominazione adottata nella legislazione in vigore prima della legge 12 giugno 1984, n. 222) ed ora, con la legislazione vigente, la pensione di inabilita', presuppongono accertata, una situazione di insufficienza reddituale che gia' era quasi assoluta (riduzione a meno di un terzo), e che in base alla formulazione dell'art. 2 della legge n. 222/1984, e' divenuta assoluta ("assoluta e permanente impossibilita' di svolgere qualsiasi attivita' lavorativa", ed e' inoltre "subordinata alla cancellazione dell'interessato dagli elenchi anagrafici degli operai agricoli, dagli elenchi nominativi dei lavoratori autonomi e dagli albi professionali, alla rinuncia ai trattamenti a carico dell'assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione e ad ogni altro trattamento sostitutivo od integrativo della retribuzione". Ne discende che mentre gli assegni familiari sono rivolti ad impedire che, per effetto del carico familiare (Cass. 26 novembre 1977, n. 5167), il trattamento retributivo o previdenziale del lavoratore, in astratto non insufficiente "ad assicurare a se' ed alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa", ai sensi dell'art. 36 della Costituzione, possa risultare in concreto, in relazione alla particolare situazione familiare, al disotto del cennato limite di sufficienza, diversamente la previgente pensione di invalidita', e ancor piu' la pensione di inabilita' di cui all'art. 2 della citata legge n. 222/1984, presuppongono una situazione conclamata di bisogno come conseguenza della invalidita' e della inabilita' (cfr. ex pluris, Cass. 7 marzo 1983, n. 1667, e, da ultimo, 16 febbraio 1990, n. 1167; cfr. inoltre, a contrario, Cass. 18 dicembre 1985, n. 6484). Da tempo in realta' questa suprema Corte ha sottolineato come la determinazione delle condizioni a cui e' subordinato il sorgere del diritto alle prestazioni assicurative e previdenziali, per conformarsi al disposto dell'art. 38 della Costituzione, deve essere basata sulla "sicura" esistenza "di mezzi adeguati alle esigenze di vita" del lavoratore, proprio "in caso di infortunio, malattia, invalidita' e vecchiaia, disoccupazione involontaria", e cioe' corrispondente ad una situazione del lavoratore che escluda il bisogno della prestazione previdenziale (cfr., ad es., Cass. 17 gennaio 1972, n. 127). Pertanto le discipline legislative succedutesi nel tempo a tutela di questa particolare condizione, debbono ritenersi puntuale applicazione dei principi di uguaglianza e di solidarieta' solennemente sanciti dagli artt. 3 e 38 della Costituzione. Ed invero assicurare all'inabile i mezzi di vita, e' sicuramente il solo modo per rimuovere quelle condizioni di bisogno che costituirebbero altrimenti "ostacoli di ordine economico e sociale" limitative di fatto della sua liberta' e della sua eguaglianza con gli altri cittadini, e, inoltre, che certamente "impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese"; cio' vale anche per "i cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere" di cui all'art. 38 della Costituzione. Qui giova sottolineare che e' risultato accertato in fatto che i mezzi dei quali disponeva l'interessato erano intrinsecamente tali da non essere sufficienti per vivere, e che soltanto in quanto in un determinata annualita' erano confluiti anche gli arretrati di alcune annualita' precedenti, ne era risultato un "reddito complessivo" eccedente il limite posto dalla legge, e conseguentemente l'I.N.P.S. aveva disposto di recuperare quanto nel frattempo erogato. Ed e' evidente che la "sovrabbondanza" di reddito in un anno, per effetto della percezione degli arretrati relativi ad annualita' precedenti, era assorbita (e, neppure integralmente, compensata) dalle piu' gravi necessita' derivate all'assicurato dalla mancata percezione di quanto dovuto; e' intuitivo a quali onerosi rimedi ricorra in tal caso un piccolo risparmiatore, ed e' ben nota al riguardo la evoluzione della giurisprudenza di questa suprema Corte con riferimento all'art. 1224 del cod. civ. Ma in tal guisa, ove la disciplina cennata dovesse produrre gli effetti invocati dall'istituto ricorrente, si determinerebbe una situazione di disparita' di trattamento di soggetti in identica situazione e posizione soggettiva, per effetto di un elemento del tutto estraneo alla condotta dell'interessato, del tutto casuale, se addirittura non riferibile proprio al soggetto obbligato (il che, nell'ambito del grande numero di assistiti, potrebbe persino assumere rilevanza statistica), quale e' la percezione di emolumenti arretrati. Anzi, a ben vedere, nel caso in esame i lavoratori dei quali si tratta erano doppiamente incolpevoli della situazione prodottasi: una prima volta allorche' erano stati posti in cassa integrazione per disoccupazione involontaria, ed una seconda volta allorche' la integrazione salariale, in luogo di essere corrisposta puntualmente, perveniva, per piu' annualita', in ritardo, in unica soluzione. E' invero intuitivo che appare del tutto irragionevole una disciplina legislativa, la quale, in presenza di due soggetti nella identica situazione di invalidita' o addirittura di inabilita', e che siano altresi', nel tempo, percettori del medesimo reddito complessivo, ma par i quali tuttavia questo reddito risulti diversamente distribuito a causa del fatto che uno solo di essi percepisca ritardatamente una parte dei redditi pregressi (per cause certo a lui non imputabili), esclusa quest'ultimo soggetto dal trattamento previdenziale per le annualita' nelle quali, per effetto della cennata ritardata percezione degli emolumenti, risulta superata la soglia massima di reddito complessivo fissata dalla legge. Una siffatta disciplina, invero, oltre ad apparire lesiva del principio della parita' di trattamento, a parita' di situazioni giuridiche, di cui all'art. 3 della Costituzione, e' fortemente sospetta di contrasto con lo stesso art. 38 della Costituzione, atteso che, fissati nella legge alcuni parametri di condizione fisica e di situazione soggettiva economica, dai quali discendono determinati trattamenti previdenziali in osservanza della norma costituzionale, individua poi una eccezione a tale disciplina, per un fatto del tutto estrinseco alla reale situazione soggettiva dell'assistito, quale la percezione di arretrati. Avviene cioe' che la Costituzione fissa solennemente dei principi di tutela, in osservanza dei quali la legge determina in concreto quali siano le condizioni soggettive in presenza delle quali sorge il diritto ad ottenere quella tutela; poi, si verifica un occasionale ritardo nella erogazione di quanto dovuto, e, per effetto della sommatoria al momento della percezione, "contabilmente" in quella annualita' il reddito risulta superiore alla soglia di legge, ed il diritto anzidetto ne risulta sospeso. Un fatto, a ben vedere, che lungi dal prospettare una situazione di miglior favore, individua uno stato ulteriore di maggior bisogno, posto che, al di la' di ogni intuitiva considerazione in ordine alla, solo parziale, reintegrazione del danno dovuto alla svalutazione ed al ritardo nell'adempimento, non e' revocabile in dubbio che economicamente appare preferibile la condizione di colui che abbia percepito puntualmente le sue spettanze, rispetto al soggetto che, a parita' di reddito e di ogni altra circostanza, percepisca invece in ritardo alcune annualita'. Con la conseguenza, macroscopicamente ingiusta, che la disciplina legislativa sarebbe piu' favorevole non al soggetto in condizione svantaggiata, ma a quello che versa in una situazione sostanzialmente migliore: e cio' nell'ambito di una legislazione rivolta a soccorrere i lavorativi e gli assicurati che si trovano in una situazione di bisogno. Vi e' un ulteriore motivo di irrazionalita' della disciplina della pensione di invalidita' quale risultante dalla modifica disposta con il d.-l. 12 settembre 1983, n. 463, come convertito con modificazioni, nella legge n. 638/1983: l'art. 8 al primo cpv., infatti, commisura l'"importo lordo annuo" all'ammontare del trattamento minimo del fondo pensioni lavoratori dipendenti in misura pari a tredici volte l'importo mensile in vigore al 1 gennaio di ogni anno, ma in tal guisa pone in essere un raffronto tra entita' eterogenee, atteso che le tredici mensilita' anzidette si riferiscono necessariamente a quanto percepibile nell'arco di tempo di un anno, mentre la inclusione nel reddito inteso come "importo lordo annuo", include emolumenti che si riferiscono ad annualita' arretrate, e pertanto il confronto ed il riferimento sono tra entita' temporalmente non omogenee. Ulteriore elemento di irrazionalita' si coglie anche con riferimento alla disciplina di cui all'art. 429, terzo comma, del cod. proc. civ. ed alle somme dovute dal datore di lavoro per rivalutazione monetaria; tali somme (delle quali, come noto, si esclude la natura risarcitoria da fatto illecito: Cass. 2 febbraio 1985, n. 717), sono soggette, all'atto del pagamento, alla ritenuta di acconto (art. 23, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600), con applicazione, ove il credito originario si riferisca a pregressi periodi di imposta, dell'aliquota propria del sistema di tassazione separata di cui agli artt. 12, lett. D), e 13, primo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597; ma evidentemente di tali somme, anch'esse percepite in ritardo a causa dell'inadempimento totale o parziale del datore di lavoro (ove dovesse ritenersi legittima la formulazione legislativa secondo la interpretazione che sostiene la impugnazione nel presente ricorso, e che innegabilmente appare fondata sulla formulazione letterale della legge), dovrebbe tenersi conto ai fini della determinazione del reddito complessivo da considerare per l'attribuibilita' della pensione di invalidita'. Non resta che esaminare gli argomenti di cui alla citata sentenza n. 1067/1988 della Corte costituzionale. Occorre valutare separatamente i due cennati argomenti, per stabilire se gli stessi siano suscettibili di spiegare la loro influ- enza anche nella fattispecie in esame. Va tuttavia innanzi tutto posto in evidenza il divario concettuale esistente tra la maggiorazione degli assegni familiari e la pensione di invalidita'. A tal fine e' sufficiente considerare che, a prescindere dal dato generico che in entrambi in casi si versa nell'ambito di una prestazione di natura previdenziale, mentre l'assegno di invalidita' o la pensione di inabilita' presuppongono, come si e' visto, una situazione di bisogno dell'assicurato, e questa ne costituisce condizione ineliminabile perche' sorga il diritto, diversamente per gli assegni familiari si versa in un ambito che e' di mera integrazione ed adeguamento delle spettanze lavorative (o previdenziali) al fine di renderle adeguate alla situazione familiare dell'avente diritto; si puo' affermare che mentre il trattamento di invalidita' e' rivolto a rimuovere una situazione di bisogno verificatasi per effetto della malattia, l'assegno familiare impedisce che una situazione di bisogno possa generarsi per effetto del mancato adeguamento delle spettanze del lavoratore o dell'assicurato, alla maggiore entita' delle esigenze familiari; si tratta di una integrazione o di una maggiorazione rivolta ad impedire che la presenza di familiari a carico rendano insufficiente quanto percepito, determinandosi, per l'effetto, una situazione di bisogno. Vi e' tra le due prestazioni la differenza che corre tra un rimedio ad una situazione di bisogno in atto, ed una integrazione rivolta ad impedire che una situazione potenzialmente lesiva, possa divenirlo in concreto. La norma limitativa del diritto per gli assegni familiari (art. 6, primo e terzo comma del d.-l. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito in legge 25 marzo 1983, n. 79 e art. 2, secondo comma, del d.-l. 17 aprile 1984, n. 70, convertito in legge 12 giugno 1984, n. 219) e' diversa da quella limitativa della pensione (art. 10 del r.d. 14 aprile 1939, n. 636, convertito, con modificazioni, in legge 6 luglio 1939, n. 1272, quale risultante per effetto del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, nella legge 11 novembre 1983, n. 638): la prima, considera esplicitamente "il reddito complessivo, conseguito dai coniugi e dai figli minori ed equiparati a carico, nonche' dai figli maggiorenni conviventi, assoggettabile all'imposta sul reddito delle persone fisiche nel periodo di imposta dell'anno immediatamente precedente al periodo di paga"; la seconda, invece, nega l'attribuzione della pensione di invalidita', o, se attribuita ne sospende la corresponsione, qualora l'assicurato o il pensionato "siano percettori di reddito da lavoro dipendente" o "da lavoro autonomo, o professionale, o d'impresa per un importo lordo annuo" che sia "superiore a tre volte l'ammontare del trattamento minimo del fondo pensioni lavoratori dipendenti calcolato in misura pari a tredici volte l'importo mensile in vigore al 1 gennaio di ciascun anno", senza alcun riferimento al periodo di imposta. Per quanto attiene alla possibilita' di conteggiare i redditi nell'anno di maturazione, anzicche' in quelli di percezione, a ben vedere, cio' non darebbe luogo ad una valutazione della condizione individuale in base alla "capacita' economica potenziale", cioe' meramente prognostica, ma ad una capacita' effettiva e realizzata, ancorche' accertata in tempo successivo. Ben vero che cio' imporrebbe di "rifare i calcoli", ma la incidenza di tale ricalcolo sui criteri di "economicita'" della gestione, non appare decisiva, e per diverse ragioni. La Corte costituzionale ha fatto ricorso al concetto di "economicita'" nelle sentenze n. 177 del 7 luglio 1986, n. 431 del 3 dicembre 1987, n. 110 del 26 gennaio 1988, n. 127 del 2 febbraio 1988, sempre inteso come "economicita' di gestione"; nella sentenza n. 177 succitata, si trattava del potere surrogatorio statale, in riferimento ai soggetti di autonomia speciale, con riguardo al coordinamento in materia di spesa sanitaria, finalizzato "ad assicurare maggiore economicita' di gestione delle singole strutture", e si riteneva illegittima la disciplina affermativa del potere surrogatorio, pur se finalizzata ad assicurare tale "maggiore economicita' di gestione delle singole strutture"; nella successiva sentenza n. 431 su precisata, in ordine ad una questione sollevata con riguardo alla incoerenza e difetto di univoca omogeneita' di ripartizione degli oneri relativi alla contribuzione sociale di malattia (art. 31 della legge 28 febbraio 1986, n. 41), riteneva la infondatezza della stessa "in quanto il sistema, pur frammentizzato, risulti, nei suoi collegamenti con i pregressi interventi legislativi, l'ultimo definitivo anello di congiunzione per l'attuazione di una disciplina che assicuri puntuale certezza nella sistemazione delle prestazioni e dei relativi oneri, ed in cui alla generale contribuzione corrisponda un servizio fruibile dall'iintera collettivita' e improntato ad efficienza, correttezza ed economicita' di gestione"; nella sentenza n. 110/1988 succitata, era affermata la manifesta infondatezza della questione relativa all'art. 13 della legge istitutiva dell'E.N.E.L. (n. 1643 del 6 dicembre 1962) che escludeva il trasferimento all'ente del personale assunto dopo il 1 gennaio 1962, essendo la ratio della norma rivolta a "determinare con certezza gli organici dell'ente pubblico secondo un principio di economicita' della gestione"; infine nella citata sentenza n. 127/1988 non era considerata illegittima la disciplina (art. 4, lett. f), del d.-l. 11 gennaio 1974, n. 1, convertito con modificazioni nella legge 11 marzo 1974, n. 46) che attribuiva all'Ente Porto di Napoli la discrezionale determinazione del corrispettivo per l'approdo, posto che non si trattava di controprestazione,ma del "risultato della valutazione del singolo servizio reso nel quadro globale dell'economicita' della gestione e dell'efficiente e produttivo impiego del bene stesso". Come si vede soltanto nella sentenza n. 177/1986 si pone la economicita' in diretta relazione alla disciplina legislativa, al fine di accertare se possa costituire ratio giustificativa di una limitazione della sfera soggettiva (nel caso addirittura pubblica), e si esclude che la finalita' di una maggiore economicita' possa rendere legittima una "puntuale e penetrante ingerenza nella sfera di autonomia speciale", soprattutto allorche' il potere surrogatorio statale e' "espressione di funzione di coordinamento non connessa direttamente alla tutela del valore costituzionale della salute". Cioe' non basta il fine di perseguire una maggiore economicita' per ledere i limiti di attribuzioni, specialmente se non vi e' diretta connessione con la tutela di valori costituzionali. Principio che nella sua assoluta chiarezza, non si vede come potrebbe non applicarsi anche alla fattispecie in esame. Nelle altre sentenze, il richiamo alla economicita' e' solo indiretto, e non costituisce il fondamento per affermare la legittimita' costituzionale della disciplina in ordine alla quale era stata sollevata la questione. Nel caso in esame, invero, il collegamento tra la posizione soggettiva, il diritto alla prestazione previdenziale, di rilievo costituzionale (art. 38 della Costituzione), e la economicita' della gestione da parte dell'I.N.P.S., appare indiretto, posto che, innanzi tutto, e' opinabile, ed anzi si deve escludere, che i "ricalcoli" delle posizioni individuali in occasione della percezione di arretrati, debbano avvenire manualmente e caso per caso; in realta' e' ben noto che l'I.N.P.S. e' titolare delle apparecchiature e dei programmi (c.d. hardware e software) informatici piu' avanzati esistenti nella pubblica amministrazione, ne' potrebbe essere diversamente per la gestione di un cosi' grande numero di assistiti; e' evidente che al fine di compiere tali calcoli, si dovrebbe predisporre, una tantum, un programma che alla percezione di arretrati (sottoposti ovviamente a contribuzione), provveda altresi' a computare la somma con quanto gia' percepito nelle annualita' di maturazione, stabilendo se, per effetto di cio', si sia verificato il superamento, in quella annualita', della soglia legale di reddito massimo al fine di mantenere il diritto al trattamento previdenziale. La incidenza dei costi di una siffatta programmazione, tenuto conto della enorme quantita' di assistiti rispetto alla quale dovrebbe ripartirsi, non appare invero neppure statisticamente rilevante e non e' certo tale da incidere sulla economicita' della gestione. Inoltre, proprio per la esiguita' della incidenza pro capite, non appare in nessun caso tale da giustificare la lesione di un principio fondamentale di tutela, quale quello posto dall'art. 38 della Costituzione, attraverso una disciplina che appare fortemente sospetta di essere altresi' in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, quanto meno, come nel caso in esame, con riferimento a fattispecie di particolare difficolta' dei destinatari, quali sono evidentemente quelle riguardanti lavoratori in cassa integrazione guadagni e titolari di pensione di invalidita' (o di inabilita'). Infine, il criterio della economicita', introdotto, con l'art. 3 della legge 22 dicembre 1956, n. 1589, nella nostra legislazione con riferimento alla gestione delle imprese a partecipazione statale (delle quali e' appena il caso di sottolineare la differenza con riguardo all'ente pubblico previdenziale, che, ovviamente non ha tra le sue finalita' la produzione di profitti), appare difficilmente conciliabile, nella fattispecie in esame, con il principio di cui al primo comma dell'art. 97 della Costituzione. Ed infatti, ove si ritenesse che in fattispecie analoghe a quelle oggetto del ricorso, per realizzare la economicita' della gestione dell'I.N.P.S. debbano essere sacrificati i diritti soggettivi degli assistiti, cio', in concreto, produrebbe il trasferimento in capo agli assicurati delle conseguenze dannose degli effetti del cattivo (in quanto ritardato) funzionamento dell'istituto previdenziale, il che certo non contribuirebbe a che "siano assicurati il buon andamento e l'imparzialita' dell'amministrazione". Consegue a quanto esposto che non appare manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, la questione di costituzionalita' dell'art. 10 del r.d.-l. 14 aprile 1939, n. 636, convertito con modificazioni nella legge 6 luglio 1939, n. 1272, e successive modificazioni ed integrazioni, ed, in particolare, dell'art. 8 del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modifiche nella legge 11 novembre 1983, n. 638, in quanto non prevedono la esclusione dal computo del reddito lordo degli arretrati da lavoro dipendente o da prestazioni previdenziali ed il ricalcolo invece con riferimento agli anni nei quali erano maturati; occorre pertanto sospendere il procedimento e disporre la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione in ordine alla questione, disponendo che la cancelleria provveda alle comunicazioni e notifiche come per legge.