IL PRETORE
    Letti gli atti del proc. pen. n. 3136/91  a  carico  di  Angeletti
 Ubaldo,  nato  a  Macerata  il 23 agosto 1955, residente ivi Borgo S.
 Giuliano, 200, imputato del reato di cui agli  artt.  81  e  528  del
 codice  penale  perche',  nella  sua qualita' di socio accomandatario
 della ditta Videoshop S.a.s.  di  Angeletti  esercente  attivita'  di
 noleggio  e vendita di videocassette, deteneva, per farne commercio o
 distribuzione, n. 38 videocassette, acquistate presso la  Blue  Movie
 S.r.l.  di  Milano, contenenti immagini che offendono il comune senso
 del pudore e, quindi, oscene. In Civitanova Marche  il  21  settembre
 1990;
    Premesso  che nel corso dell'adunanza dibattimentale e' emerso che
 l'imputato deteneva le videocassette a contenuto osceno in un  locale
 diverso  e separato da quello di vendita delle normali videocassette,
 allo scopo di consegnarle solo a quei clienti che ne  avessero  fatto
 esplicita richiesta;
                             O S S E R V A
    Il  tema  della  tutela penale del buon costume costituisce, senza
 alcun dubbio, uno dei terreni piu' accidentali del diritto penale, in
 conisiderazione delle diverse  possibili  valenze  attribuibili  alla
 tutela  in  esame.  Si  pensi  all'approccio relativistico, in cui la
 valutazione del pudore deve tenere conto degli  atteggiamenti  etico-
 sociali piu' diffusi in un certo momento storico; ovvero alla visione
 deontologica  che  tende ad "assolutizzare" il pudore alla stregua di
 un valore obbiettivo. In ogni caso la costante  attenzione  verso  il
 concetto  di  buon  costume, deriva soprattutto dalla circostanza che
 esso  rientra  nel  novero  dei  valori  esplicitamente  menzionati e
 garantiti dalla Costituzione. Ne sono derivate  ampie  e  controverse
 discussioni   sulla  individuazione  della  portata  definitoria  del
 concetto  che  svolge  la  funzione  di  limite  alla   liberta'   di
 manifestazione del pensiero.
    Non  e'  questa  la sede piu' opportuna per ripercorrere i termini
 del dibattito. Appare, invece, piu' importante sottolineare  come  la
 gran  parte  della dottrina e della giurisprudenza siano pervenute ad
 una conclusione di indubbio rilievo: di considerare, cioe', il limite
 posto all'ultimo comma dell'art. 21 della Costituzione  con  il  buon
 costume  in  senso  penalistico,  relativo  alla sola sfera sessuale,
 estrapolandolo dal contesto di concetti piu'  vaghi  e  sfumati  come
 quello di pubblica moralita'.
    La    individuzione   del   buon   costume   sessuale,   concepito
 fondamentalmente  come  tutela  del  pudore  e  dotato  di  rilevanza
 costituzionale, non sta certo a garantire la univocita' del concetto.
    Al   contrario:   essendo  estraneo  ad  una  moderna  democrazia,
 connotata da un relativismo  assiologico  espressivo  del  pluralismo
 delle  idee,  l'intento  di  imporre  valori assoluti sulla scorta di
 un'etica precostituita, si rende necessaria una comprensione storico-
 relativistica della categoria del buon costume.  Una  lettura,  cioe'
 che assegna alla tutela penale una finalita' meramente "conservativa"
 dei livelli di costumatezza esistenti. Lo Stato, in altre parole, non
 e'  legittimato  a  ricorrere  allo  strumento  penale  per affermare
 modelli  etici  di  condotta,  o  per  promuovere  un   miglioramento
 complessivo  del  costume.  I principi (costituzionali) di tolleranza
 ideologica e  di  protezione  delle  minoranze  si  frappongono  come
 insormontabili ostacoli. Non a caso, del resto, la tematica dei reati
 sessuali  ha  rappresentato  -  nel  contesto  degli  studi  sul bene
 giuridico  -  un  punto  privilegiato  di  interesse  riguardo   alla
 determinazione dei limiti del potere punitivo statale.
    La  recente,  rinnovata  attenzione  verso  le  funzioni  del bene
 giuridico, ha condotto al recupero di una importante istanza  critica
 che  si traduce nell'idea che la liberta' personale non possa subi're
 limitazioni, attraverso l'irrogazione della pena, in  presenza  della
 violazione  di  beni  dotati  di  minore  valore.  Non  si  tratta di
 rispolverare,  per  pregiudizio  ideologico,   i   fondamenti   della
 filosofia  illuministica  (che  peraltro hanno disegnato una parabola
 non del tutto coerente con l'originaria impostazione).
    Nel nostro ordinamento, e' la legge fondamentale - la Costituzione
 -  a  "segnare"  il  volto  dell'illecito  penale.  Facendo   proprie
 raffinate   elaborazioni   dottrinali,  la  Corte  costituzionale  ha
 recentemente  evidenziato  il  profilo  funzionale   desumibile   dal
 principio   della  riserva  assoluta  di  legge  in  materia  penale,
 affermando che "la Costituzione,  nel  riservare  al  legislatore  le
 scelte criminalizzatrici, impone criteri sostanziali di scelta e pre-
 cise  direttive di politica criminale", facendo proprio "il principio
 illuministico  per  il  quale  il  di  piu'  di  liberta'   soppressa
 costituisce un abuso" (v. sentenza n. 487/1989).
    La  discrezionalita'  del legislatore risulta pertanto vincolata e
 va esercitata in funzione di un unico scopo:  "l'assicurazione  delle
 condizioni  minime  del vivere democratico" (v. sent. cit.). La Corte
 aggiunge, infine, che i principi di sussidiarieta',  proporzionalita'
 e  frammentarieta'  dell'intervento penale costituiscono le direttive
 di  politica  criminale  che  debbono  orientare il legislatore sulle
 scelte criminalizzatrici.
    Sebbene  le   ricostruzioni   del   bene   giuridico   in   chiave
 costituzionale  non  si  sottraggano  a  fondate censure di eccessiva
 rigidita' in punto di prefigurazione  di  una  gerarchia  di  valori,
 l'idea  guida  resta  senz'altro condivisibile: il potere punitivo si
 legittima (e' giustificato) solo se tende a impedire  la  commissione
 di fatti produttivi di "danni sociali".
    Anche in tema di tutela del buon costume, pertanto, la repressione
 penale deve risultare circoscritta a fatti socialmente dannosi.
    Certo: non si possono sottovalutare le difficolta' di far emergere
 un  possibile  effetto  dannoso  in  presenza di un oggetto di tutela
 dello  spessore  essenzialmente   ideale,   calato   all'interno   di
 disposizioni   costruite   con   il  ricorso  ad  elementi  normativi
 extragiuridici dotati di precaria efficacia descrittiva.  Purtuttavia
 spetta alla dottrina e, in particolare, alla giurisprudenza il merito
 di  aver  fatto  progressivamente  emergere  elementi  di  dannosita'
 sociali sulle condotte di trasgressione al buon costume sessuale.
    In  tema  di  protezione  del  pudore  si  sta   consolidando   un
 orientamento  che  configura il "comune sentimento" come tutela della
 liberta' da intromissioni in assenza di un  preventivo  consenso  del
 destinatario dell'atto o dell'oggetto a contenuto erotico.
    In tal modo - come e' stato acutamente sostenuto - si verifica una
 sorta  di  attrazione  della  tutela  del  pudore  nell'ottica  della
 protezione di un bene tradizionale: il bene della liberta' personale,
 in una delle sue tante sfaccettature, "cioe' come diritto  ad  essere
 protetti  dalle  molestie  provocate  dal  dover assistere, contro la
 propria volonta', ad atti o rappresentazioni di  contenuto  sessuale"
 (cosi'  Fiandaca, Ploblematica dell'osceno e tutela del buon costume,
 Padova, 1984, 106).
    Si tratta - come e' evidente - di uno sforzo ermeneutico che punta
 a rendere maggiormente "afferrabile" il parametro valutativo alla cui
 stregua individuare il concetto normativo extragiuridico  di  osceno.
 Ne  discende, inoltre, una migliore verificabilita', su base empirica
 e criminologica, dei fatti che integrano tipiche forme di  offesa  al
 bene giuridico.
    Resta,  tuttavia,  da  accertare  se  le norme previste dal codice
 penale risultano compatibili con una siffatta ricostruzione del  bene
 giuridico.
    Si  puo'  senz'altro  rispondere  affermativamente  per  cio'  che
 concerne, ad es. le fattispecie dell'art. 527  e  dell'art.  726  del
 codice  penale,  ove  gli atti che offendono il pudore possono essere
 reputati dannosi quando violano il diritto di ciascun individuo a non
 subire, senza consenso, la visione di atti sessuali.
    Molto piu'  problematica  appare  invece  la  sovrapposizione  con
 riguardo  a  talune sottofattispecie dell'art. 528 del codice penale,
 segnatamente le ipotesi  di  fabbricazione,  introduzione,  acquisto,
 detenzione di scritti, disegni, immagini etc.
    Mentre  le  altre  condotte  descritte  nell'art. 528, di messa in
 circolazione, ovvero di esposizione  di  scritti,  segni  o  immagini
 osceni  posseggono  di  regola,  una  capacita'  offensiva  del  bene
 giuridico, sempre che avvengano con  modalita'  invasive  dell'altrui
 liberta'  sessuale, il caso per cui e' processo e' rappresentativo di
 una condotta di mera detenzione, esercitata nell'ambito di un  locale
 diverso  da quello di esposizione al pubblico. La vendita delle video
 cassette a contenuto osceno avviene riservatamente ogni qualvolta  un
 cliente richieda il prodotto.
    In   verita',   anche  in  siffatta  ipotesi,  buona  parte  della
 giurisprudenza  di  merito  sostiene   l'insussistenza   del   reato,
 evidenziato  come il carattere riservato della detenzione, allo scopo
 di commercio, non concreta una aggressiva  imposizione  del  prodotto
 pornografico  a  terzi  contrari a fruirne (v. tra le altre, sentenze
 del pretore di Sampierdarena, 22 dicembre 1988, Carrera). Per  giunta
 questo orientamento e' stato recepito, proprio in questi giorni dalla
 Corte di cassazione, a sezione unite, con sent. 1› ottobre 1991.
    E'  opinione  dello  scrivente,  pero',  che  l'interpretazione in
 discorso  propone  una  ortopedia  ricostruttiva  che  sfocia   sulla
 amputazione  di  alcune  componenti  di  struttura  della fattispecie
 incriminatrice.
    L'art. 528 del codice penale punisce la  condotta  di  detenzione,
 illuminata   dal  dolo  specifico,  senza  fornire  alcuna  ulteriore
 indicazione circa le modalita' della stessa.
    Il controllo penale risulta pertanto marcatamente anticipato  sino
 a ricomprendere una mera attivita' preparatoria cui si riconnette una
 presunzione di pericolosita'.
    Non  v'e'  spazio  pertanto per le interpretazioni sostenute dalla
 giurisprudenza di merito e di legittimita', poiche' queste  piu'  che
 ridisegnare  e  aggiornare  il  bene  giuridico  tutelato,  provocano
 l'erosione del contenuto tipico della fattispecie, in violazione  del
 principio costituzionale di tassativita'.
    Sebbene  il  fine risulti ampiamente condivisibile, nondimeno esso
 e'  conseguito  attraverso  un  vistoso  strappo  sul  terreno  della
 tipicita',   del   tutto   inammissibile   perche'   fondato   su  un
 atteggiamento eminentemente "creativo".
    Appare invece plausibile e metodologicamente corretto,  denunciare
 l'eccesso di tutela radicato nella incriminazione di simili attivita'
 preparatorie.
    Cosi'  orientato,  il  controllo  penale  risulta  funzionale alla
 tutela dell'idea di uno Stato-padre o tutore, impegnato a vietare sin
 dall'inizio ogni fenomeno teoricamente suscettibile  di  deviare  dai
 canoni della costumatezza.
    Anziche' proteggere la liberta' personale da molestie indesiderate
 e  improvvise,  lo  Stato  muove dal proposito di bloccare alla fonte
 ogni possibile attivita' perturbatrice: il tal modo tradisce,  pero',
 una  visione  dello  strumento  penale  finalizzata prevalentemente a
 difendere mere concezioni etico-morali e non  gia'  fatti  dotati  di
 effettiva dannosita'.
    Il  messaggio  sotteso  alla predisposizione di una incriminazione
 della mera detenzione, e' quello di uno Stato che tutela la virtu'  e
 protesta indignazione ogni qual volta vi si attenti.
    E',   dunque,   legittima  e  ragionevole  un'anticipazione  cosi'
 accentuata della tutela penale?
    Si e' visto che il controllo penale esteso all'attivita' meramente
 preparatoria tende alla protezione  del  buon  costume  concepito  in
 termini  oltremodo  rarefatti e inafferrabili, perche' ricostruito in
 una prospettiva eticizzante e moralistica.  Ne'  si  puo'  trascurare
 che,   sotto   il   profilo   empirico-criminologico,  e'  pressoche'
 impossibile rinvenire una prova credibile della pericolosita' di tali
 condotte.  Le fattispecie strutturate secondo il modello del pericolo
 astratto si fondano su un giudizio di generale pericolosita', fissato
 dal legislatore nella norma, in quanto riconoscibile e avvertito come
 tale   dalla   collettivita'.   Nel   caso   di   specie   una   tale
 generalizzazione risiede soltanto nella mente del legislatore, ma non
 trova  obiettivo  conforto nel comune sentire. In definitiva cio' che
 si viene a punire e' il pericolo di un pericolo: la preoccupazione di
 uno scadimento  della  morale.  Una  incriminazione  cosi'  concepita
 sembra  porsi  in netto contrasto con alcuni principi costituzionali.
 Innanzi tutto con  il  valore  della  liberta'  individuale  e  della
 dignita'  umana  (risultante dal combinato disposto degli artt. 2, 3,
 13 e 25,  secondo  comma,  della  costituzione)  che  possono  essere
 sacrificati,  mediante  inflizione  di  pena,  solo in presenza della
 lesione di un bene di pari valore o comunque ad esso proporzionato.
    Tale requisito non pare potersi  riconoscere  ad  una  norma  che,
 limitatamente   alla   sottofattispecie   della   detenzione,   evoca
 un'esigenza di tutela di  tipo  prevalentemente  etico-moraleggiante,
 che  vede  lo  Stato  in posizione di tutore della pubblica moralita'
 (concetto, questo, di desolante vaghezza).
    Non basta: la norma in esame contrasta anche con  la  disposizione
 dell'art.   21   della   costituzione   perche'   incide,  attraverso
 l'irragionevole anticipazione della tutela, sul diritto  di  liberta'
 di  pensiero e sul diritto alla liberta' morale. Si vuol dire, cioe',
 che una tutela del buon costume  cosi'  ampia  non  puo'  fungere  da
 limite all'esercizio dei menzionati diritti di liberta'. Detto limite
 si giustifica solo in presenza di una interpretazione restrittiva del
 buon  costume,  giammai  in  forza  di ricostruzioni "totalizzanti" e
 "generiche".
    Infine l'incriminazione in discorso contrasta con l'art. 27, comma
 terzo, della Costituzione  che  stabilisce  la  funzione  rieducativa
 della  pena.  Funzione  che  puo' essere utilmente conseguita solo in
 presenza di fattispecie incriminatrici lesive di  beni  materialmente
 percepibili dal trasgressore, dunque ben definiti. Nel caso di specie
 risulta  veramente arduo riconoscere al trattamento sanzionatorio una
 finalita' rieducativa, tanto e' vago il bene tutelato. E' comunque da
 escludere che essa possa essere rinvenuta  nel  recupero  dei  valori
 insiti in una non meglio qualificabile morale di Stato.
    Per  altro verso deve ulteriormente essere denunciato l'eccesso di
 tutela solo che si rifletta come le fattispecie incriminatrici, situ-
 ate tra i "delitti contro la liberta' individuale", non denotano  mai
 un'anticipazione cosi' avanzata del controllo penale. Ed e' veramente
 azzardato  reclamare  il maggiore rilievo del bene giuridico del buon
 costume rispetto alle altre liberta' protette dall'ordinamento.
    Da ultimo, pare superfluo avvertire che  la  questione  sottoposta
 all'attenzione della Corte, assume una specifica rilevanza sull'esito
 decisorio del presente procedimento.