ha pronunciato la seguente
                               ORDINANZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale  del  combinato  disposto
 degli  artt.  13 e 20 della legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in
 tema  di  delitti  dei  pubblici   ufficiali   contro   la   pubblica
 amministrazione),  in  relazione  agli  artt.  323  e  324 del codice
 penale, promosso con ordinanza emessa il 9 aprile  1991  dal  Giudice
 per  le  indagini  preliminari  presso  il Tribunale di Catanzaro nel
 procedimento penale a carico di Costa Giulio Vito ed altri,  iscritta
 al  n.  449  del  registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 27,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1991;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 4  dicembre  1991  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
    Ritenuto  che, nel corso di un processo penale a carico di persone
 imputate di interesse privato in atti di ufficio, il Giudice  per  le
 indagini  preliminari  presso  il  Tribunale  di  Catanzaro  ha,  con
 ordinanza del 9 aprile 1991, sollevato,  in  riferimento  all'art.  3
 della Costituzione, questione di legittimita' "del combinato disposto
 degli  artt.  13 e 20 della legge 26 aprile 1990, n. 86, in relazione
 agli artt. 323 e 324 del codice penale", nella parte in  cui  "intro-
 duce,  nel  passato",  una  chiara  disparita' di trattamento fra gli
 autori dell'abuso gia' punibile a  norma  dell'art.  323  del  codice
 penale  e  l'autore del piu' grave reato di interesse privato in atti
 di ufficio previsto dall'art. 324 dello stesso codice,  espressamente
 abrogato dall'art. 20 della legge n. 86 del 1990;
      che  il giudice a quo denuncia, quindi, la mancata previsione di
 una disciplina transitoria che renda punibili i  fatti  di  interesse
 privato,  non  potendo  ravvisarsi  "omogeneita'"  oggettiva  fra  la
 condotta punita dall'art. 324 del codice penale e la condotta  punita
 dall'art.  323  dello  stesso  codice,  quale sostituito dall'art. 13
 della legge n. 86 del  1990,  una  disomogeneita'  "accentuata  dalla
 proclamata abrogazione della vecchia norma";
      e  che,  quindi,  stando  al  giudice  a  quo,  l'assetto  cosi'
 delineato  rivelerebbe  una  vera   e   propria   "iniquita'"   nella
 disciplina,  risultando essa incentrata nella persistente punibilita'
 della fattispecie di abuso innominato, "ad offensivita'  meno  grave"
 rispetto  alla  presa  di  interesse,  per  giunta, patrimoniale, una
 fattispecie  con  un  tasso  di  antigiuridicita'  piu'  elevato   e,
 nonostante cio', espressamente abrogata dalla legge n. 86 del 1990;
      che  nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello
 Stato,  chiedendo  che  la questione sia dichiarata inammissibile per
 difetto  di  rilevanza  e,  in  subordine,  non  fondata,  avendo  il
 legislatore,  nell'esercizio  del  suo  potere discrezionale, operato
 scelte non sindacabili in sede di legittimita' costituzionale;
    Considerato   che    l'eccezione    d'inammissibilita'    avanzata
 dall'Avvocatura   Generale   dello   Stato   deve  essere  disattesa,
 desumendosi dall'ordinanza di rimessione l'addebito contestato  anche
 con  riferimento  alla ritenuta ipotizzabilita' di una fattispecie di
 presa  d'interesse  di  contenuto   patrimoniale   e   tanto   appare
 sufficiente perche' venga ritenuto assolto l'onere di cui all'art. 23
 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
      che,   peraltro,   in   punto  di  rilevanza,  la  questione  va
 rigorosamente circoscritta alla disciplina di diritto intertemporale,
 del resto espressamente richiamata dal giudice a  quo  sia  allorche'
 contesta la disparita' di trattamento relativamente al "passato", sia
 quando  imputa l'"iniquita'" della norma censurata con riferimento al
 regime transitorio;
      che, cosi' delimitato l'ambito della denuncia di illegittimita',
 il petitum avuto di mira dall'ordinanza di  rimessione  si  sostanzia
 nella  richiesta  di  introdurre  una  norma  transitoria  che  renda
 punibili i fatti di presa d'interesse di contenuto patrimoniale,  non
 perseguibili  alla stregua della disciplina risultante dalla legge n.
 86 del 1990, in base ai princi'pi che governano la successione  della
 legge penale nel tempo;
      che,  a  parte la contraddizione insita nel richiamo al "divieto
 di irretroattivita'" coinvolgente una disciplina sopravvenuta che  il
 giudice  a  quo  afferma "disomogenea" rispetto a quella abrogata, la
 questione cosi' come proposta, si sostanzia in una censura diretta  a
 sindacare  scelte discrezionali del legislatore nella valutazione dei
 beni tutelati dalla norma penale, scelte non  censurabili  in  questa
 sede  -  soprattutto  allorche' venga dedotta la non conformita' alla
 Costituzione di una disciplina destinata ad esaurirsi con il  decorso
 del  tempo  -  ove  tali  scelte  non sconfinino nella arbitrarieta',
 certamente non invocabile  nella  specie,  perche'  alla  abrogazione
 dell'art.  324,  conseguente  ad  una  piu'  complessa  ed articolata
 repressione dell'abuso di ufficio, assurto  da  ipotesi  residuale  a
 fattispecie   di   reato  caratterizzata  da  peculiari  connotazioni
 soggettive ed oggettive, non era comunque necessario porre riparo con
 la previsione di un'espressa disciplina transitoria;
      che,  peraltro,  il  giudice  a  quo  ha  omesso  del  tutto  di
 considerare   come   la   predetta   disciplina  risulta  individuata
 dall'ormai consolidata giurisprudenza della Corte di  cassazione,  la
 quale,  anche  a  seguito di una decisione delle Sezioni Unite e' nel
 senso di ritenere operanti i princi'pi disciplinanti  la  successione
 della  legge  penale  nel  tempo,  con  la conseguente applicabilita'
 dell'abrogato art. 324 quando questo si riveli, quoad  poenam,  norma
 piu' favorevole;
      che,  quindi,  sotto  entrambi  i  profili  sopra  enunciati, la
 questione proposta deve dirsi manifestamente infondata;
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo  1953,  n.
 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale;