IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro De Santis
 Massimo, nato il 24 dicembre 1967 a Miggiano (Lecce), atto di nascita
 n. 69/A.I., ivi residente in via  Mazzini  n.  53,  celibe,  operaio,
 incensurato; soldato effettivo nel terzo battaglione genio guastatori
 "Verbano" in Udine, libero, imputato di allontanamento illecito (art.
 147,   secondo  comma,  del  c.p.m.p.)  perche',  soldato  nel  terzo
 battaglione  genio  guastatori  "Verbano"  in  Udine,  legittimamente
 assente dal reparto per fruizione di una licenza fino alle ore 24 del
 3  aprile  1991,  senza giusto motivo, si presentava allo stesso solo
 l'8 aprile 1991.
                            FATTO E DIRITTO
    Questo tribunale ritiene provato l'allontanamento  illecito  (art.
 147,  secondo  comma,  del  c.p.m.p.) attribuito al soldato De Santis
 Massimo per la sua assenza dal 3 all'8 aprile 1991.
    Si tratta di reato che come ogni altro per il quale  sia  prevista
 la  pena  della  reclusione  militare non superiore nel massimo a sei
 mesi, non puo' essere punito  se  non  a  seguito  di  richiesta  del
 comandante  (art.  250, secondo comma, del c.p.m.p.); ma nella specie
 la richiesta e' stata presentata (f. 4).
    La norma  dell'art.  260,  secondo  comma,  e'  stata  piu'  volte
 sottoposta   al   vaglio  della  Corte  costituzionale,  manifestando
 tuttavia  un'inusitata  capacita'  di  resistenza.  Con  ben   cinque
 sentenze  (nn.  42/1985, 189/1976, 60/1978, 114/1982, 397/1987) si e'
 stabilito che essa non viola  il  principio  di  uguaglianza,  ne'  i
 diritti  della  persona, ne' i principi della diretta responsabilita'
 penale  del  funzionario,   della   democraticita'   dell'ordinamento
 militare,    dell'imparzialita'   della   pubblica   amministrazione,
 dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
    Trovandosi di fronte ad un  reato  punibile  a  richiesta,  questo
 giudice  non  intende  sollevare  ancora  questioni gia' decise dalla
 Corte;  ma,  non  puo'  esimersi  dal  manifestare  nuovi  dubbi   di
 legittimita'  che investono non tanto la richiesta di procedimento in
 se' considerata, quanto piuttosto la norma  incriminatrice  dell'art.
 147  del  c.p.m.p.,  dal momento che punisce l'assenza arbitraria, di
 durata superiore ad un giorno ed inferiore a cinque, a condizione che
 questa sia la volonta' del comandante di  corpo,  o  di  altro  "ente
 superiore" da cui dipende il colpevole. La richiesta di procedimento,
 in  altri  termini,  ha una prevalente natura non processuale, bensi'
 sostanziale, e percio' rende dubbia,  sotto  i  profili  che  saranno
 esaminati, la legittimita' della norma incriminatrice.
    E'  noto  che  da  tempo  in  dottrina e giurisprudenza si pone il
 problema se la querela, la  richiesta  e  l'istanza  di  procedimento
 siano   condizioni   di   punibilita',   oppure   di   punibilita'  e
 procedibilita', o infine solamente di  procedibilita',  e  che  negli
 ultimi  tempi  si  propende  per  quest'ultima  soluzione.  E  questo
 tribunale non puo' di certo aggiungere nuovi argomenti  di  carattere
 generale  a  quelli,  copiosissimi,  gia' tradizionalmente proposti a
 favore delle varie concezioni. Si deve, tuttavia,  rilevare  come  il
 prevalere   della  tesi  della  condizione  di  procedibilita'  lasci
 piuttosto insoddisfatti, dal momento che  nella  scolorita  categoria
 processuale  i tre cennati istituti vengono ad assimilarsi con quello
 dell'autorizzazione a procedere, e si  dissolvono  le  differenze  di
 origine  e di funzione di querela istanza e richiesta, e la richiesta
 del comandante di corpo, quando non sia addirittura accomunata ad una
 querela, viene a confondersi con la richiesta del  Ministro,  con  la
 quale probabilmente nulla ha in comune se non il nome.
    Limitando  ogni  considerazione  alla  richiesta  del  comandante,
 l'aspetto sostanziale che non puo' essere sottaciuto, e  che  vale  a
 comprendere l'istituto nel novero delle condizioni di punibilita', e'
 la  circostanza  che  il  titolare  del  potere  di  richiesta e' nel
 contempo titolare del potere disciplinare, di  modo  che  (come  gia'
 avveniva  per  i  c.d.  sostitutivi  disciplinari  anteriormente alla
 vigente codificazione penalmilitare) la presentazione, o meno,  della
 richiesta  al  competente magistrato e' espressione di una scelta del
 comandante in ordine alla sanzione,  se  disciplinare  o  penale,  da
 irrogare per il fatto previsto dalla legge penale militare.
    Questa   concezione  e'  stata  a  volte  messa  in  dubbio  nella
 considerazione che non vi sia affatto, per i reati  punibili  con  la
 reclusione  militare  non  superiore  a sei mesi, l'asserita scelta e
 alternativita' tra la sanzione  penale  e  quella  disciplinare,  dal
 momento che per fatti del genere il comandante da un lato non sarebbe
 tenuto  ad esercitare l'azione disciplinare nel caso in cui non abbia
 inoltrato la richiesta di procedimento,  e  dall'altro  ben  potrebbe
 promuovere  il  procedimento  disciplinare  (che  verrebbe sospeso in
 attesa  del  giudizio  penale)  anche  nel  caso  di  sua  precedente
 presentazione della richiesta di procedimento penale.
    In  realta', l'alternativita' tra sanzione disciplinare e sanzione
 penale trae fondamento da una consolidata prassi gia' esistente sotto
 la vigenza della normativa anteriore alla codificazione del 1941;  ma
 attualmente  sembra  trovare  riscontro  anche nelle disposizioni del
 d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545 (regolamento di  disciplina  militare),
 che dettano norme per l'esercizio dei poteri attribuiti al comandante
 dagli  artt.  13  e  15  della legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme di
 principio  sulla  disciplina  militare).  Innanzitutto,  l'art.   58,
 settimo   comma,   del   testo   regolamentare  stabilisce  l'obbligo
 dell'esercizio  dell'azione  disciplinare  nel  caso  di   infrazioni
 punibili  con  la consegna di rigore, categoria che comprende i reati
 in genere, inclusi quelli punibili con  la  reclusione  militare  non
 superiore nel massimo a sei mesi (art. 65, settimo comma, e preambolo
 dell'allegato  C  al  citato d.P.R.). Inoltre, come pure stabiliscono
 l'art. 65,  settimo  comma,  ed  il  preambolo  dell'allegato  C,  la
 sanzione disciplinare per i reati punibili con la reclusione militare
 non superiore a sei mesi e' irrogabile solo quando il comandante "non
 ritenga  di chiedere il procedimento", e percio' esclusivamente quale
 alternativa alla sanzione penale.
    Di modo che,  volendo  abbozzare  talune  linee  fondamentali  del
 potere disciplinare del comandante, risulta che l'azione disciplinare
 puo', o in certi casi deve, essere esercitata per ogni fatto che, non
 rientrando   nella   previsione  di  alcuna  norma  penale  militare,
 costituisca tuttavia violazione  dei  doveri  del  servizio  o  della
 disciplina  militare;  che  l'azione disciplinare e' invece sempre da
 esercitare per le violazioni dei  doveri  medesimi  che  siano  anche
 previste  come reato perseguibile d'ufficio; che tra le due categorie
 estreme v'e' una fascia intermedia  costituita  dalle  infrazioni  ai
 detti  doveri  che nel contempo integrino la materialita' di un reato
 punibile con la reclusione militare non superiore nel massimo  a  sei
 mesi,  e  che  in  quest'ultimo caso, in cui l'azione disciplinare e'
 esperibile solamente quando non sia stata inoltrata al magistrato  la
 richiesta  di  procedimento,  al  comandante  e' conferito proprio il
 potere di stabilire se per l'infrazione posta in essere dal  militare
 sia adeguata la sanzione penale oppure quella disciplinare.
    Del  resto, che la richiesta di procedimento operi innanzitutto in
 un ambito di diritto sostanziale e' concezione pacificamente  accolta
 nella  dottrina  meno  recente anteriore ed immediatamente successiva
 all'ultimo conflitto mondiale, nella quale si  afferma  che  (proprio
 perche'  in  difetto  della  richiesta  il  fatto  e' privo di penale
 rilevanza) per il reato punibile a  richiesta  non  v'e'  obbligo  di
 rapporto  giudiziario da parte del comandante, sin quando egli non si
 sia  eventualmente  indotto  a  chiedere  il   procedimento   penale.
 Quest'idea e' senza difficolta' accolta nella giurisprudenza, nel cui
 ambito,  sempre  in  linea  con  la  concezione  sostanzialistica, si
 rinviene, quale particolare applicazione del principio, la  decisione
 secondo  cui  non e' punibile come ricettazione l'acquisto di oggetti
 provenienti da reato  militare  per  il  quale  non  puo'  procedersi
 poiche'  manca  la richiesta del comandante del corpo (Cass., sezione
 terza, 25 ottobre 1954, in Foro pen. 1955, 516).
    Rispetto  a  quest'originario  ordine  di   idee   la   successiva
 relegazione della richiesta di procedimento nel novero nelle norme di
 diritto processuale non e' che un'astratta operazione dottrinaria, un
 tentativo  di esercizzazione dell'istituto, che di certo non fa venir
 meno ed anzi rimuove il dato essenziale che il comandante sceglie  il
 tipo  di  sanzione,  penale  ovvero  disciplinare, da irrogare per il
 fatto previsto quale reato.
    Altri elementi confermano che la richiesta  di  procedimento  deve
 considerarsi una condizione di punibilita': innanzitutto il fatto che
 l'art.  260  sia  collocato  nell'ambito del libro secondo "Dei reati
 militari" e rimanga estraneo al libro terzo "Della  procedura  penale
 militare".
    Ma  ancor  piu'  significativo  e'  che  la disposizione stessa (a
 differenza di quanto avviene per autorizzazione a procedere, querela,
 istanza  e  richiesta  del  Ministro)  non  riguardi  reati  indicati
 singolarmente  o per l'appartenenza ad una determinata categoria, ne'
 i reati in genere commessi in determinate circostanze o  da  determi-
 nate  persone, bensi' indistintamente tutti i reati militari, nessuno
 escluso, punibili con la reclusione militare nella misura suindicata,
 a  nulla  rilevando  il  bene  giuridico  tutelato,   o   particolari
 qualifiche  del  colpevole,  o  le  circostanze  della realizzazione:
 quest'individuazione dei reati punibili  a  richiesta  esclusivamente
 per  il  tramite  della quantita' della pena comminata per i medesimi
 dalla legge sta a segnalare  che  ci  si  trova  nel  contesto  della
 punibilita'.  E  la  conclusione si rafforza nella considerazione che
 l'art. 260 si riferisce a tutti indistintamente i piu'  lievi  tra  i
 reati   militari,  ai  fatti  bagattellari  si  direbbe  con  moderna
 terminologia,  rispetto  ai  quali  e'  ragionevole  pensare  che  il
 legislatore,   senza   eccessive   preoccupazioni  dogmatiche,  abbia
 avvertito l'esigenza di evitare una penalizzazione incondizionata.
    Chiarita, dunque, la natura sostanziale del potere del comandante,
 risulta evidente che con quest'istituto si e' delegata  all'autorita'
 militare  una decisione che il principio costituzionale dell'art. 25,
 secondo comma, riserva in modo assoluto alla legge.
    La    rilevata   inadeguatezza   nei   confronti   del   principio
 costituzionale di legalita' non comporta, tuttavia, che debba  essere
 sollevata questione di legittimita' incentrata sulla disposizione che
 prevede  la  richiesta  di  procedimento,  dal momento che con la sua
 caducazione si avrebbe il  risultato,  ancora  in  contrasto  con  il
 principio  costituzionale,  che  la norma incriminatrice acquisirebbe
 un'incondizionata applicabilita',  che  il  legislatore  non  ha  mai
 inteso   disporre.   La   questione  di  legittimita'  deve,  invece,
 appuntarsi sulla norma dell'art. 147 del c.p.m.p.,  perche',  con  il
 suo collegamento all'art. 260, delega al comandante la penalizzazione
 dell'assenza arbitraria di durata superiore ad un giorno ed inferiore
 a  cinque,  e  non  possiede  pertanto  i  requisiti che il principio
 costituzionale richiede per una norma incriminatrice.
    Come ha bene messo in rilievo una dottrina non  recente,  ma  gia'
 sensibile  alle  garanzie  costituzionali, la discrezionalita' insita
 nella richiesta  di  procedimento  per  il  reato  di  allontanamento
 illecito   costituisce,  inoltre,  un  camouflage  di  un'altrettanto
 inammissibile discrezionalita': quella prevista nei codici previgenti
 e nel vigente codice penale militare di guerra (art. 155), per cui il
 militare arbitrariamente assente dal servizio  puo',  sulla  base  di
 "particolari  circostanze"  liberamente  valutabili  dal  comandante,
 essere dallo stesso "dichiarato" disertore o mancante  alla  chiamata
 prima che l'assenza abbia raggiunto la durata, due giorni, occorrente
 per il perfezionamento del reato (artt. 145, 146, n. 2, e 151).
    Pertanto,  lo stesso allontanamento illecito configurato dall'art.
 147  del  c.p.m.p.   non   e'   che   una   diserzione   (art.   148)
 discrezionalmente   valutata   ed   anticipatamente   dichiarata  dal
 comandante, in  evidente  spregio  del  principio  costituzionale  di
 legalita'.  Viene  con  cio' ribadita l'illegittimita' dell'art. 147,
 che si rivela anche  piu'  radicale  di  quanto  non  lasci  supporre
 l'analisi  sin  qui  svolta  sulla  disposizione  dell'art.  260.  La
 richiesta di procedimento riferita al fatto di assenza arbitraria non
 solo non e' una mera condizione di procedibilita', ma anche in quanto
 condizione   sostanziale   di   punibilita'   diviene   la   sommita'
 dell'iceberg,     l'aspetto     terminale     ed     emergente     di
 un'incostituzionalita'  che  muove  dal  cuore  stesso   del   reato,
 l'antigiuridicita'  valutata  e  dichiarata dal comandante, piuttosto
 che risultante da una norma di legge.
    Ma, anche prescindendo dall'ambito dei principi costituzionali  in
 materia   penale,   non   e'   meno  evidente  che  la  stessa  norma
 incriminatrice dell'art. 147, per quel suo collegamento  all'istituto
 dell'art.  260,  e  per  il potere di penalizzazione che ne deriva in
 capo al comandante militare, concorre  a  determinare  un'illegittima
 limitazione  dei  diritti  fondamentali  della  persona (artt. 2 e 13
 della Costituzione), che nell'ordinamento  militare  non  hanno  meno
 valore  che  nell'ordinamento  generale  (art. 52, terzo comma, della
 Costituzione).
    Sotto questo profilo, non si comprende anzi quale senso abbia  che
 con  la  citata  legge n. 382/1978 e poi con il d.P.R. n. 545/1986 si
 limitino e si disciplinino i poteri che  al  comandante  spettano  in
 vista  del  perseguimento dei compiti d'istituto delle Forze armate e
 per l'attuazione della normativa disciplinare, qualora poi si dovesse
 ammettere come legittimo che in capo allo stesso vi  sia  un  potere,
 quale  quello  di  penalizzare  i  fatti  lesivi del servizio e della
 disciplina militare, che la Costituzione riserva in maniera esclusiva
 al legislatore.
    Questo  tribunale,  in  definitiva,  ritiene  di  dover  sollevare
 questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 147 del c.p.m.p.,
 in riferimento all'art. 260 del c.p.m.p., in relazione agli artt.  2,
 13, 25, secondo comma, e 52, terzo comma, della Costituzione.