IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 3250/1991 rg. pretura Clusone, a carico di Bonicelli Pietro; O S S E R V A Con sentenza n. 80 pronunciata il 26 aprile 1991 questo pretore, condannando altro imputato per art. 25/2 del d.P.R. n. 915/1982, disponeva trasmettersi gli atti al pubblico ministero, ex art. 331 del c.p.p. in riferimento ai reati configurabili a carico di terzi, nella specie amministratori comunali di Vilminore di Scalve, per analoghe contravvenzioni ed altro. Il p.m., espletate indagini, citava a giudizio per l'udienza del 22 novembre 1991, avanti questo stesso pretore, l'odierno imputato Bonicelli, sindaco pro-tempore di Vilminore, perche' rispondesse del reato ex art. 25/2 del d.P.R. n. 915/1982 e di quello ex art. 361 del c.p. Con atto qui depositato il 19 novembre 1991, uno dei difensori di fiducia del Bonicelli, avv. Roberto Bruni, lealmente, invitava l'attuale deducente ad astenersi, argomentando che, ai sensi dell'art. 34, terzo comma, del c.p.p., si fosse in presenza di una situazione di incompatibilita' tale da imporre l'astensione ex art. 36, primo comma, lettera G), del c.p.p., riservandosi altrimenti di ricusare il giudice ex art. 37, primo comma, lettera A), c.p.p. Ritiene il pretore che, allo stato la norma invocata da tale difensore debba effettivamente essere cosi' interpretata, tale essendo il comune ed univoco senso dell'espressione del legislatore codicistico, cosi' come prospettato dal difensore medesimo, ossia nel senso che anche per il caso di denuncia ex art. 331 del c.p.p., e non solo ex art. 333, il giudice versa in condizione di incompatibilita' per aver compiuto atti prodromici al processo. Senonche', tale doverosa interpretazione, determina, a parere dello scrivente, il contrasto della norma suddetta (art. 34, terzo comma, del c.p.p. 1988) con gli artt. 25, primo comma, 76 e 101, secondo comma, della Costituzione. Infatti, la legge 16 febbraio 1987, n. 81, con cui il Parlamento ha delegato al Governo l'esercizio della funzione legislativa per il nuovo codice di procedura penale, all'art. 2, punto 67, prevedeva che dovesse essere precluso di svolgere funzioni di giudice del dibattimento solo al giudice che avesse emesso il decreto per giudizio immediato (punto 44), ovvero il decreto penale poi opposto (punto 46) o infine (nel processo tribunalizio) il decreto di cui al punto 52 della legge delega. Nessuna di tali situazioni equivale, e neppure assomiglia vagamente, a quella del pretore che abbia denunciato al p.m. una ipotesi di reato ravvisata nell'esercizio delle sue funzioni giurisdizionali. La norma censurata par dunque contrastare con l'art. 76 della Costituzione, anche avuto riguardo al punto 1 del comma secondo della legge delega, giacche', lungi dal semplificare, appesantisce irragionevolmente le attivita' processuali. Inoltre, la norma censurata contrasta con l'art. 25 della Costituzione poiche' artificiosamente sottrae a quello che sarebbe il giudice naturale la decisione su un fatto che ricadrebbe nel suo potere-dovere di cognizione sol che fosse emerso, ed iscritto nel registro del p.m. prima del dibattimento da cui emerse la notizia di reato (che e' affatto diversa e non assimilabile alla pronuncia di una delle decisioni di cui al punto 67 della legge delega. Si badi, al riguardo, che gia' con ordinanza n. 340 del 13 dicembre 1985, la Corte costituzionale ebbe a rilevare che, in un caso non del tutto dissimile da quello in esame (e precisamente per l'ipotesi di procedimenti penali affidati a pretori che, per disposizione di legge, erano - all'epoca - anche direttori di case mandamentali) non ricorreva alcun ragionevole motivo per doversi dichiarare incostituzionale la mancata inclusione, fra le cause di astensione e ricusazione, la titolarita' di tale funzione in capo al giudicante medesimo. Ancora: la norma censurata, senza comprensibili e ragionevoli motivi, pretermette ogni distinzione fra la denuncia che, ai sensi dell'art. 333 c.p.p. ciascun cittadino ha la facolta' (salvo casi specialissimi) di presentare, da un lato; e la denuncia che, ai sensi dell'art. 331 del c.p.p., tutti i pubblici ufficiali "devono" fare per iscritto anche quando, come nella specie, non sia anagraficamente nota la persona cui il reato potrebbe attribuirsi. Si badi che tale obbligo e' indipendente ed autonomo dall'obbligo attribuito al p.m. di iniziare l'azione penale, posto che il giudice, appreso un fatto suscettivo di configurare un reato, non ha la discrezionalita' di controllare se il p.m. ne abbia avuta oppur no anteriore notizia, ma si deve limitare a trasmettergliela. De resto, diversamente operando, il giudice ben potrebbe incorrere nel delitto di cui all'art. 361 del c.p. La norma dell'art. 34 del c.p.p. dunque, contrasta con l'art. 101 della Costituzione in quanto, irragionevolmente, da un canto pretende che il giudice sia soggetto alla legge, e solo ad essa, e nel momento in cui il giudice, applicando la legge, assolve l'obbligo di deuncia di reato appreso nell'esercizio delle sue specifiche funzioni, pretende di sottrargli la naturale competenza. Piu' in generale, poi, la norma appare irragionevole perche', proprio nella norma concernente la ricusazione (art. 37, secondo comma, e primo comma, che richiama l'art. 36, primo comma, lettera - fra le altre - C) e' circoscritto il potere di ricusare il giudice, per quanto qui interessa, alle opotesi in cui, esercitando le sue funzioni, il giudice abbia indebitamente manifestato il suo parere (art. 37, secondo comma del c.p.p.) ovvero abbia manifestato il suo parere fuori dell'esercizio delle sue funzioni giudiziarie (art. 36, primo comma, lettera C). La fattispecie in esame non rientra in alcuno di questi casi, e l'estensione al potere di ricusazione che discende dal richiamo operato dall'art. 36, primo comma, lettera G), all'art. 34 del c.p.p., con riferimento alla denuncia obbligatoriamente proposta (e dunque ne' indebitamente nelle funzioni, ne' fuori dell'esercizio delle funzioni) appare dunque eccedente rispetto allo scopo perseguito di terzieta'. Poiche' la questione e' rilevante ai fini del decidere (dipendendo dalla sua soluzione se il giudicante debba oppur no astenersi) e non risulta, per quanto esposto, manifestamente infondata, essa deve essere d'ufficio rilevata. In forza di tutti gli argomenti svolti, dunque, in questa fase, unico potere legittimamente esercitabile dal giudicante, dopo la prospettazione della questione di legittimita' costituzionale, e' quello di sospendere il processo. Gli atti vanno percio' trasmessi alla Corte costituzionale per la relativa decisione; il presente processo deve essere sospeso; a cura della cancelleria vanno inoltrate le prescritte comunicazioni, dandosi atto che tutte le parti erano o dovevano ritenersi presenti alla lettura di questa ordinanza prima dell'apertura del dibattimento.