ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei  giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 2, n. 31, della
 legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa  al  Governo  della
 Repubblica  per  l'emanazione del nuovo codice di procedura penale) e
 degli artt. 195, quarto comma, 500, quarto comma, e 512 del codice di
 procedura penale, promossi con  n.  7  ordinanze  emesse  da  diverse
 autorita'  giudiziarie, iscritte rispettivamente ai nn. 21, 214, 290,
 429, 439, 497 e 555 del registro ordinanze 1991  e  pubblicate  nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 6, 14, 18, 27, 33 e 36, prima
 serie speciale, dell'anno 1991;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 18 dicembre  1991  il  Giudice
 relatore Mauro Ferri;
                           Ritenuto in fatto
    1.1.  -  Il  Pretore di Firenze, con ordinanza del 30 ottobre 1990
 (r.o. n.  21  del  1991),  ha  sollevato  questione  di  legittimita'
 costituzionale,   in   riferimento  all'art.  3  della  Costituzione,
 dell'art. 195, quarto comma, del codice di procedura  penale,  "nella
 parte  in  cui  vieta  agli  ufficiali  ed  agli  agenti  di  polizia
 giudiziaria di deporre, in caso di irreperibilita' del testimone, sul
 contenuto delle dichiarazioni da questi acquisite".
    Il remittente premette che il processo concerne  un  tentativo  di
 furto  commesso  in danno di turista straniera in transito a Firenze,
 divenuta  irreperibile  per  avere  mutato   la   propria   residenza
 all'estero,  e  quindi  assente al dibattimento nonostante il rituale
 esperimento della notificazione eseguita con deposito degli  atti  in
 cancelleria, a norma dell'art. 154 del codice di procedura penale.
    Rileva  altresi'  che  il verbale di denuncia, per la parte in cui
 contiene  dichiarazioni  testimoniali,  e'   stato   dichiarato   non
 acquisibile  nel  fascicolo  dibattimentale per i seguenti motivi: a)
 impossibilita' di procedere, per l'assenza del  testimone,  a  previa
 contestazione  delle  dichiarazioni assunte dalla polizia giudiziaria
 sul luogo e nell'immediatezza del fatto;  b)  inapplicabilita'  nella
 specie  dell'art. 511, secondo comma, del codice di procedura penale,
 il quale disciplina  la  leggibilita'  di  atti  gia'  legittimamente
 acquisiti al processo, ma non amplia le condizioni di acquisibilita',
 stabilite  dall'art.  500,  quarto  comma,  dello  stesso  codice; c)
 impossibilita' di applicare nella specie anche l'art. 512 (lettura di
 atti per sopravvenuta impossibilita' di ripetizione),  in  quanto  le
 dichiarazioni  del testimone sono state rese alla polizia giudiziaria
 e non anche al pubblico ministero (e,  comunque,  anche  ove  fossero
 state  rese  al pubblico ministero, la lettura non sarebbe ugualmente
 consentita,  in  quanto  l'irreperibilita' sopravvenuta del testimone
 non appare  costituire  "impossibilita'  di  ripetizione"  dell'atto,
 posto  che  non  trattasi  di latitante o evaso e che, quindi, con le
 necessarie  indagini,  e'  reperibile  la  sua  nuova  dimora   anche
 all'estero).
   Cio'  posto,  prosegue il giudice a quo, a seguito dell'istanza del
 pubblico ministero di  assunzione,  quale  testimone  indiretto,  del
 vigile  urbano  verbalizzante (in ordine alle circostanze riferite "a
 caldo" dalla derubata e trasfuse nel verbale  di  denuncia),  diviene
 rilevante  -  in quanto dalla sua risoluzione dipende la possibilita'
 per il pubblico ministero di introdurre prove a sostegno  dell'accusa
 -  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 195, quarto
 comma, del codice di procedura penale, in quanto vieta agli ufficiali
 ed  agenti  di  polizia  giudiziaria   di   deporre,   in   caso   di
 irreperibilita'  del  testimone, sul contenuto delle dichiarazioni da
 questo acquisite.
    La  questione  appare,  poi,  non  manifestamente   infondata   in
 riferimento  all'art.  3  della Costituzione, in quanto tale assoluto
 divieto  si  fonda  sull'inaccettabile  implicito  presupposto  della
 inattendibilita'   e   tendenziosita'   dei  testimoni  qualora  essi
 appartengono alla polizia giudiziaria, cosi' violando il principio di
 eguaglianza e di pari dignita' di  tutti  i  cittadini  dinanzi  alla
 legge.  Il  legislatore,  conclude  il  remittente,  nell'intento  di
 parificare i poteri  delle  parti,  appare  aver  ecceduto  in  senso
 opposto,  negando  attendibilita'  a  testi  normalmente  qualificati
 proprio per la loro  funzione  di  primi  interlocutori  delle  parti
 offese da comportamenti delittuosi.
    1.2.  -  Il  Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in
 giudizio, conclude per l'inammissibilita' o, comunque, l'infondatezza
 della questione.
    La questione sarebbe, innanzitutto, inammissibile per irrilevanza,
 in quanto il giudice a quo censura  l'art.  195,  quarto  comma,  del
 codice di procedura penale nella parte in cui vieta agli ufficiali ed
 agenti   di  polizia  giudiziaria  di  deporre  sul  contenuto  delle
 dichiarazioni acquisite da testimoni "in caso di  irreperibilita'  di
 questi";  ma,  nella  specie, nella stessa ordinanza di rimessione si
 afferma che il testimone non  puo'  considerarsi  irreperibile,  dato
 che,  "con  le necessarie indagini, e' reperibile la sua nuova dimora
 anche all'estero". Ne deriva che, anche ove la norma impugnata  fosse
 dichiarata  illegittima,  la  testimonianza  dell'agente  di  polizia
 giudiziaria non potrebbe comunque  essere  acquisita,  ai  sensi  del
 terzo comma dello stesso art. 195.
    Nel merito, l'Avvocatura osserva che il divieto, per gli ufficiali
 ed  agenti  di  polizia  giudiziaria,  della  testimonianza de relato
 discende non da una  aprioristica  valutazione  negativa  della  loro
 attendibilita',   ma  dalla  circostanza  che  trattasi  di  soggetti
 istituzionalmente deputati alla raccolta, ai fini processuali,  delle
 dichiarazioni  dei  terzi: la norma denunciata persegue una finalita'
 di garanzia della genuinita' delle  acquisizioni  processuali  ed  e'
 frutto  di  scelta  discrezionale  del  legislatore,  come  tale  non
 censurabile in questa sede.
    2.1. - Con successive ordinanze del 19 dicembre 1990 e del 5 marzo
 1991 (r.o. nn. 214  e  439  del  1991),  il  Pretore  di  Firenze  ha
 nuovamente  sollevato  questione  di  legittimita' costituzionale, in
 riferimento all'art. 3  della  Costituzione,  dell'art.  195,  quarto
 comma,  del  codice  di  procedura  penale,  svolgendo argomentazioni
 sostanzialmente  identiche  a  quelle  contenute  nell'ordinanza   di
 rimessione di cui al precedente punto 1.1.
    2.2.  -  E'  intervenuto  in  entrambi i giudizi il Presidente del
 Consiglio dei ministri, il quale conclude per  l'inammissibilita'  o,
 comunque,    l'infondatezza    della    questione,   rinviando   alle
 considerazioni svolte nell'atto di intervento relativo  all'ordinanza
 del medesimo giudice n. 21 del 1991.
    3.1.  - Con ordinanza del 26 febbraio 1991 (r.o. n. 290 del 1991),
 il  Tribunale  di  Roma  ha  sollevato  questione   di   legittimita'
 costituzionale,  in  riferimento  agli  artt.  3, 24, primo e secondo
 comma, 111 e 112 della Costituzione, dell'art. 2, n. 31, della legge-
 delega 16 febbraio 1987, n. 81 e degli artt. 195, quarto comma,  500,
 quarto comma, e 512 del codice di procedura penale.
    Il  remittente  premette,  in  punto  di  fatto,  che,  nel  corso
 dell'esame  testimoniale  di  un  ufficiale  di  polizia  giudiziaria
 indicato  dal pubblico ministero, e' emerso che costui aveva assunto,
 nell'immediatezzadel fatto, da persona poi deceduta dopo qualche  ora
 a  seguito  di intossicazione acuta da eroina, informazioni in ordine
 all'identita' del  soggetto  che  aveva  ad  essa  fornito  la  detta
 sostanza  stupefacente.  Allorche' l'ufficiale di polizia giudiziaria
 era sul punto di riferire il contenuto delle dichiarazioni acquisite,
 la difesa dell'imputato ha eccepito  il  divieto  di  deposizione  de
 relato  di  cui  all'art.  195, quarto comma, del codice di procedura
 penale; la medesima difesa si  e'  poi  opposta  alla  richiesta  del
 pubblico  ministero di allegazione al fascicolo d'ufficio - in quanto
 atto irripetibile - del verbale delle informazioni  assunte  (redatto
 dalla  polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 357, lett. c), c.p.p.),
 richiamandosi agli artt. 500, quarto comma, e 512 del codice stesso.
    Cio' posto, il giudice a quo osserva  che  il  congegno  normativo
 oggetto  di censura - in attuazione della direttiva n. 31 dell'art. 2
 della legge delega - e' cosi' articolato:  divieto  assoluto  per  il
 testimone  ufficiale o agente di polizia giudiziaria di deporre sulle
 dichiarazioni ricevute (art. 195, quarto comma); divieto  di  lettura
 del verbale redatto ex art. 357, lett. c), nonostante la sopravvenuta
 irripetibilita'  delle  dichiarazioni,  consentendosi solo la lettura
 degli atti, divenuti irripetibili, assunti dal pubblico  ministero  o
 dal  giudice  (art. 512); divieto di acquisizione al fascicolo per il
 dibattimento dei verbali redatti ex art. 357, lett. c), ove non siano
 stati utilizzati per le contestazioni, anche quando la  contestazione
 non  e' piu' possibile perche' l'esame non e' piu' effettuabile (art.
 500, quarto comma).
    Tale  congegno  di  sbarramento,  prosegue  il  remittente,  viola
 innanzitutto,  quanto  all'art.  195,  quarto  comma, il principio di
 ragionevolezza e di eguaglianza e pari dignita' sociale dei cittadini
 dinanzi alla legge (art. 3 Cost.), in quanto discrimina  i  cittadini
 chiamati  a testimoniare. Infatti, il terzo comma del citato articolo
 consente la testimonianza indiretta qualora la  fonte  non  sia  piu'
 esaminabile per morte, infermita' o irreperibilita', ma cio' solo per
 i  testimoni  "comuni"  e  non  per  gli  appartenenti  alla  polizia
 giudiziaria, per i quali vige invece il categorico divieto di cui  al
 successivo   quarto   comma.   Tale   diversita'  di  trattamento  e'
 irrazionale perche' non rispondente  ad  alcuna  concreta  situazione
 personale differenziale tra i soggetti chiamati a deporre, a meno che
 non  si  voglia  sostenere  che  se  il  cittadino testimone e' anche
 appartenente  alla  polizia  giudiziaria  allora   diviene   in   se'
 inattendibile o comunque meno attendibile degli altri cittadini.
    L'art.   195,   quarto  comma,  del  codice  di  procedura  penale
 violerebbe,  inoltre,  prosegue  il  remittente,  l'art.   24   della
 Costituzione,  comprimendo  i  diritti di difesa della parte civile e
 vulnerando in ogni caso la parita' tra accusa - pubblica o privata  -
 e  difesa.  Sarebbe chiara, infatti, la disparita' di posizione nella
 quale si trovano tali parti processuali, sotto l'aspetto del  diritto
 alla  prova  relativa alla pretesa di cui sono portatori, considerato
 che gli appartenenti alla polizia giudiziaria, proprio  per  il  loro
 dovere  di  ricevere  informazioni utili all'accertamento del reato e
 all'individuazione dei responsabili, sono normalmente,  e  per  cosi'
 dire funzionalmente, i testi dell'accusa, pubblica e privata.
    Il  giudice  a  quo ritiene, poi, che il perentorio divieto di cui
 alla  norma  in  esame   "riverberi   la   propria   incostituzionale
 irrazionalita'  anche  sugli  artt.  500  n.  4  e  512 del codice di
 procedura penale". I divieti posti da queste ultime norme si  sommano
 infatti con quello di cui all'art. 195, quarto comma, e tutti insieme
 finiscono  per  formare  uno  sbarramento assoluto alla utilizzazione
 processuale proprio di quelle dichiarazioni  che,  per  essere  state
 rese  nella  immediatezza  del  fatto,  sono guardate con piu' favore
 dallo  stesso  legislatore,   perche'   ritenute   giustamente   piu'
 attendibili  rispetto  alle altre sommarie informazioni testimoniali,
 tanto che solo alle prime  e'  consentito  l'ingresso  nel  fascicolo
 processuale  secondo  le  modalita'  stabilite  nell'art. 500, quarto
 comma. Qualora,  pero',  il  teste  esaminato  nell'immediatezza  sia
 deceduto  o  divenga  irreperibile,  il denunciato congegno normativo
 determina l'irrimediabile perdita di tali  dichiarazioni,  spesso  le
 uniche raccolte e raccoglibili.
    Anche  gli  artt. 500, quarto comma, e 512 del codice di procedura
 penale, prosegue il remittente,  suscitano  pertanto  seri  dubbi  di
 legittimita'  costituzionale,  non  solo  in riferimento agli artt. 3
 (principio di ragionevolezza) e 24,  primo  e  secondo  comma,  della
 Costituzione  (diritto  di  difesa),  ma  anche  -  sempre unitamente
 all'art. 195, quarto comma -  per  violazione  di  "un  principio  di
 Costituzione   materiale   sotteso   dagli   artt.  24  e  112  della
 Costituzione  e  che  puo'  sinteticamente  essere   riassunto   come
 l'esigenza  fondamentale  dello  Stato  - cui corrispondono legittime
 aspettative dei cittadini -  di  assicurare  l'effettivo  e  concreto
 esercizio della giurisdizione penale".
    Infine,   le   norme   denunciate   violerebbero,  ad  avviso  del
 remittente, anche l'art. 111, primo  comma,  della  Costituzione,  in
 quanto  il divieto di assumere e valutare le deposizioni di cittadini
 al corrente di fatti  rilevanti  ai  fini  della  decisione  comporta
 l'impossibilita' di una corretta ed adeguata motivazione.
    3.2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri, il quale conclude per l'infondatezza della questione.
    L'Avvocatura  dello Stato - premesso che "ove la ricostruzione del
 sistema  prospettata  dal  Tribunale  fosse  corretta,  i  dubbi   di
 costituzionalita'  puntualmente  individuati sembrerebbero in effetti
 fondati" - osserva che la premessa interpretativa dalla  quale  muove
 il remittente non puo' essere condivisa, sulla base di considerazioni
 di  ordine testuale e logico-sistematico. In particolare, va ritenuto
 che il divieto di deporre di cui all'art. 195, quarto  comma,  c.p.p.
 non  sussiste  rispetto  alle  dichiarazioni  acquisite  da qualunque
 "generico" soggetto, ma esclusivamente  rispetto  a  quelle  rese  da
 persona  che  il  codice  qualifica come "testimone", nel significato
 tecnico di soggetto chiamato a rivestire l'ufficio  testimoniale.  Ne
 deriva  che  l'impossibilita'  di deporre esiste solo e nei limiti in
 cui la persona  le  cui  dichiarazioni  sono  state  acquisite  dalla
 polizia  giudiziaria  abbia  assunto  nel procedimento la qualita' di
 testimone: ove cio' non  avvenga,  per  morte  o  altra  causa,  cade
 l'inibitoria  a  deporre,  proprio  perche', mancando il "testimone",
 l'ufficiale o l'agente  di  polizia  giudiziaria  si  trovera'  nella
 identica  posizione di chiunque renda una testimonianza indiretta. Un
 sicuro indice di tale tesi si rinviene,  prosegue  l'Avvocatura,  nel
 fatto  che  il  legislatore  non  ha  individuato  il  fenomeno della
 testimonianza de relato (art. 195, commi 1 e 3) nel  fatto  di  colui
 che  si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad "altri testimoni",
 bensi' ha adottato il termine "altre persone", che  tali  cessano  di
 essere,  per  divenire  testimoni,  allorche'  ne  venga  disposto il
 relativo esame. Vi e' quindi  una  sola  peculiarita'  per  cio'  che
 attiene  alla  polizia  giudiziaria:  una  volta che la persona abbia
 assunto la qualita'  di  testimone  e  la  sua  voce  venga  pertanto
 acquisita  secondo  la  dinamica  tipica  di  quel mezzo di prova, le
 dichiarazioni precedentemente rese non  possono  formare  oggetto  di
 deposizione   da   parte  della  polizia  giudiziaria,  perche'  cio'
 equivarrebbe ad introdurre un elemento eteronomo rispetto al  veicolo
 tipico   di   utilizzazione   processuale   degli  atti  a  contenuto
 dichiarativo, cioe' quello delle contestazioni.
   La tesi ermeneutica cosi' delineata,  conclude  l'Avvocatura  dello
 Stato,  non  solo  elide  le  censure  del remittente, alimentate dal
 presupposto di ritenere che le dichiarazioni rese in articulo  mortis
 siano  necessariamente  favorevoli  all'accusa,  ma  anche quelle che
 potrebbero muoversi nella ipotesi inversa, cioe'  in  quella  che  si
 realizzerebbe  laddove  quelle dichiarazioni fossero l'unico elemento
 favorevole all'imputato.
    4.1. - Con due ordinanze sostanzialmente identiche del 28 febbraio
 e 9 aprile 1991 (r.o. n. 497 e 429 del 1991), il Tribunale di Verona,
 premesso  che  il  pubblico  ministero  aveva  chiesto  di  procedere
 all'esame  testimoniale  degli  agenti  di  polizia  giudiziaria  che
 avevano  raccolto  la   denuncia   della   persona   offesa,   resasi
 successivamente  irreperibile, ha sollevato questione di legittimita'
 costituzionale,  in  riferimento  all'art.  3   della   Costituzione,
 dell'art. 195, quarto comma, del codice di procedura penale:
      "  a)  nella parte in cui detta per i soli ufficiali e agenti di
 polizia giudiziaria una disciplina diversa da quella di cui ai  commi
 1 e 2 dello stesso articolo;
       b)  nella  parte  in  cui detta una disciplina diversa anche in
 relazione alle situazioni indicate  nell'ultima  parte  del  comma  3
 dello stesso art. 195".
    Osserva  il Tribunale remittente che ai sensi dell'art. 195 c.p.p.
 la testimonianza de relato e' sempre possibile, salva  la  previsione
 che  il  giudice  a  richiesta  di  parte  o anche d'ufficio disponga
 l'esame delle  persone  direttamente  a  conoscenza  dei  fatti.  Per
 contro,  il quarto comma detta per i soli ufficiali ed agenti di p.g.
 una  regola  opposta che preclude in modo assoluto tale testimonianza
 de relato, "escludendo irragionevolmente ogni  possibile  distinzione
 di  situazioni  concrete e creando una sorta di privilegio odioso nei
 confronti di soggetti la cui attendibilita' non e' di per se' diversa
 da quella di ogni altro testimone".
    L'irragionevolezza della norma  e  la  disparita'  di  trattamento
 sono,  poi,  particolarmente evidenti nel caso in cui l'esame diretto
 del  testimone  di  riferimento  risulti   impossibile   per   morte,
 infermita'  o irreperibilita' del medesimo, situazioni nelle quali e'
 sempre possibile la utilizzabilita' della  testimonianza  de  relato,
 salvo che la stessa provenga da ufficiali o agenti di p.g.
    In  definitiva,  conclude  il  giudice  a quo, risultano violati i
 canoni  di  coerenza  e  di  ragionevolezza  dell'ordinamento  e   in
 particolare  risulta  leso  il  principio  che  vieta  disparita'  di
 trattamento collegate a condizioni  personali  e  sociali  senza  una
 razionale  giustificazione, non apparendo tale quella che si fonda su
 un generale sospetto di  inaffidabilita'  di  organi  della  pubblica
 amministrazione.
    4.2.  -  E'  intervenuto  in  entrambi i giudizi il Presidente del
 Consiglio  dei  ministri,   limitandosi   a   richiamare   -   quanto
 all'ordinanza  n.  429  del  1991  -  l'atto  di  intervento relativo
 all'ordinanza del Pretore di Firenze n. 21 del 1991, e  sostenendo  -
 in  ordine  all'ordinanza  n.  497  del  1991  - l'infondatezza della
 questione, in  quanto  il  divieto  in  esame  non  discende  da  una
 aprioristica   valutazione   negativa   della   attendibilita'  degli
 ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, ma dalla circostanza  che
 trattasi  di  soggetti  istituzionalmente  deputati alla raccolta, ai
 fini processuali, delle dichiarazioni dei terzi.
    5.1. - Con ordinanza del 16 maggio 1991 (r.o. n. 555 del 1991), il
 Pretore di Venezia - sezione distaccata di Mestre - ha  a  sua  volta
 sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 195,
 quarto comma, del codice di procedura penale "nella parte in  cui  e'
 fatto  divieto  agli  ufficiali  ed  agenti di polizia giudiziaria di
 deporre sul contenuto di dichiarazioni acquisite da testimoni".
    Premette  il  remittente  che  il  pubblico  ministero,  all'esito
 dell'esposizione introduttiva, aveva chiesto l'ammissione degli esami
 testimoniali  della  parte offesa e dei sottufficiali dei carabinieri
 che si erano occupati delle indagini, ma l'esame  di  questi  ultimi,
 allorche'  si accingevano a dichiarare come e da chi avessero appreso
 circostanze evidenzianti le eventuali responsabilita' degli imputati,
 veniva ripetutamente interrotto dalla difesa che eccepiva il  divieto
 di cui alla norma impugnata.
    Tale   divieto,   osserva  il  giudice  a  quo,  impedendo,  nella
 fattispecie, l'utilizzazione delle dichiarazioni  rese  alla  polizia
 giudiziaria  da  terzi  nell'immediatezza,  non  consente al pubblico
 ministero di portare a conoscenza del giudice elementi  a  fondamento
 dell'accusa,  con  grave  compromissione  del  diritto alla prova del
 pubblico ministero stesso. La scelta del legislatore di  discriminare
 il  teste, ufficiale di polizia giudiziaria, rispetto ai testi comuni
 cittadini, laddove entrambi possano riferire, de relato,  circostanze
 utili   sui  fatti  oggetto  di  prova  e'  illogica,  irrazionale  e
 incongruente. Tali vizi appaiono ancor  piu'  evidenti,  prosegue  il
 remittente,  ove si consideri che agli agenti ed ufficiali di polizia
 giudiziaria  incombe  una  serie  di  obblighi  istituzionali  (artt.
 347-351  c.p.p.)  e  non  e'  dato  comprendere come tali attivita' -
 peraltro penalmente sanzionate in caso di omissione  -  si  concilino
 con  il  divieto  di testimonianza indiretta, se non in una logica di
 eccesso  di  garantismo  in  contrasto  con  il  principio   che   la
 giurisdizione    penale    deve    tendere   il   massimo   possibile
 all'accertamento della verita' sostanziale.
   Inoltre,  la  norma  crea   una   ingiustificata   ed   irrazionale
 discriminazione  tra  le  due  anzidette  categorie  di  testimoni e,
 dovendosi  escludere  che  la  qualita'  di  ufficiale   di   polizia
 giudiziaria  valga  a  differenziarle,  appare  evidente, conclude il
 giudice a quo, come la  diversa  disciplina  violi  il  principio  di
 eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione.
    5.2.  - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri, concludendo per l'infondatezza della questione e  rinviando
 a  tal  fine  alle  considerazioni  svolte  nell'atto  di  intervento
 relativo all'ordinanza di rimessione del Tribunale di  Roma  (n.  290
 del 1991).
                        Considerato in diritto
    1. - Le sette ordinanze di rimessione sollevano tutte questione di
 legittimita'   costituzionale,   in   riferimento  all'art.  3  della
 Costituzione, dell'art. 195, quarto comma, del  codice  di  procedura
 penale;  la  sola  ordinanza  del  Tribunale di Roma (r.o. n. 290 del
 1991) investe inoltre gli artt. 500, quarto comma, e 512  del  codice
 stesso, nonche' l'art. 2, n. 31, della legge-delega 16 febbraio 1987,
 n.  81, e fa riferimento, in ordine a tutte le norme impugnate, anche
 agli artt. 24, primo e secondo comma, 111, primo comma, e  112  della
 Costituzione.
    I  giudizi  possono  pertanto  essere  riuniti  e decisi con unica
 sentenza.
    2.1. - Va esaminata per prima la questione relativa all'art.  195,
 quarto  comma, del codice di procedura penale, questione - come si e'
 detto - comune a tutte  le  ordinanze  di  rimessione.  La  Corte  e'
 chiamata  a  decidere se sia legittima la norma anzidetta, secondo la
 quale "Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non  possono
 deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni".
    Le  due  ordinanze del Tribunale di Verona (r.o. nn. 429 e 497 del
 1991), nonche' quella del Pretore di Venezia - sezione distaccata  di
 Mestre (r.o. n. 555 del 1991), sollevano la questione in via generale
 sul  divieto  che,  in  forza  della  norma  impugnata,  colpisce gli
 appartenenti alla polizia giudiziaria; le altre ordinanze  lamentano,
 invece,  che il divieto operi anche ove si verifichi l'impossibilita'
 di esame del teste diretto per morte, infermita' o irreperibilita', a
 differenza di quanto in  tali  casi  il  terzo  comma  dell'art.  195
 prevede  per i testi comuni. La questione cosi' circoscritta - che il
 Tribunale di Verona prospetta  a  sua  volta  in  via  subordinata  -
 verrebbe  evidentemente  ad  essere  ricompresa  ed  assorbita  nella
 ipotesi in cui risulti fondata quella sollevata in  via  generale  in
 ordine alla esclusione in radice degli ufficiali ed agenti di polizia
 giudiziaria  dalla  possibilita'  di rendere testimonianza indiretta,
 cosi' come questa e' disciplinata dall'art. 195.
    D'altra parte, va anche osservato che  gli  argomenti  addotti  in
 tutte  le  ordinanze  con  riferimento  all'art. 3 della Costituzione
 sotto il  profilo  sia  del  principio  di  ragionevolezza,  sia  del
 principio di eguaglianza, sono di natura tale per cui non possono non
 investire  il  divieto  in  via  generale;  la  prospettazione  della
 questione limitatamente all'ipotesi  surriferita  dell'impossibilita'
 dell'esame  del teste diretto appare percio' mossa soprattutto da una
 preoccupazione  rigorosa  in  ordine  alla  rilevanza  della  stessa,
 relativamente  ai  casi  di  specie  da  cui  partono le ordinanze di
 rimessione.
    2.2. - L'Avvocatura generale dello Stato, nell'atto di  intervento
 relativo  all'ordinanza  di  rimessione del Pretore di Firenze del 30
 ottobre  1990  (r.o.  n.  21  del  1991),  solleva  un'eccezione   di
 inammissibilita',    rilevando   che   l'ordinanza   stessa   sarebbe
 contraddittoria,  in  quanto,  mentre  fonda   la   questione   sulla
 circostanza  della  irreperibilita' del teste diretto (persona offesa
 dal reato), afferma successivamente che in realta', con le necessarie
 indagini, potrebbe  essere  reperibile  la  sua  nuova  dimora  anche
 all'estero.  L'eccezione  va respinta, in quanto nella fattispecie la
 condizione di irreperibilita' si  e'  giuridicamente  realizzata  nel
 momento  in  cui,  (come  riferisce  il giudice a quo), nonostante la
 notificazione della citazione sia stata eseguita - essendo mutato  il
 luogo di residenza o di dimora all'estero, ed ignoto quello attuale -
 mediante  deposito dell'atto nella cancelleria ai sensi dell'art. 154
 del  codice  di  procedura  penale,  la  persona  offesa  non  si  e'
 presentata al dibattimento.
    3.1. - La questione va dunque esaminata nel merito con riferimento
 innanzitutto all'art. 3 della Costituzione, cui si richiamano tutti i
 giudici a quibus.
    L'Avvocatura   dello   Stato,  nell'atto  di  intervento  relativo
 all'ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma,  sostiene  che  la
 disposizione   di   cui   al  quarto  comma  dell'art.  195  andrebbe
 interpretata nel senso che il divieto per la polizia  giudiziaria  di
 deporre "sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni" si
 riferisca esclusivamente ai "testimoni" intesi nell'accezione tecnica
 e formale del termine, cioe' a coloro che abbiano assunto formalmente
 nel  processo  tale  qualifica;  la  stessa  Avvocatura  osserva, fra
 l'altro, che, sulla base dell'interpretazione della norma fornita dal
 giudice a quo, "i dubbi di costituzionalita' sembrerebbero in effetti
 fondati".
   La tesi interpretativa proposta  dall'Avvocatura  non  puo'  essere
 condivisa,  a  prescindere  dalla considerazione che essa non sarebbe
 comunque  risolutiva  di  fronte  alla  questione  sollevata  in  via
 generale  con  i riferimenti e le motivazioni accennate. Va, infatti,
 innanzitutto  osservato  che  tale  tesi  sembra  contraddetta  dalla
 relazione ministeriale all'art. 351 del codice, ove si afferma che il
 potere  della  polizia  giudiziaria di assumere sommarie informazioni
 dalle "persone che possono riferire circostanze utili ai  fini  delle
 indagini"  trova  fondamento nella direttiva 31, seconda parte, della
 delega ("dichiarazioni rese dai testimoni"), con cio'  intendendo  la
 direttiva stessa nel senso che il termine "testimoni" indichi appunto
 genericamente   e  atecnicamente  le  persone  che  possono  riferire
 circostanze utili. E' comunque determinante  rilevare  come  tutti  i
 giudici  a  quibus  abbiano concordemente e univocamente interpretato
 l'art.  195,  quarto  comma,  attribuendo  al  vocabolo   "testimoni"
 quest'ultimo   significato   generico,  anziche'  quello  restrittivo
 tecnico-formale. E' superfluo aggiungere che la Corte  deve  valutare
 la  legittimita'  costituzionale  della  norma  cosi'  come  essa  e'
 interpretata  dai  giudici  chiamati  ad  applicarla,   fatta   salva
 l'ipotesi,  che  ovviamente  non ricorre nel caso in esame, in cui si
 tratti  di  interpretazione  del  tutto  minoritaria  o   palesemente
 arbitraria ed erronea.
    3.2. - La questione e' fondata.
    Dalla  lettura,  non  sempre chiara ne' agevole, dell'art. 195 del
 codice di procedura penale risulta innanzitutto che la  testimonianza
 indiretta  e'  ammessa, purche' il testimone indichi "la persona o la
 fonte da cui ha appreso la  notizia  dei  fatti  oggetto  dell'esame"
 (settimo  comma).  Soddisfatta  questa  condizione  pregiudiziale, e'
 previsto che le persone-fonte debbano essere chiamate a  testimoniare
 in caso di richiesta di parte, ferma restando la facolta' del giudice
 di  disporne  l'esame  anche d'ufficio (commi primo e secondo). Se la
 disposizione di cui al primo comma non e' osservata - vale a dire se,
 nonostante la richiesta  di  parte,  le  persone  indicate  non  sono
 esaminate  -  la  testimonianza indiretta non puo' essere utilizzata,
 salvo che l'esame  delle  persone  stesse  "risulti  impossibile  per
 morte,   infermita'  o  irreperibilita'"  (terzo  comma).  In  questo
 complesso  normativo,  (i  commi  quinto  e  sesto   si   riferiscono
 rispettivamente  all'ipotesi  in  cui  la  conoscenza  dei  fatti sia
 avvenuta in forma diversa da quella orale e al caso in  cui  i  testi
 diretti  siano  le persone indicate negli artt. 200 e 201, in tema di
 segreto professionale e segreto  d'ufficio),  si  colloca  il  quarto
 comma, il quale - come si e' visto - vieta la testimonianza indiretta
 degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria. Trattasi di un
 divieto  che  rappresenta  un'eccezione, sia rispetto alla richiamata
 disciplina dell'art. 195 nel suo complesso, sia rispetto alla  regola
 generale  sulla capacita' di testimoniare, in quanto gli appartenenti
 alla polizia giudiziaria hanno capacita' di  testimoniare  come  ogni
 persona   (art.   196),  non  essendovi  nei  loro  confronti  alcuna
 previsione di incompatibilita' (art. 197).
    La eccezione costituita dal  divieto  in  esame,  sotto  qualsiasi
 profilo   la   si   consideri,   appare   sfornita   di   ragionevole
 giustificazione.
    Invero, una volta che il legislatore, come detto, ha escluso  ogni
 ipotesi   d'incompatibilita'  a  testimoniare  -  quale  e',  invece,
 prevista dall'art. 197, primo comma, lett.  d)  per  coloro  che  nel
 procedimento  "svolgono  o  hanno  svolto  la  funzione  di  giudice,
 pubblico ministero o loro ausiliario" - nei confronti degli ufficiali
 e agenti di polizia giudiziaria, non si comprende  perche'  a  questi
 ultimi   debba   essere   inibita   quella   particolare   forma   di
 testimonianza, che e' la testimonianza indiretta,  ammessa  dall'art.
 195  con  la  previsione di limiti e garanzie ben specificate. Non si
 puo' certo sostenere, nemmeno in via  di  mera  astrazione,  che  gli
 appartenenti   alla  polizia  giudiziaria  siano  da  ritenersi  meno
 affidabili  del  testimone  comune;  a   prescindere   dalla   palese
 assurdita'   di  una  ipotesi  siffatta,  essa  risulterebbe  poi  in
 insanabile contraddizione col  ruolo  e  la  funzione  che  la  legge
 attribuisce alla polizia giudiziaria (v. l'art. 55 e il titolo IV del
 libro  V  del  codice  di  procedura penale). Ne' puo' sostenersi che
 proprio dall'attivita' svolta nella fase delle  indagini  preliminari
 derivi  una  ragionevole giustificazione atta a sorreggere il divieto
 di cui si discute. Si e' gia' osservato che, se si trattasse  di  una
 incompatibilita'   di   tale  natura,  essa  avrebbe  dovuto  trovare
 esplicita collocazione nell'art. 197 del codice di procedura  penale,
 dove non ne e' traccia; ma non appare nemmeno minimamente accettabile
 che   essa   valga   soltanto   per   quella  particolare  specie  di
 testimonianza che e' la testimonianza indiretta.
    La palese irragionevolezza della norma impugnata viene ancor  piu'
 chiaramente  in  luce  ove  si  consideri  che  -  come risulta dalle
 motivazioni  delle  diverse  ordinanze  di   rimessione   -   possono
 verificarsi  casi  in  cui  la  testimonianza indiretta della polizia
 giudiziaria  che  ha  operato  nell'immediatezza  venga   ad   essere
 addirittura fondamentale per l'accertamento dei fatti, quando l'esame
 dei  testimoni-fonte  obbligatoriamente  indicati sia impossibile per
 morte, infermita' o irreperibilita' (art.  195,  terzo  comma):  tali
 ipotesi,  e  lo rileva la stessa Avvocatura dello Stato, possono, del
 resto, riguardare anche la difesa dell'imputato.
    3.3. - Ne' si potrebbe obbiettare che il divieto di  testimonianza
 indiretta   nei  confronti  degli  ufficiali  ed  agenti  di  polizia
 giudiziaria trovi un'adeguata giustificazione nei  principi  generali
 che informano il nuovo processo penale.
    Il  metodo  orale  (art.  2, n. 2, della legge-delega) costituisce
 certamente uno dei principi informatori del  codice  vigente,  ed  in
 base  ad  esso  il  convincimento  del  giudice  deve  essenzialmente
 formarsi sulla base delle prove che si assumono al dibattimento nella
 pienezza del contraddittorio. Ma con  tale  principio  non  solo  non
 contrasta  ma  anzi  si  conforma  pienamente  la testimonianza degli
 appartenenti alla polizia giudiziaria su fatti conosciuti  attraverso
 dichiarazioni  loro rese da altre persone, testimonianza da assumersi
 nei modi e nelle forme rigorosamente prescritte dell'esame diretto  e
 del   controesame.   Non  appare  quindi  convincente  l'affermazione
 contenuta  nella  relazione  al  progetto  preliminare  a   proposito
 dell'art.  195,  secondo  cui,  nella  parte  che  qui interessa, "il
 disposto del comma 4 da' attuazione alla direttiva  31  della  legge-
 delega che mira a garantire, ad un tempo, l'oralita' della prova e il
 diritto  di  difesa".  L'oralita'  della  prova e' fuori discussione,
 mentre  il  diritto  di  difesa  e'  comunque   tutelato   attraverso
 l'interrogatorio diretto e il controinterrogatorio del testimone.
    4.  -  E'  bensi'  vero  che l'art. 195, quarto comma, costituisce
 puntuale attuazione della direttiva n. 31 dell'art.  2  della  legge-
 delega, la quale stabilisce, con formulazione precisa e specifica, il
 "divieto  di  ogni  utilizzazione  agli  effetti  del giudizio, anche
 attraverso testimonianza  della  stessa  polizia  giudiziaria,  delle
 dichiarazioni  ad  essa  rese  da  testimoni  o dalla persona nei cui
 confronti  vengono  svolte  le  indagini,  senza  l'assistenza  della
 difesa".  Ma, mentre per quest'ultima parte, - e' superfluo ribadirlo
 -, il divieto appare tutt'altro che irrazionale, coerente com'e'  col
 sistema di garanzie di cui beneficia l'imputato (cfr. in tal senso la
 sentenza  n.  259 del 1991), per quanto attiene le dichiarazioni rese
 da testimoni le considerazioni sopra svolte  in  ordine  alla  palese
 irragionevolezza, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, della
 norma delegata non possono non valere anche nei confronti della parte
 della  direttiva  n.  31  relativa  ai testimoni, del resto anch'essa
 correttamente impugnata dal Tribunale di Roma.
    Restano  assorbiti gli altri profili di illegittimita' prospettati
 dal Tribunale di Roma in riferimento agli artt. 24, primo  e  secondo
 comma, 111, primo comma, e 112 della Costituzione.
    5.  - Il medesimo giudice a quo ha sollevato - come detto al punto
 1 - questione di legittimita' costituzionale anche degli  artt.  500,
 quarto  comma,  e  512 del codice di procedura penale, nelle parti in
 cui  il  primo  non  consente   l'acquisizione   al   fascicolo   del
 dibattimento  dei  verbali  di cui all'art. 357, secondo comma, lett.
 c), del codice di procedura penale neppure nei casi in  cui  non  sia
 possibile  l'esame  del  teste  assunto dalla polizia giudiziaria per
 sopravvenuta morte, infermita' o irreperibilita' del teste medesimo e
 quindi i detti verbali non siano utilizzabili per le contestazioni; e
 il secondo non consente la lettura degli atti assunti  dalla  polizia
 giudiziaria   neanche  nei  casi  in  cui  per  fatti  o  circostanze
 imprevedibili ne sia divenuta impossibile la ripetizione.  Ad  avviso
 del  remittente i divieti sanciti da queste ultime norme, aggiunti al
 divieto  di  cui  all'art.  195,  quarto   comma,   comportano   come
 conseguenza "la irrimediabile perdita processuale delle dichiarazioni
 rese   nell'immediatezza   e   sul   luogo  dei  fatti  da  testimoni
 successivamente deceduti o divenuti irreperibili".
    Ma,  una  volta  dichiarata   la   illegittimita'   costituzionale
 dell'art.  195,  quarto comma, e conseguentemente caducato il divieto
 della testimonianza indiretta degli ufficiali ed  agenti  di  polizia
 giudiziaria,  le ulteriori questioni ora indicate - come emerge dalla
 prospettazione   delle   stesse   svolta    nell'ampia    motivazione
 dell'ordinanza di rimessione - non hanno piu' ragion d'essere.