ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 210 del decreto
 legislativo   28  luglio  1989,  n.  271  (Norme  di  attuazione,  di
 coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), promosso
 con ordinanza emessa il 14 maggio 1991 dal Giudice  per  le  indagini
 preliminari  presso il Tribunale di Firenze nel procedimento penale a
 carico di Dainelli Alberto, iscritto al n. 475 del registro ordinanze
 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  28,
 prima serie speciale, dell'anno 1991;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 4  dicembre  1991  il  Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
                           Ritenuto in fatto
    Nel  corso  dell'udienza preliminare relativa ad un procedimento a
 carico di Alberto Dainelli, imputato del reato  di  cui  all'art.  1,
 secondo  comma,  nn.  1 e 2 del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429,
 convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1982, n. 516,  il
 Giudice  per  le indagini preliminari presso il Tribunale di Firenze,
 su eccezione della difesa dell'imputato, ha  sollevato  questione  di
 costituzionalita'  dell'art.  210  del  decreto legislativo 28 luglio
 1989, n.  271,  recante  norme  di  attuazione,  di  coordinamento  e
 transitorie  del  nuovo  codice di procedura penale, ritenendo che la
 norma impugnata sia in contrasto con i principi e i criteri direttivi
 enunciati nell'art. 2, punto 12, della  legge  delega  e  rappresenti
 pertanto  una  violazione  degli  artt.  76  e 77, primo comma, della
 Costituzione.
    Il giudice a quo osserva che la cognizione dei reati previsti  dal
 decreto-legge n. 429 del 1982 e' attribuita al tribunale dall'art. 11
 del medesimo decreto e che tale norma continua ad essere vigente, pur
 dopo  l'entrata  in  vigore  del nuovo codice di procedura penale, in
 ragione del citato art. 210, secondo cui "continuano a osservarsi  le
 disposizioni  di  leggi  o  decreti  che  regolano  la competenza per
 materia o per territorio in deroga alla disciplina del codice nonche'
 le disposizioni che prevedono la competenza  del  giudice  penale  in
 ordine  a  violazioni  connesse  a  fatti  costituenti reato". Cio' -
 secondo il giudice a quo - si pone in contrasto con l'art.  2,  punto
 12,  della  legge n. 81 del 1991, che governa anche l'esercizio della
 delega ad emanare norme  di  attuazione  e  di  coordinamento  e  che
 prevede:  a)  l'attribuzione  al  pretore  della  competenza  per  le
 contravvenzioni, per i delitti punibili con la pena della multa o con
 quella  della  reclusione  non  superiore nel massimo a quattro anni,
 nonche' per altri delitti specificamente indicati; b)  l'attribuzione
 alla  corte  d'assise  della competenza per i delitti punibili con la
 pena dell'ergastolo o con quella della reclusione non  inferiore  nel
 massimo a ventiquattro anni, nonche' di ogni altro delitto doloso, se
 dal   fatto  e'  derivata  la  morte  di  una  o  piu'  persone,  con
 possibilita', per il legislatore delegato, sia di  escludere  delitti
 specificamente indicati sia di includerne altri; c) l'attribuzione al
 tribunale  di una competenza, per cosi' dire, residuale, identificata
 con il riferimento ai reati non attribuiti alla competenza  del  pre-
 tore e della corte d'assise.
   Alla  luce  di tale direttiva non sarebbe consentito al legislatore
 delegato di sottrarre alla competenza del pretore ed includere  nella
 competenza  del tribunale reati di carattere contravvenzionale ovvero
 delitti  punibili  con  la  pena  della  multa  o  con  quella  della
 reclusione  non  superiore  nel  massimo a quattro anni (quali sono i
 reati previsti dal  decreto-legge  10  luglio  1982,  n.  429).  Tale
 vincolo,  per  la  chiarezza con cui esso e' espresso dal punto n. 12
 dell'art. 2 della legge delega,  trova  applicazione  anche  riguardo
 alle  norme  di  attuazione  e  di  coordinamento  emanate  ai  sensi
 dell'art. 6 della medesima legge. Ne consegue - conclude il giudice a
 quo - che l'art.  210  del  decreto  legislativo  n.  271  del  1989,
 disponendo  il  mantenimento  in vigore delle disposizioni di leggi o
 decreti che regolano la competenza per materia o territorio in deroga
 alla disciplina del codice, e'  da  ritenersi  in  contrasto  con  la
 delega,  nella  parte  in  cui  si  applica  anche a disposizioni che
 attribuiscano al tribunale la competenza in  ordine  a  reati  per  i
 quali,   secondo   il  principio  di  cui  al  richiamato  punto  12,
 sussisterebbe altrimenti la competenza pretorile.
    E'  intervenuto  il  Presidente  del   Consiglio   dei   ministri,
 rappresentato  e  difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, che ha
 in primo luogo osservato come dal testo dell'ordinanza di  rimessione
 non  era  possibile  comprendere  se  la  questione  rimanesse o meno
 rilevante pur dopo le modifiche che l'art.  1  del  decreto-legge  16
 marzo  1991,  n.  83,  convertito,  con modificazioni, nella legge 15
 maggio 1991, n. 154, aveva apportato all'art. 1 del decreto-legge  n.
 429 del 1982.
    Nel   merito,   l'Avvocatura  ha  sostenuto  l'infondatezza  della
 questione, affermando che i criteri direttivi  stabiliti  in  materia
 dalla  legge  delega  erano  ben piu' elastici di quanto ritenuto dal
 giudice a quo e comunque non erano tali da escludere la sopravvivenza
 di norme speciali derogatorie.
    La parte privata non si e' costituita.
                        Considerato in diritto
    1. - L'art. 210 del decreto legislativo 28 luglio  1989,  n.  271,
 recante  norme  di  attuazione,  di  coordinamento  e transitorie del
 codice di procedura penale, stabilisce che "continuano ad  osservarsi
 le  disposizioni  di  leggi  o decreti che regolano la competenza per
 materia o per territorio in deroga alla disciplina  del  codice  ..".
 Secondo  il  giudice  a  quo tale norma, consentendo la sopravvivenza
 anche di norme che stabiliscono la competenza, per determinati reati,
 in difformita' dai criteri stabiliti, in  materia  di  riparto  delle
 competenze  per  materia,  dalla  direttiva  n. 12, di cui all'art. 2
 della  legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, si porrebbe in contrasto
 con la delega stessa e quindi con l'art. 76 della Costituzione.  Tale
 contrasto   sussisterebbe,   in  particolare,  con  riferimento  alla
 sopravvivenza di quelle norme - come l'art. 11 del  decreto-legge  10
 luglio  1982,  n.  429,  convertito  con  modificazioni nella legge 7
 agosto 1982, n. 516 - che attribuiscono al tribunale la competenza in
 ordine a reati per i quali  sussisterebbe  altrimenti  la  competenza
 pretorile,  posto  che  la  direttiva  n. 12 non prevede - secondo il
 giudice a quo - una deroga di tal genere.
    2. - Successivamente alla pronunzia dell'ordinanza  di  rimessione
 e'  stata  emanata  la legge 15 maggio 1991, n. 154 che ha convertito
 con modificazioni il decreto-legge 16 marzo 1991, n. 83,  modificando
 l'art. 1 del decreto-legge n. 429 del 1982. Nessuna modifica e' stata
 peraltro apportata alle disposizioni in materia di competenza dettate
 dall'art.  11  di  quest'ultimo  decreto, sicche' il nuovo intervento
 legislativo  non  e'  idoneo  ad  incidere  sulla   rilevanza   della
 questione.
    3. - La questione non e' fondata.
    Essa si basa implicitamente sul presupposto che la direttiva n. 12
 fosse  rivolta  non  soltanto  a  stabilire  i criteri che l'emanando
 codice di procedura avrebbe  dovuto  seguire  per  il  riparto  della
 competenza  per  materia tra i vari organi della giustizia penale, ma
 anche a determinare  l'abrogazione  delle  preesistenti  norme  della
 legislazione  speciale  che stabilivano la competenza per determinati
 reati in deroga alle norme del codice previgente.
    Non vi e' invece alcuna ragione che possa indurre ad  interpretare
 in tal modo la volonta' del legislatore delegante. E' pur vero che il
 principio  espresso  dal brocardo lex posterior generalis non derogat
 priori  speciali  non  ha  valore  assoluto,  ma,  per   vincere   la
 presunzione  interpretativa  che  esso  esprime, occorre che vi siano
 chiari elementi in senso contrario. Tali elementi non  risultano  ne'
 dal   tenore  letterale  della  direttiva  ne'  dai  relativi  lavori
 preparatori. E i criteri di  riparto  delle  competenze  per  materia
 delineati dalla direttiva n. 12 (a prescindere dalla validita' o meno
 dell'interpretazione  che  di  essa  fornisce  il  giudice a quo) non
 costituiscono espressione di un principio ispiratore  essenziale  del
 nuovo  codice, tale da non consentire deroga alcuna, neppure ad opera
 di leggi speciali. Ne', infine, puo' ritenersi che  l'emanazione  del
 nuovo codice abbia fatto di per se' venir meno le ragioni che avevano
 indotto il legislatore ad adottare discipline speciali in materia.