IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza all'udienza di discussione del 22 novembre 1991 nella causa n. r.g. 643/91 tra l'avv. Bianchi Corrado (avv. G. Solimeno), contro Assicurazioni generali S.p.a. (avv. P. Fanfani). Corrado Bianchi, dirigente della compagnia "Assicurazioni generali S.p.a.", riceveva in data 5 gennaio 1989 dal proprio datore di lavoro un "avviso" di recesso per il 31 gennaio 1990, al compimento del sessantesimo anno di eta'. Il Bianchi replicava con lettera del 24 gennaio 1989 comunicando di volersi avvalere del diritto di opzione a continuare il rapporto di lavoro fino al sessantatreesimo anno, coincidente con il maximum contributivo ai fini del trattamento di quiescenza, ai sensi dell'art. 6 del d.-l. 22 dicembre 1981, n. 791, convertito in legge 26 febbraio 1982, n. 54. La societa' negava la sussistenza di tale diritto ed offriva, in conformita' al disposto dell'art. 40 del C.C.N.L. per i dirigenti delle imprese assicuratrici, la somma corrispondente alla contribuzione volontaria mancante per il raggiungimento del tetto contributivo. In data 7 febbraio 1990 il Bianchi impugnava il licenziamento, intervenuto alla preannunciata data del 31 gennaio dello stesso anno. Con lettera 4 maggio 1990 le Assicurazioni generali ponevano in essere un nuovo atto di recesso (ove il primo fosse risultato invalido o inefficace), motivandolo con il predetto limite di eta' e con le esigenze di ringiovanimento e riorganizzazione dei quadri aziendali. Il lavoratore impugnava anche il secondo licenziamento e adiva il pretore di Firenze, il quale, con sentenza 1-28 febbraio 1991, rigettava la domanda sulla considerazione che la giurisprudenza di legittimita' ha piu' volte affermato che "la facolta' di opzione, di cui alla legge n. 54/1982, spetta anche al dirigente, pur se il rapporto di questi non acquista la stabilita' prevista dalle leggi nn. 604/1966 e 300/1970, restando viceversa governato dallo stesso regime giuridico che aveva in precedenza sulla base delle norme generali ovvero dell'eventuale disciplina piu' favorevole", ne' tale giurisprudenza puo' essere disattesa sulla base della contraria decisione n. 11311/1990 della stessa Corte di cassazione, peraltro non confermata dalla giurisprudenza successiva. Osservava ancora il pretore che la norma in questione ha rilevanza sul solo rapporto previdenziale, e non anche su quello di lavoro, autonomo rispetto al primo, per cui ogni legittimo diritto del dipendente sarebbe stato soddisfatto con il versamento dell'importo pari ai contributi volontari mancanti per raggiungere i quaranta anni di anzianita' contributiva. Il soccombente impugnava la decisione davanti a questo tribunale, denunciando la erroneita' della interpretazione della legge n. 54/1982, che, a suo giudizio, avrebbe invece sancito il diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro, mezzo questo indispensabile per il raggiungimento dello scopo prefissosi dal legislatore. La societa' assicuratrice resisteva richiamando la motivazione della sentenza impugnata. Il tribunale ritiene di dover sollevare di ufficio questione di costituzionalita' del primo comma dell'art. 6 del d.-l. 22 dicembre 1981, n. 791, convertito nella legge 26 febbraio 1982, n. 54, perche' confliggente con gli artt. 3 e 38 della Costituzione. Per il diritto vivente (cfr. Cass. nn. 2193 e 5968 del 1987, 5084/1988, 6197 e 11437 del 1990). Il diritto di opzione previsto dall'art. 6, primo comma, della legge 26 febbraio 1982, n. 54, com- pete anche ai dirigenti, restando riservata esclusivamente ai lavoratori la valutazione dell'opportunita' o della convenienza (peraltro non riducibile al mero aspetto economico) dell'esercizio o meno del diritto stesso; per altro, il rapporto di lavoro dei dirigenti, i quali abbiano optato per la continuazione del servizio ai sensi di detta disposizione, rimane assoggettato alla medesima disciplina ad esso applicabile fino all'esercizio dell'opzione stessa, non avendo il quarto comma dello stesso articolo esteso a tali dirigenti la tutela del posto di lavoro stabilita dalla legge n. 604/1966; consegue che, in presenza di una disciplina contrattuale la quale assicuri al dirigente la stabilita' fino al sessantesimo anno di eta', tale stabilita' non si protrae fino al raggiungimento della massima anzianita' contributiva o del sessantacinquesimo anno di eta', ma permane entro il limite temporale contrattuale, scaduto il quale e' applicabile il regime di libera recedibilita', salva l'operativita' di altre garanzie eventualmente previste dalla disciplina collettiva. Sembra pacifico, in dottrina e in giurisprudenza, che con la normativa in questione il legislatore abbia inteso soddisfare due esigenze: ad un lato quella del lavoratore a raggiungere la massima contribuzione di anzianita' ed a continuare, a tal fine, il rapporto di lavoro (con il limite dei sessantacinque anni), e dall'altro quella dell'ente previdenziale al miglioramento del proprio bilancio, da ottenersi con il differimento della erogazione del trattamento pensionistico e con l'acquisizione di ulteriori contributi assicuarativi. Per quanto riguarda i dirigenti, una tale finalita' ne viene preclusa. Se e' vero, come sostiene la costante giurisprudenza di legittimita', che il diritto di opzione di cui al ridetto articolo viene riconosciuto anche a tale categoria di lavoratori, e' pur vero che lo stesso "diritto vivente", che ribadisce il principio della libera recedibilita', di fatto lo vanifica. Basti pensare alla situazione paradossale in cui verrebbe a trovarsi il prestatore di lavoro (dirigente) che abbia esercitato il diritto di opzione laddove nel contratto collettivo non sia ad esso assicurata la conservazione del posto: questi verrebbe a trovarsi, nell'arco di tempo che va dalla data del recesso a quella del raggiungimento del massimo contributivo, privato della retribuzione e del trattamento di quiescenza. E una tale conseguenza lungi dal costituire quell'incentivo all'esercizio del diritto di opzione che e' nella ra- tio legis si risolve in una remora pressoche' insormontabile. Di diverso segno, rispetto alla giurisprudenza dominante, e' la sentenza 23 novembre 1990, n. 11311, della Corte di cassazione, sezione lavoro, per la quale "il rapporto della lavoratrice che abbia diritto, ai sensi dell'art. 4, n. 903/1977, alla prosecuzione fino al compimento del sessantesimo anno, e' assistito dalla stabilita', prevista dall'art. 18 dello statuto dei lavoratori, quale che sia la dimensione dell'impresa, derivandone in capo al datore l'obbligo di giustificare il recesso ai sensi dell'art. 3 della legge n. 640/1966". La suprema Corte sviluppa la sua argomentazione anche con riferimento all'art. 6 della legge n. 54/1982 osservando: "La validita' della tesi della ricorrente si fonda, ad avviso della Corte, sul dato normativo e sulle considerazioni che hanno ispirato le pronunce della Corte costituzionale n. 137 del 18 giugno 1986 e n. 498 del 27 aprile 1988. Invero, la normativa prevista dall'art. 11 della legge n. 604/1966 - che consente la libera recedibilita' del rapporto di lavoro nelle tre ipotesi di una dimensione imprenditoriale inferiore ai trentacinque dipendenti, di possesso, da parte del dipendente, dei requisiti di legge per il conseguimento della pensione di vecchiaia o di raggiungimento, da parte dello stesso, del sessantacinquesimo anno di eta' - deve essere coordinata con le successive disposizioni di legge (precisamente l'art. 4 della legge n. 903/1977, che qui interessa, e l'art. 6 della legge n. 54 del 26 febbraio 1982). Tali disposizioni nel prevedere la prosecuzione del rapporto di lavoro nel primo caso a favore delle lavoratrici fino al limite di eta' previsto per i lavoratori, nel secondo fino al conseguimento dell'anzianita' contributiva massima utile prevista dai singoli ordinamenti, dispongono, sempre nei confronti di detti lavoratori, l'applicabilita' delle disposizioni di cui alla legge n. 604/1966, in deroga all'art. 11 della legge; l'art. 4 della legge n. 903/1977 precisa che sono applicabili anche le norme modificatrici o integratici della legge suddetta. Dall'interpretazione coordinata di tali disposizioni emerge che, fermo restando per tutti il limite dell'attivita' lavorativa al sessantacinquesimo anno di eta', le altre ipotesi che limitano l'applicazione delle disposizioni contenente nella legge n. 604/1966 non valgono nei confronti di detti lavoratori. Cio' non soltanto con riguardo alla disposizione relativa al possesso dei requisiti per il conseguimento della pensione di vecchiaia (oggetto di specifica modificazione da parte delle due normative), ma anche per quella che richiama il limite numerico dei dipendenti. E cio' sulla base della interpretazione letterale e logica delle disposizioni di legge in esame, e per l'implicito richiamo al principio di "coerenza" dell'ordinamento, il quale, come e' stato posto in rilievo da autorevole dottrina, "non puo' concedere un particolare beneficio senza approntare gli strumenti che ne rendano effettivo il conseguimento". Con la sentenza in esame la Cassazione non ha pero' invertito l'indirizzo denominate precedente che e' stato riconfermato con la successiva decisione 28 novembre 1990, n. 11437. In un tale contesto i lavoratori "dirigenti" risultano esclusi dalla possibilita' di esercitare il diritto di opzione in parola, che pure, come si e' detto, viene loro esplicitamente riconosciuto dalla giurisprudenza dominante. Riconoscere un diritto e contestualmente negare la possibilita' del suo esercizio si risolve in una negazione in toto dello stesso diritto, e senza giustificazione, poiche' non si tratterebbe di introdurre surretiziamente nell'ordinamento il regime di stabilita' del rapporto di lavoro dei dirigenti, ma semplicemente di consentire per tale categoria l'esercizio del diritto alla prosecuzione del rapporto, che e' strumentale e necessario, per poter aumentare l'anzianita' contributiva. Una tale normativa si pone in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione e dell'art. 38 della stessa carta fondamentale, che prevvede l'adeguamento dei mezzi necessari, fra le altre ipotesi, anche in caso di vecchiaia. La questione di costituzionalita', di evidente influenza nel giudizio de quo, non appare manifestamente infondata.