LA CORTE D'ASSISE D'APPELLO
    Ha pronunciato la seguente ordinanza  nella  causa  penale  contro
 Turco Paolo e Conci Antonio imputati come in atti.
    Appellante  il  procuratore  generale dalla sentenza del g.i.p. di
 Trento di data 17 aprile 1991.
    Letti i motivi d'appello  del  procuratore  generale  di  data  26
 aprile 1991 del seguente tenore: premesso che con il presente atto il
 p.g.  intende impugnare il capo della decisione concernente la misura
 della pena inflitta  a  Turco  Paolo  e  Conci  Antonio,  si  segnala
 preliminarmente  la  questione,  non  manifestamente infondata, della
 illegittimita' costituzionale dell'art. 443, terzo  comma,  del  cod.
 proc. pen.
    Proprio  in  base  alla  citata  norma  il  p.m. non puo' proporre
 appello contro le  sentenze  di  condanna  pronunciate  nel  giudizio
 abbreviato, salvo che il giudice di prima istanza abbia modificato il
 titolo del reato (ipotesi estranea al caso in esame).
    Quindi  questo atto di appello sarebbe da dichiarare inammissibile
 ex art. 591, primo comma, lettera  a)  del  c.p.p.,  a  meno  che  il
 giudice di seconda istanza disponga la sospensione del procedimento e
 la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte  Costituzionale perche' si
 pronunci sulla questione di illegittimita' dell'art. 443, terzo comma
 del c.p.p.
    In altre parole, per rendere ammissibilie l'appello e per  entrare
 nel   merito   dei   motivi  di  impugnazione  occorre  rimuovere  la
 preclusione posta al p.m. dalla citata norma che l'appellante  reputa
 illegittima  per  contrasto  con  l'art.  76  della  Costituzione  in
 riferimento alla direttiva n. 3 della legge-delega 16 febbraio  1987,
 n. 81.
    Trattasi di questione non manifestamente infondata dal momento che
 imputato  e  pubblico  ministero  si  trovano su un evidente piano di
 disparita'  rispetto  ai  limiti  di  appellabilita'  delle  sentenze
 pronunciate nel giudizio abbreviato.
    L'imputato  infatti  incontra  una  barriera  molto piu' blanda di
 quella opposta al p.m., potendo  il  primo  proporre  appello  contro
 tutte  le condanne a pene detentive che devono essere espiate, mentre
 il secondo non puo' mai impugnare con lo stesso mezzo le sentenze  di
 condanna,  indipendentemente  dalla espiabilita', tranne il caso, non
 sussistente nella fattispecie, che il  giudice  abbia  modificato  il
 titolo del reato.
    E  quando  il  g.i.p. non e' incorso in errori di diritto, diventa
 impossibile anche il ricorso per cassazione, lasciando in tal modo il
 p.m. privo di qualsiasi mezzo di impugnazione idoneo a ricondurre  la
 misura    della    pena    nell'alveo    della    poporzionalita'   e
 dell'adeguatezza.
    Se cosi' e' - come risulta a chiare lettere dal disposto di  legge
 - il terzo comma dell'art. 443 del c.p.p. si discosta dalla direttiva
 n.  3  della  legge-delega  che  fissa un principio cardine del nuovo
 rito: accusa e difesa partecipano ad ogni stato e grado del  processo
 penale su basi di parita'.
    La  direttiva 53 della legge n. 81/1987, benche' abbia previsto un
 limite alla appellabilita' delle sentenze pronunciate  a  seguito  di
 giudizio  abbreviato,  non  ha  di certo voluto deviare dal principio
 della parita' tra accusa e difesa.
    Ai fini  della  non  manifesta  infondatezza  della  questione  di
 illegittimita'   costituzionale,  bisogna  pure  considerare  che  la
 preclusione posta al p.m. si risolve  in  un  totale  impedimento  al
 riesame  dei  criteri  che  il  g.i.p. ha preso in considerazione per
 determinare in concreto la pena.
    La esiguita' o la inadeguatezza della sanzione vulnera il concetto
 stesso di giustizia, quella giustizia che in relazione alla  gravita'
 del  reato e alla personalita' del reo (art. 133 del cod. pen.) esige
 una pena adeguata affinche' essa rappresenti  il  momento  culminante
 del giudizio di colpevolezza.
    Un  ulteriore  sospetto di illegittimita' costituzionale nasce dal
 confronto tra l'art. 443 e l'art. 595 del codice di procedura  penale
 in relazione alle cause di inammissibilita' dell'impugnazione sancite
 dall'art. 591.
    A  norma  dell'art. 595, la parte che non ha proposto impugnazione
 puo' proporre appello incidentale quando un'altra parte del  processo
 ha impugnato la sentenza. Scopo dell'appello incidentale e' quello di
 ottenere una pronuncia diversa da quella richiesta dall'appellante in
 via  principale, a guisa di facolta' incondizionata a favore di tutte
 le parti che  non  abbiano  impugnato  per  primi  la  decisione  del
 giudice.
    Ebbene,  tale facolta' viene ad essere soppressa nei confronti del
 pubblico ministero, quando l'imputato, una volta definito il giudizio
 abbreviato, insorge contro una sentenza di condanna a pena  detentiva
 da espiare.
    Il p.m., infatti, non potrebbe proporre appello incidentale, avuto
 riguardo  al  disposto  dell'art.  591 del c.p.p. che colpisce con la
 comminatoria della inammissibilita' l'impugnazione  proposta  da  chi
 non e' legittimato, come previsto dall'art. 443, terzo comma.
    Per   contro,  l'imputato  conserva  la  facolta'  di  impugnativa
 incidentale quando il p.m. si rivolge al giudice di  seconda  istanza
 per  ottenere  la  riforma  di  una  sentenza  di  condanna che abbia
 modificato il titolo del reato (unica ipotesi di appello concessa  al
 p.m. nel caso di condanna dell'imputato).
    In  questo  caso  la disparita' di trattamento tra accusa e difesa
 appare cosi' evidente da assumere  connotazioni  di  vera  e  propria
 irragionevolezza,   accentuando   maggiormente  l'inosservanza  della
 direttiva n. 3 impartita dal  legislatore  delegante  al  legislatore
 delegato e da questo tenuta in non cale.
    La  questione  fin  qui' prospettata e' assolutamente rilevante ai
 fini della decisione, non potendo  la  Corte  di  assise  di  appello
 deliberare  sull'impugnazione  se non dopo che sara' stato rimosso il
 divieto posto al p.m. dall'art. 443 del c.p.p.
    Percio' l'appellante chiede che la Corte,  in  via  pregiudiziale,
 ritenuta  non manifestamente infondata la questione di illegittimita'
 costituzionale dell'art.  443,  terzo  comma  del  cod.  proc.  pen.,
 sospenda  il  giudizio e ordini la trasmissione degli atti alla Corte
 costituzionale affinche' si  pronunci  sulla  legittimita'  di  detta
 norma,  stante  il  suo  contrasto  con l'art. 76 della Costituzione,
 riferibile all'inosservanza della direttiva n. 3  della  legge-delega
 n. 81/1987 e quelli aggiunti dallo stesso procuratore generale dd. 27
 novembre 1991 del seguente tenore:
    La  sentenza n. 363 dell'11 luglio 1991 della Corte costituzionale
 contiene due  declaratorie:  una  di  illegittimita'  dell'art.  443,
 secondo  comma,  del  c.p.p.  nella  parte  in  cui  non  prevede che
 l'imputato non puo' proporre appello contro le sentenze  di  condanne
 ad  una  pena  che  comunque  non  deve  essere  eseguita; l'altra di
 infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 443, terzo comma, del c.p.p.
    Per effetto di tale pronuncia la situazione che  il  p.g.  pose  a
 fondamento del suo appello di data 26 aprile 1991 si e' ulteriormente
 alterata, essendosi approfondito il solco della disparita' tra accusa
 e  difesa.  Infatti  e' stato ampliato il diritto di appello a favore
 dell'imputato in tutti i casi di sua condanna,  mentre  sono  rimasti
 immutati i precedenti limiti nei confronti del p.m.
    In  sostanza,  l'imputato in caso di condanna puo' chiedere sia il
 proscioglimento sia la diminuzione della pena;  il  p.m.  invece,  in
 caso  di  condanna, puo' proporre appello esclusivamente se il g.i.p.
 abbia modificato il titolo del reato.
    Messe a raffronto le diverse facolta' delle parti, ne consegue che
 all'impugnativa per  ottenere  una  diminuzione  della  pena  mai  si
 contrappone  una  impugnativa  per ottenere un aumento della pena. In
 altre parole, ad una situazione obbiettivamente omogenea  corrisponda
 un   trattamento  soggettivo  differenziato  che  rende  ancora  piu'
 stridente la disparita' di trattamento tra accusa e difesa,  malgrado
 la parita' sancita nella direttiva n. 3 della legge delega.
    E'  ben  vero  che  la  Corte costituzionale ha dichiarato, che la
 summenzionata sentenza, non fondata la  questione  di  illegittimita'
 del  terzo comma dell'art. 443, ossia della disposizione che fissa un
 limite alla facolta'  di  appello  del  p.m.  Tuttavia  la  questione
 risulta   esaminata   con  esclusivo  riferimento  all'art.  3  della
 Costituzione e non gia' con riferimento alla  direttiva  n.  3  della
 legge  delega  che,  se  violata dal legislatore delegato, importa il
 contrasto della norma con gli artt. 76 e 77 della Costituzione.
    L'appellante reputa quanto mai opportuno sottoporre nuovamente  la
 questione  alla  Corte  costituzionale  sotto  il  profilo non ancora
 valutato e deciso.
    Il principio della parita' tra accusa e difesa non dovrebbe patire
 deroghe solo perche' le finalita' perseguite dal giudizio  abbreviato
 (celerita'  e  ridotto  numero  degli  appelli) rimarrebbero in parte
 frustrate dall'ampliamento della facolta' dell'impugnativa.
    Se si considera che  proprio  in  conseguenza  dell'illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  443,  secondo comma del c.p.p. gli appelli
 dell'imputato sono destinati ad aumentare (anzi il fenomeno  e'  gia'
 in  atto),  non  si  vede  come  si  possa  contenere  la facolta' di
 impugnativa  della  pubblica accusa solo perche' gli scopi perseguiti
 dal rito abbreviato potrebbero essere vanificati.
    Invero, il ridotto numero degli appelli proposti dal p.m. rispetto
 all'elevatissimo numero di quelli proposti dagli imputati costituisce
 una nozione di fatto che rientra nella comune esperienza.
    Rileva invece la disparita' di trattamento, posto  che  l'imputato
 ha  il diritto di proporre appello anche per chiedere ed ottenere una
 diminuzione della pena, mentre il p.m. non e' legittimato a  chiedere
 ed ottenere l'aumento della pena, ossia l'altra faccia della medaglia
 che il condannato esibisce al giudice di secondo grado.
    Conviene rammentare che la pena rappresenta il fulcro del verdetto
 di  condanna,  il  giudizio  finale  sulla gravita' del reato e sulla
 personalita' del reo.