IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza all'udienza del 28 ottobre 1991, nel procedimento penale a cario di Laaffat Hassan nato a Marrakech (Marocco) il 6 luglio 1961 residente in Torino, via delle Orfane n. 19, difeso di fiducia dall'avv. C. Palumbo del Foro di Torino, imputato del reato di cui all'art. 73, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90 commesso in Torino il 14 marzo 1991. F A T T O Il 5 giugno 1991 il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Torino emetteva decreto che dispone il giudizio a carico di Laaffat Hassan, indicando l'udienza dell'8 luglio successivo per la comparazione del predetto avanti alla quinta sezione penale del tribunale di Torino. Il 1 luglio 1991 il pubblico ministero depositava presso la cancelleria del tribunale, ai sensi dell'art. 468 del c.p.p., la lista testimoniale con la richiesta di esame di tre testimoni e il giorno successivo il presidente del collegio, in applicazione del combinato disposto degli artt. 468, primo comma, e 172, quinto comma, del c.p.p., dichiarava l'inammissibilita' della richiesta per mancata osservanza del termine di deposito. Il dibattimento veniva preliminarmente rinviato fino all'odierna udienza ove il pubblico ministero, avuta la parola ai sensi dell'art. 493del codice di procedura penale e preso atto che il fascicolo per il dibattimento era unicamente formato dal certificato del casellario giudiziale e dal verbale di perquisizione domiciliare eseguita dalla polizia giudiziaria nell'appartamento di Laaffat, con esito negativo, non indicava alcun'altra prova di cui chiedere l'ammissione ne' dimostrava di non aver potuto indicare tempestivamente quelle dichiarate inammissibili. D I R I T T O L'art. 468 del c.p.p. stabilisce la regola della inammissibilita' delle prove testimoniali, qualora delle stesse non sia stata richiesta l'autorizzazione alla citazione, con deposito nella cancelleria del giudice precedente, almeno sette giorni prima del processo. La stetta correlazione esistente fra tale disposizione e l'art. 493 del c.p.p. (in tema di richiesta di ammissione, fra le altre, anche di tale tipo di prova testimoniale, sempre che, in ordine alla stessa, siano stati rispettati gli oneri di cui all'art. 468) e' espressione vivente del principio, dettato in via generale dal primo comma dell'art. 190 del c.p.p., secondo il quale il nuovo processo penale si informa a criteri di disponibilita' dei mezzi di prova affidata alle parti, cosi' capovolgendo il modello inquisitorio del previgente codice di rito. E' stata peraltro introdotta, nel corpo stesso dell'art. 190 (secondo comma), un'eccezione a tale regola essendo riservato alla previsione di specifiche norme di legge il potere-dovere del giudice di integrare d'ufficio le prove. Per evidenziare meglio quale sia stato, nell'introdurre tale eccezione, l'obiettivo perseguito dal legislatore, occorre tener presente la direttiva n. 3/73 della legge-delega, la quale, nel prevedere, senza particolari presupposti o collegamenti con i comportamenti processuali delle parti. "il potere del giudice di disporre l'assunzione dei mezzi di prova", indica comunque nella "ricerca della verita'" il fine ultimo del suo operare istruttorio d'ufficio. Fra i vari casi in cui tale potere-dovere puo' essere esercitato (artt. 70: perizia sulla capacita' di stare in giudizio; 195: citazione della fonte indicata nella testimonianza indiretta; 224 e 508: perizia; 237: acquisizione di documenti provenienti dall'imputato; 468.5: citazione del perito nominato nell'incidente probatorio a norma dell'art. 392 comma 2; 511: lettura degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento; 603: rinnovazione indispensabile dell'istruzione dibattimentale nella fase d'appello), spicca, per l'indeterminatezza del suo oggetto e, quindi, per l'enorme portata della sua applicabilita' astratta, specie se rapportata alla fase processuale - centrale - in cui si colloca, l'art. 507 del c.p.p. Detta norma stabilisce che il giudice, tramite l'acquisizione delle prove, puo', nei casi di assoluta necessita', disporre l'assunzione di nuovi mezzi di prova. Tralasciata per il momento la questione, non strettamente pertinente, circa la definizione ed individuazione dei casi "di assoluta necessita'" che autorizzano un siffatto potere istruttorio d'ufficio, appare importante sottolineare in quali termini, proprio in riferimento all'articolo citato, si sia espressa la relazione ministeriale che ha accompagnato l'entrata in vigore del nuovo codice di rito: in tale sede si e' evidenziato come non risulta .. mutata la fisionomia complessiva del dibattimento poiche' la sua struttura di fondo lascia intendere che i poteri ex officio rivestono un ruolo residuale e suppletivo rispetto alla carenza d'iniziativa delle parti; e come l'attuale formulazione del testo normativo "concede al giudice piu' ampi poteri di iniziativa probatoria, rispetto al testo della precedente legge-delega del 1974". D'altra parte, autorevole dottrina ha evidenziato nell'art. 507 una componente inquisitoria che il legislatore a ritenuto opportuno mantenere, come correttivo dell'eventuale inerzia o incompletezza nell'iniziativa delle parti e ha sottolineato come l'ampia portata dell'art. 507 sia coerente al sistema: i giudizi a contenuto indisponibile implicano canali istruttori aperti al giudice; ed ancora come l'onere di cui all'art. 468 sia onere imperfetto, essendo acquisibili d'ufficio, alla fine, le prove assolutamente necessarie. Quanto sopra esposto permette di affrontare il nocciolo della questione che oggi occupa il tribunale. Il problema interpretativo che in questa sede si pone nasce proprio dall'interferenza fra le due norme processuali citate: puo', cioe', l'inerzia della parte nel depositare tempestivamente la lista testimoniale essere supplita dal potere d'integrazione probatorio d'ufficio attribuito al giudice una volta terminata l'acquisizione delle prove? Sul punto esiste una produzione dottrinaria alquanto nutrita e gia' si e' dato atto delle opinioni piu' autorevoli a sostegno di una interpretazione dell'art. 507 del c.p.p. che consenta piu' ampi poteri integratori del giudice in materia di assunzione di mezzi di prova. Sull'altro fronte, c'e' chi invece sostiene che, se si dovesse accogliere la tesi della indipendenza del potere integratore d'ufficio del giudice dall'eventuale inerzia delle parti, si stravolgerebbe inaccettabilmente il principio informatore generale del codice, che affida ad esse l'iniziativa e l'onere dell'indicazione dei mezzi di prova; si lasciasse la possibilita' di ampia integrazione istruttoria ex art. 507, si vanificherebbe nella sostanza la sanzione di inammissibilita' delle prove testimoniali non tempestivamente dedotte (sotto quest'ultimo punto di vista sarebbe pero' facile replicare che la parte decaduta affronta comunque il grosso rischio di vedersi respingere la richiesta di prova ex art. 507 per mancanza di requisito della assoluta necessarieta'). In quest'ultima direzione si e' di recente espressa la Corte di cassazione (sez. III, 3 dicembre 1990, in Cass. pen. 1991, p. 495), la quale ha stabilito che, in assenza di deposito tempestivo delle liste testimoniali da parte del p.m., correttamente il giudice di merito ha assolto perche' il fatto non sussiste, non accogliendo la richiesta integrativa istruttoria avanzata dall'organo di accusa in sede di art. 507. Il giudice di legittimita' ha sottolineato, da un lato, l'insanabilita' della sanzione di inammissibilita' del deposito intempestivo della lista testimoniale (in ossequio al principio del divieto di prova a sorpresa); dall'altro, l'assenza di un potere d'integrazione ex art. 507 qualora sia risultata del tutto inesistente l'istruttoria dibattimentale per inerzia delle parti. Sotto quest'ultimo profilo, si e' evidenziato come il potere ex art. 507 (prevedendo l'assunzione di "nuovi" mezzi di prova) presupponga necessariamente la pregressa assunzione di "altre" prove, che, nel caso sottoposto al suo esame, mancavano. Non risultano, al momento, altre pronunce della Corte di cassazione sul punto. Il giudice di merito, quindi, deve prendere atto del fatto che, nella sua forma vivente, il combinato disposto degli artt. 468 e 507 del c.p.p. conduce, nelle fattispecie come quella che oggi ci occupa, alla inevitabile decisione assolutoria dell'imputato per totale insussistenza del fatto, sotto il profilo della carenza della prova d'accusa. Se tale e' l'interpretazione che il giudcie deve applicare, emergono nettissimi i profili di incostituzionalita' del combinato disposto citato. Innanzi tutto si ha la violazione dell'art. 112 della Costituzione. L'obbligatorieta' dell'azione penale, nel nostro ordinamento giuridico, non e' un'affermazione di puro principio. Per ottenere, nel concreto, che gli organi di accusa la esercitino legittimamente sono stati previsti, nel codice stesso in vigore, correttivi e controlli che dispiegano la loro efficacia in sede endoprocessuale: si pensi al meccanismo di controllo sui casi di archiviazione; al controllo giurisdizionale sulla correttezza della qualificazione giuridica data al fatto in sede di applicazione della pena. Si e' posto l'accento sull'efficacia endoprocessuale di tali controlli giurisdizionali, per evidenziare come, nel caso di inerzia o di ritardo nel deposito delle liste testimoniali da parte del p.m. (che equivale, in concreto, al mancato esercizio dell'azione penale se, come sostiene la Cassazione, e' inibito al giudice qualunque potere istruttorio d'ufficio), nessun rimedio processuale sia possibile. L'eventuale responsabilita' disciplinare del p.m. inerte o ritardatario non ha alcun rilievo processuale senza contare che potrebbe facilmente non emergere alcuna sua responsabilita', qualora il mancato deposito sia derivato da semplice disfunzione dell'ufficio. In secondo luogo, cosi' interpretata, la normativa viola il principio di cui all'art. 76 della Costituzione sotto il profilo dello straripamento dei poteri da parte del Governo delegato, con specifica violazione dei principi e criteri direttivi contenuti al punto 3/73 della legge-delega. Gia' si e' accennato al fatto che il legislatore delegante ha attribuito al giudice del dibattimento determinati poteri finalizzati alla ricerca di una verita' processuale non ancora evidenziabile sulla scorta degli elementi di prova richiesti, ammessi ed utilizzati ed ha specificamente previsto al riguardo che il presidente, anche su richiesta di altro componente il collegio, o il pretore, possano indicare alla parti temi nuovi od imcompleti purche' utili alla realizzazione di quel fine. Cio' sta a significare che il legislatore delegante non si e' accontentato di far discendere la decisione del giudice solo dalla valutazione delle prove richieste dalle parti, ma si e' voluto cautelare, per il rispetto appunto, della verita', consentendo al giudice di supplire ad eventuali carenze o insufficienze che, se colmate, megio potrebbero garantire e raggiungere quel fine di verita' a cui e' idealmente teso il processo penale. Orbene, l'art. 507 del c.p.p., se inteso nel senso che il giudice possa disporre, su richiesta di parte o di ufficio, l'assunzione di mezzi di prova soltanto qualora altri mezzi di prova siano stati gia' acquisiti ed assunti, conterebbe un principio che non trova riscontro nell'ultima parte della direttiva poc'anzi menzionata, dove si fa unicamente riferimento al "potere del giudice di disporre l'assunzione di mezzi di prova", senza affatto specificare che detto potere e' esercitabile alle condizioni indicate nell'art. 507. E allora, se si ricollega la dizione appena citata con il fine della ricerca della verita', si arriva alla conclusione che la interpretazione restrittiva della norma in questione non e' in linea con i principi direttivi posti in materia di assunzione dei mezzi di prova. Anche se non strettamente rilevante nel caso di specie, e' solo il caso di accennare a quale potrebbe essere la violazione dell'art. 24 della Costituzione in tema di diritto alla difesa, se, simmetricamente al principio affermato dalla Corte di cassazione, si giungesse a dire che l'imputato non ha diritto a vedersi ammessa la prova liberatoria decisiva, sol perche' non dedotta tempestivamente nelle liste testimoniali. Infine e soprattutto anche l'art. 3 della Costituzione appare intaccato dalla interpretazione fissata dalla suprema Corte: non potrebbe sussistere alcuna ragionevole ed accettabile spiegazione alla diversita' di trattamento processuale e sansionatorio cui andrebbero incontro imputati, nei confronti dei quali, a seconda dell'iniziativa o meno del pubblico ministero nel depositare le liste si instaurassero processi sostanzialmente ed inevitabilmente diversi. Basti pensare, ad esempio, a due coimputati nello stesso reato raggiunti dagli identici elementi di prova testimoniale ma nei cui confronti si proceda separatamente e si immagini che il pubblico ministero, per il primo di essi, depositi tempestivamente la lista, consentendo cosi' di addivenire ad una sentenza di condanna, mentre per il secondo, non rispetti i termini imposti dall'art. 468 del c.p.p. per cui, a seguito della declaratoria di inammissibilita', l'imputato venga assolto per assoluta carenza di prove a carico. In tal caso, l'evidente disparita' di trattamento con riferimento a due situazioni identiche non trova giustificazione alcuna e si pone in netto contrasto con la norma costituzionale citata. Se e' nel potere del giudice disporre l'assunzione di mezzi di prova (direttiva n. 3/73 legge delega); se alle prove ammesse a richiesta di parte si affiancano quelle ammesse di ufficio (art. 190, primo e secondo comma, del c.p.p.); se in determinate situazioni puo' essere assolutamente necessario assumere anche di ufficio mezzi di prova perche', in caso contrario, il pubblico ministero dovrebbe di fatto rinunciare all'effettivo e concreto esercizio dell'azione penale e il giudice alla ricerca della verita', il non consentire che il giudice (anche su richiesta dello stesso pubblico ministero che ha presentato la lista testimoniale il giorno successivo allo spirare del termine ultimo) possa sopperire al ritardo, disponendo l'assunzione di mezzi di prova finalizzati alla ricerca della verita', urta non solo con il principio di uguaglianza ma anche con quello di ragionevolezza. Si pensi ancora alla situazione sopra semplificata con la differnza che, per embrambi gli imputati, il pubblico ministero non abbia tempestivamente depositato la lista testimoniale e che, per il primo dei due, a seguito di perquisizione operata dalla polizia giudiziaria, si sia proceduto al sequestro del corpo del reato e quindi nei di lui confronti, oltre alle (inammissibili) prove testimoniali a carico, comuni ad entrambi, si aggiunga questa ulteriore prova contenuta nel fascicolo del dibattimento (in quanto atto non ripetibile della polizia giudiziaria) e successivamente acquisita su richiesta formulata dal pubblico ministero ex art. 493 del c.p.p. Anche in tal caso la disparita' di trattamento continua ad operare perche', con riferimento al primo degli imputati, essendo gia' stata nel procedimento a suo carico assunta una prova, ne sarebbe consentita l'acquisizione di altre mentre, con riferimento al secondo, la fronte di un'identica condotta del titolare dell'azione penale, cio' non sarebbe possibile. In conclusione, l'accertamento della verita' ed il conseguente esito del procedimento possono variare a seconda della negligenza o meno del pubblico ministero nel deposito della lista testimoniale o a seconda del verficarsi di circostanze del tutto casuali, senza che il giudice possa in qualche modo intervenire, esercitando i poteri conferitigli dal legislatore delegante di disporre l'assunzione di mezzi di prova. Per tutte le ragioni sopra esposte la sollevata questione di legittimita' costituzionale non appare manifestamente infondata. Quanto alla rilevanza, e' indubbio che il presente giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della detta questione in quanto, a seconda dell'interpretazione data al combinato disposto degli artt. 468, primo comma, e 507 del c.p.p., sara' possibile oppure no per questo tribunale assumere mezzi di prova nel procedimento in corso.