IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa promossa da Cavaglieri Maria, nata a Felino (Parma) il 18 luglio 1906 e ivi residente, rappresentata e difesa nel presente giudizio dall'avv. Fabio Massimo Cantarelli presso il cui studio in Parma elegge domicilio come da delega a margine del ricorso, attrice, contro l'Istituto nazionale della previdenza sociale - I.N.P.S., rappresentato e difeso dall'avv. D. Liveri in virtu' di procura generale allegata, elettivamente domiciliato in Parma, via Salnitrara n. 5, presso la sede provinciale dell'istituto stesso, convenuto. FATTO E DIRITTO Con ricorso del 12 luglio 1991, diretto al pretore di Parma, in funzione di giudice del lavoro, Cavaglieri Maria conveniva in giudizio l'I.N.P.S., chiedendone la condanna a riliquidare la pensione di riversibilita' (cat. SO) di cui e' titolare dalla data di insorgenza del relativo diritto, integrando la stessa al trattamento minimo di tempo in tempo vigente e in ogni caso, per l'art. 6, settimo comma, del d.-l. n. 638/1983 con il "congelamento" dell'importo per il periodo successivo al 1 ottobre 1983, oltre al pagamento delle differenze fra i ratei liquidati e quelli di fatto riscossi; e cio' in esecuzione della sentenza della Corte costituzionale, come gia' inutilmente richiesto in via amministrativa. Dopo la notifica del ricorso e del decreto si costituiva in giudizio l'I.N.P.S. chiedendo il rigetto delle domande. L'istituto eccepiva che era irrimediabilmente trascorso il termine decennale previsto dagli articoli 58, primo comma, della legge n. 156/1969, e 47 del d.P.R. n. 639/1970, per cui sulle pensioni, ormai intangibili, non potevano avere effetto le successive decisioni della Corte costituzionale; in ogni caso sosteneva che dopo la legge n. 638/1983 non poteva piu' essere richiesta la doppia integrazione al minimo neppure per il periodo precedente e che, comunque, l'art. 6, settimo comma, e' norma applicabile solo all'ipotesi di perdita del diritto all'integrazione al minimo per superamento del limite di reddito. La ricorrente Cavaglieri maria e' titolare dal 1 maggio 1962 di pensione diretta cat. IO ed e' pure titolare dal 1 luglio 1973 di pensione di reversibilita', cat. SO di cui richiese l'integrazione al minimo con domanda in sede amministrativa del 4 agosto 1989, successivamente respinta. In relazione a tale situazione, l'I.N.P.S. ha eccepito che nella specie si e' verificata la decadenza di carattere sostanziale e non solo procedimentale dall'azione per effetto dell'art. 6 del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito in legge 1 giugno 1991, n. 166, essendo stato il ricorso presentato dopo il 2 aprile 1991, data di entrata in vigore del d.-l. citato. E' opportuno richiamare, sia pure per sommi capi, lo stato della questione. Dopo che, per quanto riguarda il periodo precedente l'entrata in vigore del d.-l. n. 462/1983, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 314/1985 e numerose altre, ebbe a dichiarare l'incostituzionalita' delle norme che escludevano l'integrazione al minimo della seconda pensione per il titolare di piu' pensioni, si tento' in vari modi di limitare l'effetto retroattivo delle decisioni di incostituzionalita' che avrebbe importato per l'I.N.P.S. pesanti oneri finanziari. Si e' cosi' sostenuto che le decisioni di incostituzionalita' non potevano avere effetto sulle situazioni per le quali era decorso il termine decennale previsto dalle norme gia' citate che andava inteso come termine di decadenza con effetti di carattere sostanziale. Dopo alcune incertezze giurisprudenziali, con la sentenza n. 6245 del 21 giugno 1990, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito che il termine previsto dall'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970 non e' di prescrizione, bensi' di decadenza, ma con effetti solo di tipo procedimentale e senza effetti sostanziali nel senso che, decorso il decennio senza l'inizio dell'azione giudiziaria, l'interessato ha l'onere di proporre una nuova domanda amministrativa che, avendo effetto interruttivo della prescrizione decennale, consente la richiesta delle differenze di importo delle pensioni per i dieci anni precedenti. Su questa interpretazione conviene anche la Corte costituzionale (sentenza n. 126 del 26 marzo 1991). Con l'art. 11 della legge 11 marzo 1988, n. 67, fu interpretato autenticamente l'art. 129 del r.d.-l. n. 1827/1935 nel senso che "la prescrizione (quinquennale) ivi prevista si applica anche alle rate di pensione non poste in pagamento". Con la sentenza n. 283 del 17-25 maggio 1989 della Corte costituzionale, la norma e' stata dichiarata incostituzionale e quindi si e' continuato a richiedere gli arretrati non prescritti per la prescrizione decennale. Anche per quanto riguarda il diritto al c.d. "congelamento" per il periodo successivo al 30 settembre 1983, la giurisprudenza e' ormai pacifica nell'interpretare il settimo comma dell'art. 6 del d.-l. n. 463/1983 come riferito a qualunque ipotesi di perdita del diritto all'integrazione al minimo e non limitato all'ipotesi di perdita del diritto per superamento del limite di reddito. La Corte di cassazione si e' pronunciata con numerose sentenze (19 dicembre 1989, n. 5720, seguita da altre) ed anche la Corte costituzionale ha accolto la stessa interpretazione respingendo quella contraria proposta dal tribunale di Firenze (sentenza n. 6-19 novembre 1991, n. 418). Dopo avere inutilmente seguito la strada dell'interpretazione autentica dei citato art. 47 (con il d.-l. 15 settembre 1990, n. 259, poi non convertito in legge e seguito da quelli nn. 338/1990 e 28/1991 anch'essi non convertiti in legge), nel senso di attribuire alla decadenza effetti sostanziali, l'art. 6 del d.-l. n. 103/1991, convertito in legge n. 166/1991, sotto la rubrica "Regime delle prescrizioni delle prestazioni previdenziali", cosi' dispone: "I termini previsti dall'art. 47, secondo e terzo comma, del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, sono posti a pena di decadenza per l'esercizio del diritto alla prestazione previdenziale. La decadenza determina l'estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni previdenziali e l'inammissibilita' della relativa domanda giudiziale. In caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo, i termini decorrono dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei". "Le disposizioni di cui al primo comma hanno efficacia retroattiva, ma non si applicano ai processi che sono in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto". La norma e' quanto mai oscura e la sua interpretazione non e' fac- ile. Innanzi tutto va escluso che si tratti di norma interpretativa. Cosi' era stata definita solo quella contenuta nel d.-l. n. 259/1990 e lo dimostra anche l'espressa dichiarazione di retroattivita' peraltro esclusa per i giudizi in corso che per le norme interpretative e' inutile. In secondo luogo si deve escludere che il decorso del tempo importi l'intangibilita' della pensione come gia' liquidata e l'impossibilita' di richiederne anche per il futuro la riliquidazione con l'integrazione al minimo sia pure nell'importo cristallizzato alla data del 1 ottobre 1983. E' da tempo assolutamente pacifico che il diritto a pensione (e cioe' il diritto a percepire la pensione nell'importo determinato secondo le leggi vigenti) e' imprescrittibile perche' indisponibile, in base alle disposizioni dell'art. 2934 del Codice civile, coordinato con gli artt. 128, primo comma, del d.P.R. n. 1827/1935 e 69 della legge n. 153/1969 che escludono o limitano la cedibilita', sequestrabilita' e pignorabilita' delle pensioni e con l'art. 2115, terzo comma, del c.c., stante anche la rilevanza costituzionale ex art. 38 degli interessi protetti (Cass., s.u. n. 6245/90 cit.). E' per questo che gli effetti della "decadenza per l'esercizio del diritto alla prestazione previdenziale", di cui alla prima parte dell'art. 6 cit., devono intendersi limitati a quanto dice in prosieguo lo stesso articolo e cioe' che "la decadenza determina (solo) l'estinzione del diritto ai ratei pregressi", talche' non sembra lecito attribuire alla norma portata sostanziale piu' ampia. In base alle considerazione fatte fino a questo punto si puo' intanto affermare che alla ricorrente compete l'integrazione al minimo sulla pensione di reversibilita', nell'importo cristallizzato alla data del 30 settembre 1983, a partire dalla proposizione della domanda amministrativa di applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 314/1985, che ha preceduto la proposizione di questo giudizio. Essendo trascorso il decennio previsto dal citato art. 47, era indispensabile riproporre la domanda amministrativa essendo intervenuta quella decadenza procedimentale individuata da Cass. n. 6245/70 cit. che non e' stata negata dalla norma in oggetto, che ad essa ha aggiunto la decadenza con effetti sostanziali. Poiche' tale domanda amministrativa ha sicuramente effetto interruttivo della prescrizione, la ricorrente, se non fosse stata emanata la norma di cui all'art. 6 della legge n. 166/1991 avrebbe avuto diritto a richiedere le differenze arretrate, a partire dal primo giorno del mese successivo al compimento del decennio anteriore alla domanda amministrativa. Ritiene la ricorrente che la recente innovazione legislativa non impedisce l'accoglimento della domanda. L'istanza da essa presentata per l'applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 314/1985, volta al riesame dell'originario provvedimento dell'I.N.P.S. con il quale era stata liquidata inizialmente la pensione, andrebbe definita come "ricorso amministrativo", proponibile in ogni tempo secondo la disposizione dell'art. 8 della legge n. 533/1973, con la conseguenza che, solo a partire da quando esso e' stato respinto e' iniziato a decorrere il termine decennale menzionato nell'art. 47 cit. che non e' ancora concluso. Questa interpretazione non puo' essere seguita. Non sembra si possa dubitare che lo scopo principale propostosi dal legislatore del 1991 e' stato quello di limitare gli aggravi di spesa conseguenti all'effetto retroattivo delle decisioni di incostituzionalita'; secondo l'interpretazione proposta questo scopo non sarebbe di fatto raggiungibile. Va inoltre ricordato che l'art. 6 della legge n. 166/1991 menziona i termini previsti dall'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970, ma questa norma, quando parla di "ricorso", non allude a quello proponibile in ogni tempo secondo l'art. 8 della legge n. 533/1973, ma a quello previsto e regolato dalle norme che la precedono. Gli articoli 44, 45 e 46 del d.P.R. n. 639/1970, sotto il titoli terzo "Ricorsi e controversie in materia previdenziale", prevedono termini precisi per la loro proposizione. Una volta ripudiato il sistema della cosiddetta giurisdizione condizionata, il decorso di questi termini non puo' importare la perdita del diritto a pensione che e' imprescrittibile, cio' non toglie che, una volta prevista una procedura amministrativa diretta a provocare un controllo interno per un'eventuale composizione della vertenza in modo rapido ed economico, abbia ancora senso la previsione di termini ristretti decorsi i quali la pubblica amministrazione possa considerare le pratiche concluse dal punto di vista amministrativo. E' anche il caso di ricordare il particolare interesse dell'ordinamento a che si svolta questa procedura, tanto che il giudizio eventualmente iniziato prima della sua conclusione deve essere sospeso (art. 443 del c.p.c.). Chiarito che il ricorso cui fa riferimento l'art. 6 della legge n. 166/1991 e' quello previsto dagli artt. 44, 45 e 46 del d.P.R. n. 639/1970, va detto che la ricorrente non ebbe a presentarlo, ne' del resto c'era motivo perche' l'originario provvedimento di liquidazione della pensione era conforme alle leggi all'epoca vigenti. Le ipotesi oggetto di questo giudizio sono quindi regolate dalla seconda parte del primo comma dell'art. 6 cit. La ricorrente, partendo dalla premessa che il diritto a pensione sorge quando se ne sono verificate le condizioni, mentre il diritto alla percezione dei singoli ratei sorge volta per volta ed in relazione ad ogni rateo, sostiene che il termine decennale di decadenza sostanziale in relazione ai ratei pregressi, si sposta continuamente in avanti mese per mese, con la conseguenza che, avendo presentato la domanda precedente il ricorso giudiziario potrebbe richiedere i ratei maturati anteriormente alla domanda medesima. Anche questa argomentazione non sembra possa essere accolta. Innanzitutto si verrebbe a creare un'assoluta ed ingiustificata disparita' di trattamento fra chi presento' il ricorso contro il provvedimento di liquidazione della pensione e chi vi fece invece acquiescenza. In secondo luogo l'intento del legislatore, che, a differenza delle espressioni usate che sono quanto mai equivoche, e' invece ben chiaro, sarebbe inspiegabilmente frustrato. In terzo luogo sembra da seguire l'interpretazione dell'I.N.P.S. (circolare n. 244 dell'11 ottobre 1991) che propone di distinguere il diritto a pensione "astrattamente esistente al verificarsi dei presupposti di legge ed indipendentemente dalla presentazione della relativa domanda", dal "diritto alla erogazione dei singoli ratei" che nasce a seguito dell'accoglimento della domanda di pensione. La conseguenza e' che, nell'ipotesi in cui non sia stato presentato ricorso, il termine decennale inizia a decorrere dal momento in cui e' stato emesso il provvedimento di liquidazione della pensione. Interpretata in questo modo la disposizione di cui all'art. 6d della legge n. 166/1991, i dubbi sulla sua costituzionalita' sono molti e fondati. Gia' il pretore di Sanremo (ordinanza 14 giugno 1991) ha sospettato di incostituzionalita' la norma in relazione all'art. 3 della Costituzione in quanto discrimina in relazione ad un fatto del tutto estrinseco e non significativo, ai fini della necessaria salvaguardia dei diritti quesiti, quale quello della proposizione di un giudizio. Ulteriore contrasto con l'art. 3 emerge dal fatto che, seppure e' possibile per il legislatore emanare norme retroattive, nel caso di specie non e' stata dettata una qualche disciplina transitoria diretta a salvare quelle situazioni pregresse, sia pure caratterizzate da una certa inerzia ma per le quali, essendo stata interrotta la prescrizione, era inconcepibile ed imprevedibile la perdita del diritto sostanziale, da ritenersi gia' entrato nel patrimonio del titolare. La scelta legislativa oltre che discriminatoria e' anche irrazionale perche' ricollega l'effetto di una irrimediabile perdita del diritto ad un fatto che quando fu posto in essere non poteva produrre tale effetto. Per lo stesso motivo la norma sembra contrastare anche con l'art. 38 della Costituzione perche' produce gli effetti di cui sopra in danno di soggetti deboli e riconosciuti meritevoli di particolare tutela. La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 822 del 14 luglio 1988, ha precisato i limiti che il legislatore incontra nell'intervenire nei rapporti di durata modificandoli sfavorevolmente, nel senso che le disposizioni retroattive "non possono trasmodare in un regolamento irrazionale ed arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali posta in essere da leggi precedenti, frustrando cosi' anche l'affidamento del cittadino nella sicurezza pubblica che costituisce elemento fondamentale ed indispensabile dello stato di diritto .. Anche se deve ritenersi ammissibile un intervento legislativo che modifichi l'ordinamento pubblicistico delle pensioni, non puo', pero', ammettersi che detto intervento sia assolutamente discrezionale. In particolare non puo' dirsi consentita una modificazione legislativa che, intervenendo in una fase avanzata del rapporto di lavoro oppure quando gia' sia subentrato lo stato di quiescenza, peggiorasse, senza una inderogabile esigenza, in misura notevole ed in maniera definitiva, un trattamento pensionistico in precedenza spettante, con la conseguente irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attivita' lavorativa. La norma, infine, sembra in contrasto anche con l'art. 136 della Costituzione giacche' limita ed anzi di fatto esclude l'efficaia retroattiva delle sentenze della Corte costituzionale. E' il caso di richiamare una fattispecie che presenta notevoli analogie con quella in oggetto. Con la sentenza n. 139 del 7 maggio 1984, la Corte costituzionale, nel dichiarare illegittimo l'art. 1, terzo comma, della legge 10 maggio 1978, n. 176, richiamato dall'art. 15, primo comma, della legge 3 maggio 1982, n. 203, cosi' testualmente ha motivato: "Le sentenze di accoglimento, in base al disposto dell'art. 136 della costituzione confermato dall'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, operano ex tunc perche' producono i loro effetti anche sui rapporti sorti anteriormente alla pronuncia di illegittimita' sicche', dal giorno successivo alla loro pubblicazione, le norme dichiarate incostituzionali non possono piu' trovare applicazione (salvo quanto discende dall'art. 25 della Costituzione per la materia penale). "Il principio, che suole essere enunciato con il ricorso alla for- mula della c.d. 'retroattivita'' di dette sentenze, vale pero' soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida. Per rapporti esauriti debbono certamente intendersi tutti quelli che sul piano processuale hanno trovato la loro definitiva e irretrattabile conclusione mediante sentenza passata in giudicato, i cui effetti non vengono intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalita' (salvo quanto disposto per la materia penale dal cit. art. 30). Secondo l'orientamento talvolta emerso nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. sentenza n. 58/1967) e il prevalente indirizzo dottrinale, vanno considerati esauriti anche i rapporti rispetto ai quali sia decorso il termine di prescrizione o di decadenza previsto dalla legge per l'esercizio di diritti ad essi relativi. Ma quando, come nell'ipotesi considerata dalla normativa denunciata, detto termine e' pendente e quindi il creditore, secondo i principi generali puo' pretendere quanto ancora gli e' dovuto, non e' consentito al legislatore ordinario limitare la portata dell'art. 136 della Costituzione, sia pure ricorrendo, come nella specie, all'espediente di introdurre un nuovo onere, non previsto al momento dell'avvenuto pagamento parziale, e di escludere percio' l'acquisto del diritto successivamente riconosciuto dalla legge che ha sostituito quella dichiarata invalida. Cosi' operando, il legislatore, in realta', fa in modo che il rapporto oggetto del giudizio principale e non ancora esaurito rimanga illegittimamente regolato dalla norma annullata, riducendo indebitamente, l'operativita' dell'art. 136 della Costituzione".