IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Sulla  richiesta  di  proroga  dei termini per il compimento delle
 indagini preliminari avanzata dal p.m. nell'ambito del procedimento a
 carico del legale rappresentante della Fincantieri per  il  reato  di
 cui all'art. 589 del c.p. in danno di Bruzzo Bernardo richiesta volta
 a  "svolgere  accertamenti al fine di verificare quale sia il livello
 di  esposizione  a  polveri  di  amianto  tra  i   dipendenti   della
 Fincantieri, quali siano le misure di prevenzione tecnica, personale,
 sanitaria e informativa adottate dall'azienda; se tali misure possano
 considerarsi  idonee ed adeguate, o se al contrario sia configurabile
 a carico dei legali rappresentanti della ditta succedutisi nel  tempo
 una responsabilita' colposa nella causazione della morte del Bruzzo e
 delle lesioni subite dagli altri dipendenti";
    Rilevato che la relativa notizia di reato fu iscritta nel registro
 di  cui  all'art.  335 del c.p.p. il 6 febbraio 1990 e che, pertanto,
 tenuto  conto  della  sospensione  dei  termini  processuali  di  cui
 all'art. 240- bis del d.-l. n. 271/1989 (sospensione verificatasi dal
 1 agosto al 15 settembre 1990 e dal 1 agosto al 15 settembre 1991) il
 termine per le indagini preliminari e' scaduto improrogabilmente il 5
 novembre  1991  (in base al d.-l. 22 giugno 1990 il termine era stato
 definitivamente portato a diciotto mesi);
    Rilevato che il p.m. unitamente alla richiesta di proroga ipotizza
 l'illegittimita' costituzionale degli artt. 407 e 553 del c.p.p.  con
 riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione;
                             O S S E R V A
    In punto rilevanza.
    Tempestivamente  il  p.m.  aveva iniziato le indagini che si erano
 articolate  nell'acquisire  presso  l'I.N.A.I.L.  la   documentazione
 medica  ed i provvedimenti amministrativi concernenti l'asbestosi, la
 malattia professionale che il Bruzzo aveva contratto nel corso  della
 propria  attivita'  lavorativa svolta a bordo di navi per conto della
 Fincantieri; quindi  nel  fare  accertamenti  presso  i  parenti  del
 lavoratore e presso la ditta datrice di lavoro al fine di individuare
 l'epoca  di  insorgenza  della malattia, le aziende per cui il Bruzzo
 (deceduto per mesotelioma) aveva  lavorato,  i  relativi  periodi  di
 occupazione   e   le   diverse  mansioni  svolte;  nel  disporre  una
 rilevazione statistica dalla quale e' emerso che  negli  ultimi  anni
 presso  la  Fincantieri  sono  stati  riscontrati  cinquanta  casi di
 asbestosi e/o mesotelioma riconosciuti dall'I.N.A.I.L. quali malattie
 professionali derivanti dall'esposizione a polveri di amianto.
    Correttamente il p.m. a seguito di queste risultanze  intenderebbe
 svolgere  ulteriori accertamenti al fine di verificare: "quale sia il
 livello di esposizione a polveri di amianto tra  i  dipendenti  della
 Fincantieri, quali siano le misure di prevenzione tecnica, personale,
 sanitaria e informativa adottate dall'azienda; se tali misure possano
 considerarsi idonee e adeguate, o se al contrario sia configurabile a
 carico  dei  legali  rappresentanti della ditta succedutisi nel tempo
 una responsabilita' colposa nella causazione della morte del Bruzzo e
 delle  lesioni  subite  dagli  altri  lavoratori  dipendenti".   Tali
 accertamenti,  peraltro,  per  la loro necessaria durata sono al p.m.
 preclusi  dal  termine  posto  per  il  compimento   delle   indagini
 preliminari.
    In punto non manifesta infondatezza si possono richiamare tutte le
 argomentazioni  svolte  dal  p.m.  e  pienamente  condivise da questo
 g.i.p.
    La menomazione che l'art. 407, primo e terzo  comma,  infligge  al
 potere  di  indagine  e'  in  questo  caso veramente drastica. Com'e'
 evidente, allo stato  degli  atti  non  e'  possibile  ne'  formulare
 l'imputazione,   ne'  concludere  per  l'insussistenza  di  qualsiasi
 ipotesi di reato. Per giungere ad una  di  tali  conclusioni  infatti
 sarebbe  necessario  svolgere  le  attivita' di indagine di cui si e'
 detto; ma  tali  attivita'  non  possono  utilmente  essere  eseguite
 giacche'  la  legge  (art.  407,  terzo  comma)  sancisce la radicale
 inutilizzabilita' di tutti gli atti  di  indagine  compiuti  dopo  la
 scadenza del termine.
    La  scadenza  del termine di durata massima delle indagini produce
 dunque  in  questo  caso  un  effetto   paralizzante   dell'esercizio
 dell'azione  penale,  effetto cui non sarebbe possibile porre rimedio
 ne' chiedendo ulteriori proroghe (giacche' la legge (art. 407,  primo
 comma)  non ne consente), e neppure attraverso l'eventuale avocazione
 del procedimento da parte della procura generale ai  sensi  dell'art.
 412  del  c.p.p.  (avocazione che, si badi, a norma dell'art. 528 del
 d.lgs. n. 271/1989 e'  in  questo  caso  meramente  facoltativa).  Il
 procuratore  generale  infatti avrebbe a sua disposizione solo trenta
 giorni per svolgere le indagini indispensabili  e  formulare  le  sue
 richieste:  un  termine  sicuramente  sufficiente  a compiere rilievi
 ambientali di cui si e' parlato.  L'avocazione  produrrebbe  il  solo
 risultato  di  procrastinare  il problema per altri trenta giorni, ma
 sarebbe evidentemente inidonea a trar  fuori  il  procedimento  dalle
 secche in cui lo pone il combinato disposto degli artt. 407 e 553 del
 c.p.p.
    Non  sembra  poi  sostituire  un  valido  rimedio allo sbarramento
 normativo posto dall'art. 407, terzo comma, neppure  l'art.  414  del
 c.p.p. che prevede la riapertura delle indagini su richiesta del p.m.
 motivata dall'esigenza di nuove investigazioni.
    La  norma  infatti  presuppone  che  l'esigenza  di investigazioni
 ulteriori emerga dopo l'archiviazione del procedimento e non che essa
 esista  gia'  al  momento  della  richiesta.  In  caso  contrario  il
 combinato   disposto   degli   artt.  414  e  407,  terzo  comma,  si
 segnalerebbe  come  un  bell'esempio  di  schizofrenia   legislativa,
 giacche',  dopo aver sancito l'inutilizzabilita' delle indagini oltre
 il termine, si consentirebbe al p.m. di ottenere  la  riapertura  del
 procedimento  e  far  nuovamente  decorrere  il  termine per compiere
 proprio quelle indagini che egli gia' voleva compiere, che l'art. 407
 rendeva inutilizzabili la cui  inutilizzabilita'  l'aveva  indotto  a
 richiedere    l'archiviazione.    Un'interpretazione    siffatta   si
 tradurrebbe in buona sostanza in un'abrogazione  implicita  dell'art.
 407,   terzo   comma,  del  c.p.p.,  in  una  facile  scappatoia  per
 raddoppiare i termini di indagine.  Ma  cio'  contrasterebbe  con  la
 volonta'  del legislatore che, nel dettare l'art. 414, aveva in mente
 un'ipotesi assai diversa: quella in cui, esaurita nei  termini  tutta
 l'attivita'  d'indagine,  il  procedimento  fosse stato archiviato ai
 sensi dell'art. 408  del  c.p.p.,  ma  successivamente  fosse  emersa
 l'esigenza  di  investigazioni  nuove di cui nel corso delle indagini
 precedenti mancavano i presupposti o non era emersa la necessita'.
    Il sistema normativo che si e' delineato preclude dunque a  questo
 p.m. il compimento di indagini che pure appaiono necessarie, che anzi
 sono  indispensabili  per  pervenire  ad una decisione in ordine alla
 necessita' o meno di esercitare l'azione penale.
    Rendendo  inutilizzabili  indagini  necessarie   e   doverose   il
 legislatore  pone  il  p.m.  di fronte ad una drastica alternativa: o
 esercitare l'azione penale o richiedere l'archiviazione. E la  scelta
 dovra'  cadere sull'archiviazione ogniqualvolta, come nel caso che ci
 occupa, le  indagini  da  compiere  sarebbero  necessarie  per  poter
 sostenere  l'accusa  in  giudizio  o,  prima  ancora,  per  formulare
 un'imputazione.
    Prima di essere costretto a chiedere un decreto  di  archiviazione
 ai  sensi  dell'art.  125  delle  disp.  att.  del c.p.p. perche' gli
 elementi raccolti nel corso delle indagini  non  sono  sufficienti  a
 sostenere  l'accusa  in  giudizio  e  le  indagini stesse non possono
 essere utilmente proseguite, questo  p.m.  ritiene  allora  di  dover
 eccepire  l'incostituzionalita'  degli artt. 407 e 553 del c.p.p. con
 riferimento agli artt. 3  e  24  e  soprattutto  all'art.  112  della
 Costituzione.
    Sulla rilevanza della questione nel presente procedimento non pare
 il  caso  di  spendere  ancora  troppe  parole.  Il  suo accoglimento
 rimuoverebbe ogni ostacolo normativo alla prosecuzione delle indagini
 da parte di questo p.m., che peraltro non puo' rimettere direttamente
 la questione alla  Corte  costituzionale,  ma  deve  farne  richiesta
 all'organo  giurisdizionale a norma dell'art. 23 della legge 11 marzo
 1953, n. 87.
    Vale pero' la  pena  di  osservare  che  nel  caso  di  specie  la
 procedura  prevista  dall'art.  554,  secondo comma, del c.p.p. (come
 modificato dalla Corte costituzionale con sentenza n.  445/1990)  non
 puo'  essere attivata; in primo luogo perche' questo p.m. non intende
 allo  stato  chiedere  l'archiviazione  del  procedimento,   e   cio'
 impedisce che sorga in capo al g.i.p. il potere di imporgli ulteriori
 indagini;  in  secondo  luogo,  perche'  si  tratterebbe  di  un  uso
 improprio  di  una  norma  che  ha  come  scopo  quello  di   reagire
 all'inerzia  del  p.m. e non certo quello di proteggere l'ordinamento
 da se stesso imponendo ad un p.m. che inerte non sia di compiere atti
 che egli avrebbe voluto compiere, ma non avrebbe potuto utilizzare se
 li avesse compiuto di propria iniziativa.
    E' invece doveroso specificare sotto  quei  profili  la  normativa
 impugnata si pone in contrasto con le citate norme costituzionali.
    In proposito si osserva che gli artt. 407 e 553 del c.p.p. pongono
 di  fatto un limite temporale all'esercizio dell'azione penale pur in
 presenza di un reato non estinto per prescrizione,  in  relazione  al
 quale  la  pretesa  punitiva  dello Stato e' viva e vitale e sussiste
 l'obbligo di cui all'art. 12 della Costituzione.
    Il contrasto con l'art. 112 della Costituzione sarebbe  palese  se
 si  interpretasse  l'art.  407  del  c.p.p.  nel senso che, decorsi i
 termini di indagine, il decreto di citazione  a  giudizio  non  possa
 piu'  essere  validamente  emesso.  Tale  interpretazione che da piu'
 parti  e'  stata   adombrata,   troverebbe   un   qualche   riscontro
 nell'obbligo  di avocazione previsto dall'art. 412 del c.p.p. in capo
 al procuratore generale, e nella ventilata possibilita'  di  ritenere
 il  decreto  di citazione emesso oltre il termine affetto da nullita'
 assoluta per inosservanza di  disposizioni  concernenti  l'iniziativa
 del  p.m.  nell'esercizio  dell'azione penale (artt. 178, lett. b), e
 179 del c.p.p.).
    Ma pur non volendo aderire ad una  cosi'  rigida  interpretazione,
 pare a questo p.m. che l'art. 407, ultimo comma, del c.p.p., vietando
 di compiere attivita' di indagine, o comunque rendendo inutilizzabili
 le  attivita'  eventualmente  compiute,  si traduca in un ingiusto ed
 ingiustificato sbarramento alla concreta possibilita'  di  esercitare
 l'azione penale.
    Ed  infatti,  il  principio di cui all'art. 112 della Costituzione
 non e' realmente salvaguardato se il p.m. non e' messo in  condizioni
 di  rendere effettivo l'esercizio dell'azione penale compiendo quegli
 atti che, debitamente utilizzati in giudizio, forniranno  al  giudice
 gli elementi necessari per la decisione.
    Cio'  e'  tanto  piu' evidente se si pensa che il termine previsto
 dalla legge e' inizialmente di sei mesi, che  puo'  essere  prorogato
 fino  a diciotto mesi e, solo nei casi piu' gravi, fino a due anni, e
 che nel nostro ordinamento nessun reato si prescrive in diciotto mesi
 mentre per gravi delitti  cui  fa  riferimento  l'art.  407,  secondo
 comma,  lett.  a), (e nei quali le indagini possono protrarsi per due
 anni) il termine di prescrizione e' lunghissimo o non esiste affatto.
    L'art. 407 del c.p.p. introduce dunque nel nostro ordinamento  una
 figura  paradossale,  incompatibile con un sistema costituzionale che
 sancisce  l'obbligarieta'  dell'azione  penale  e  il   diritto   dei
 cittadini  a  vedersi  tutelati  in  giudizio. Vi introduce un mostro
 giuridico: un reato non prescritto ne' improcedibile in relazione  al
 quale  l'azione  penale  che  pure  e'  obbligatoria  non puo' essere
 esercitata perche' la legge preclude al p.m. di svolgere utilmente le
 indagini necessarie per decidere se esercitarla e per poi validamente
 sostenere l'accusa in giudizio.
    La  disciplina  cosi'  delineata  si  traduce  in  un  diniego  di
 giustizia,  incompatibile   con   l'art.   24   della   Costituzione,
 specialmente  nei confronti della persona offesa dal reato, giacche',
 decorso il termine, l'organo che  dovrebbe  indagare  su  quel  reato
 sara'  gravemente  menomato  nell'esercizio del suo potere dovere; ma
 perfino nei confronti dell'indagato, giacche' al p.m. sara'  precluso
 di  compiere  utilmente accertamenti in suo favore ai sensi dell'art.
 358 del c.p.p.
    E non basta. La disciplina impugnata  si  pone  in  contrasto  con
 l'art.  3  della  Costituzione creando un'irragionevole disparita' di
 trattamento tra persone che  vengano  coinvolte  in  un  procedimento
 penale.
    La  probabilita'  che  le  indagini siano utilmente concluse e che
 l'azione  penale  sia  esercitata  con  ragionevoli  possibilita'  di
 successo,  infatti,  sara'  tanto maggiore quanto piu' semplice sara'
 l'accertamento  dei  fatti,  mentre   si   ridurra'   via   via   con
 l'accrescersi della complessita' delle indagini.
    L'irragionevolezza  di tale normativa e' tanto piu' evidente se si
 considera che nel medesimo termine di  diciotto  mesi  il  p.m.  deve
 portare  a  compimento  le  indagini  per  reati assai diversi: dagli
 assegni  a  vuoto  all'inquinamento  ambientale,  dalla  guida  senza
 patente  agli  infortuni  sul  lavoro,  al  traffico di stupefacenti,
 all'omicidio (reati in relazione ai quali,  non  a  caso  il  diritto
 sostanziale prevede un diverso termine di prescrizione).
    Fissando  un termine indifferenziato per il compimento di indagini
 preliminari che sono tra loro assai diverse,  e  che  necessariamente
 devono  avere  una  diversa  natura,  il  legislatore  ha  creato una
 disciplina irrazionale e discriminatoria che mortifica la domanda  di
 giustizia del cittadino proprio quando l'indagine e' piu' complessa e
 richiede  un  lungo  e  paziente  lavoro investigativo; cioe' proprio
 quando il  reato  non  piu'  grave,  l'accertamento  del  fatto  piu'
 difficile, e piu' vive sono le attese della collettivita'.