IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    Ha  emesso la seguente ordinanza di sospensione del procedimento e
 di rimessione degli atti alla Corte costituzionale.
    Riunito  in  camera  di  consiglio  per   deliberare   in   merito
 all'istanza   di   riduzione  di  pena  per  liberazione  anticipata,
 pervenuta  presso  la   cancelleria   dell'intestato   tribunale   di
 sorveglianza  in  data  23  ottobre  1991,  presentata dal condannato
 Medaglia Francesco, nato il 3 luglio 1946 a Cosenza, ivi  domiciliato
 in  via  Don  Minzoni  n.  5/C,  attualmente ristretto presso la casa
 circondariale  di  Ascoli  Piceno,  sezione  a  maggiore  indice   di
 vigilanza  cautelativa, in espiazione della pena detentiva di anni 16
 e mesi 10 di reclusione, siccome inflitta,  congiuntamente  a  quella
 pecuniaria di L. 824.000 di multa, dalla Corte di appello di Firenze,
 con  sentenza pronunziata in data 24 ottobre 1990, la quale acclarava
 la penale  responsabilita'  del  prevenuto  in  ordine  ai  reati  di
 concorso  in  sequestro  di  persona a scopo di estorsione, in rapina
 aggravata ed altro (organo dell'esecuzione:  procura  generale  della
 Repubblica  presso  la  Corte  di  appello  di  Firenze  -  ordine di
 esecuzione n. 157/91 r. es. emesso in data 7 maggio  1991)  (f.p:  16
 ottobre 2004);
    Letta  l'istanza con cui Medaglia Francesco, meglio qualificato in
 epigrafe, chiedeva a questo collegio il  riconoscimento  del  proprio
 diritto  alla  concessione  di  una riduzione di pena per liberazione
 anticipata, ai sensi e per gli  effetti  del  disposto  dell'art.  54
 della   legge   26  luglio  1975,  n.  354  e  successive  modifiche,
 commisurata all'intiero periodo detentivo sofferto;
    Accertata la propria competenza territoriale, essendo il  Medaglia
 ristretto,  in  virtu'  di assegnazione ministeriale, all'epoca della
 presentazione della domanda, presso la casa circondariale  di  Ascoli
 Piceno;
    In   esito   all'odierna  udienza,  svoltasi  nel  rispetto  delle
 formalita' di rito, ed a scioglimento della riserva nel  corso  della
 stessa formulata;
    Ascoltati  l'interessato,  personalmente  comparso  in  virtu'  di
 regolare notificazione dell'avviso di procedimento  di  sorveglianza,
 il  p.g.  ed  il difensore d'ufficio del condannato, che concludevano
 come da separato verbale
                          CONSIDERA IN FATTO
    Tratto in arresto in data 4  dicembre  1987,  Medaglia  Francesco,
 meglio  qualificato  in epigrafe, veniva condotto innanzi al giudizio
 del tribunale di Firenze, il quale, in esito all'apprezzamento  della
 penale  responsabilita'  del prevenuto in ordine ai reati di concorso
 in sequestro di persona a scopo di estorsione, in rapina aggravata ed
 altro, lo condannava alla pena detentiva di  anni  17  e  mesi  2  di
 reclusione,  unitamente inflitta a quella pecuniaria di L. 500.000 di
 multa (v. copia della sentenza emessa in data 19  dicembre  1989  dal
 tribunale  di  Firenze,  in  atti);  a  seguito  di interposizione di
 appello avverso la surrichiamata sentenza, veniva instaurata la  fase
 di  gravame, la quale veniva definita, in data 24 ottobre 1990, dalla
 prima sezione penale della Corte di  appello  di  Firenze,  la  quale
 riformava  il verdetto emesso dai giudici di prime cure, riducendo la
 pena detentiva inflitta al Medaglia nella misura di anni 16 e mesi 10
 di reclusione ed aumentando quella pecuniaria a L. 824.000 di multa.
    Divenuta irrevocabile la condanna summenzionata, veniva emesso  in
 data  7 maggio 1991 dalla procura generale della Repubblica presso la
 Corte di appello di Firenze ordine di esecuzione n. 157/91 r. es.
    Associato a vari istituti del circuito penitenziario nazionale, il
 condannato assumeva una condotta discontinua, alternando  periodi  di
 osservanza   della   normativa  disciplinare  e  di  correttezza  nei
 confronti di operatori penitenziari (v. rell. compp. del  30  ottobre
 1991  della c.c. di Cosenza, del 25 ottobre 1991 della c.c. di Palmi,
 in atti) a periodi di manifesta insofferenza nei confronti del regime
 di gestione di alcuni degli istituti  di  pena  di  assegnazione  (v.
 rell. compp. del 7 novembre 1991 della c.c. di Firenze - Sollicciano,
 del  7  novembre  1991  della c.c.   di Livorno, del 18 dicembre 1991
 della c.r. di Volterra e del 18 dicembre 1991 della c.r. di  Spoleto,
 nonche'  rapporti informativi e disciplinari allegati alle stesse, in
 atti).  Da  ultimo,  il   Medaglia   veniva   assegnato   alla   casa
 circondariale  di  Ascoli Piceno, nella quale, fatta eccezione per un
 episodio di resistenza  passiva  all'effettuazione  di  perquisizione
 personale  secondo  le  modalita' esecutive prevedenti il denudamento
 del condannato, verificatosi nel periodo iniziale  della  restrizione
 nell'istituto  di  pena  piceno,  il  detenuto osservava una condotta
 generalmente  osservante  dei  canoni  di  disciplina   intramuraria,
 improntata  alla  profusione di soddisfacente impegno nel disbrigo di
 mansioni lavorative di barbiere, all'osservanza di modi corretti  nei
 confronti  del  personale  penitenziario  e  dei  condetenuti nonche'
 all'intrapresa di una revisione critica  di  pregressi  comportamenti
 adottati  nel corso della detenzione (v. relazione di sintesi redatta
 in data 4 dicembre 1991 dall'e'quipe di  osservazione  e  trattamento
 della  casa  circondariale  di  Ascoli  Piceno, in atti); soltanto in
 epoca  recentissima  si  verificava  un  episodio   che   vedeva   il
 coinvolgimento  del  Medaglia:  una missiva, proveniente dall'esterno
 dell'istituto di pena, allo stesso apparentemente indirizzata  aveva,
 in  realta', quale destinatario altro condetenuto, sottoposto a visto
 di controllo sulla corrispondenza; il Medaglia, peraltro,  protestava
 la  propria estraneita' al fatto, asserendo di essere stato coinvolto
 a  propria  insaputa  (v.  aggiornamento  della  relazione di sintesi
 redatto in data 11  febbraio  1992  dall'e'quipe  di  osservazione  e
 trattamento  della  casa  circondariale  di Ascoli Piceno, in atti, e
 processo verbale di udienza).
    In  data  23  ottobre  1991  perveniva   presso   la   cancelleria
 dell'intestato   tribunale   di   sorveglianza  istanza  con  cui  il
 condannato  presentava   richiesta   di   riduzione   di   pena   per
 deliberazione  anticipata commisurata al periodo detentivo intercorso
 dall'inizio dell'attuale carcerazione (4 dicembre 1987) alla data  di
 scadenza  dell'ultimo  semestre utilmente valutabile. Veniva esperita
 l'istruttoria di rito, che  si  compendiava  nell'acquisizione  delle
 relazioni  comportamentali  e  di  quelle  di  sintesi  redatte dalle
 e'quipes di osservazione e trattamento  degli  istituti  di  pena  di
 assegnazione  del  Medaglia,  nonche'  delle informative del comitato
 provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in ordine
 al luogo di  restrizione,  il  quale  attestava  circa  l'assenza  di
 elementi  atti  a  comprovare,  per  la  parte di propria competenza,
 l'attualita' di  collegamenti  del  condannato  con  la  criminalita'
 organizzata   e  circa  la  richiesta,  effettuata  dal  dipartimento
 dell'amministrazione  penitenziaria,  in  occasione  di  una  recente
 traduzione  del  Medaglia presso la casa circondariale di Cosenza, di
 predisposizione di particolari cautele esterne all'istituto di  pena,
 a  cagione  della  personalita'  del  condannato; cio' fatto, anche a
 seguito di rinvio a nuovo ruolo effettuato in occasione  della  prima
 udienza  di discussione, stabilita per il giorno 19 dicembre 1991, il
 presidente di questo collegio  provvedeva  alla  fissazione,  per  la
 discussione  dell'istanza  summenzionata,  dell'udienza  odierna, nel
 corso della quale,  verificata  la  regolarita'  delle  notificazioni
 degli avvisi di procedimento di sorveglianza, in esito alla relazione
 compiuta dal giudice delegato, l'interessato, personalmente comparso,
 insisteva nella richiesta, adducendo giustificazioni per le segnalate
 intemperanze  comportamentali verificatesi in alcuni istituti di pena
 ed  asserendo,  a  tal   riguardo,   di   aver   soltanto   richiesto
 l'osservanza,   da  parte  del  personale  penitenziario,  di  propri
 diritti, legalmente tutelati, mentre p.g. e difensore del  condannato
 concludevano come da separato verbale.
    Il Tribunale si riservava.
                          OSSERVA IN DIRITTO
    Sciogliendo  la  surrichiamata  riserva, opina questo collegio che
 risulti pregiudiziale alla risoluzione della presente causa sollevare
 d'ufficio eccezione di  illegittimita'  costituzionale  del  disposto
 della  prima  parte  del  primo comma dell'art. 4- bis della legge 26
 luglio 1975, n. 354 e succ. mod., siccome interpolato nell'originario
 corpus della legge  di  riforma  dell'ordinamento  penitenziario  dal
 primo  comma dell'art. 1 del d.-l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito
 senza modifiche, relativamente alla  normativa  de  qua  agitur,  con
 legge 12 luglio 1991, n. 203.
    La  prefata  normativa  testualmente  recita:  "L'assegnazione  al
 lavoro all'esterno, i permessi premio e le  misure  alternative  alla
 detenzione previste dal capo VI possono essere concessi ai condannati
 per  delitti  commessi  per  finalita'  di  terrorismo o di eversione
 dell'ordinamento costituzionale,  per  delitti  commessi  avvalendosi
 delle condizioni previste dall'art. 416- bis del codice penale ovvero
 al  fine  di  agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo
 stesso  articolo, nonche' per i delitti di cui agli articoli 416- bis
 e 630 del c.p. e all'art. 74 del testo unico delle leggi  in  materia
 di  disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
 cura  e  riabilitazione  dei  relativi  stati  di  tossicodipendenza,
 approvato  con  d.P.R.  9  ottobre  1990,  n. 309, solo se sono stati
 acquisiti elementi tali da escludere l'attualita' di collegamenti con
 la  criminalita'  organizzata  o  eversiva.  Quando  si   tratta   di
 condannati  per  i  delitti  di cui agli artt. 575, 628, terzo comma,
 629, secondo comma, del codice penale e  all'art.  73,  limitatamente
 alle  ipotesi aggravate ai sensi dell'articolo 80, secondo comma, del
 predetto testo unico,  approvato  con  d.P.R.  n.  309  del  1990,  i
 benefici  suddetti  possono  essere  concessi  solo  se  non  vi sono
 elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti  con  la
 criminalita' organizzata o eversiva.
    Ai  fini  della  concessione dei benefici di cui al primo comma il
 magistrato di sorveglianza o  il  tribunale  di  sorveglianza  decide
 acquisite  dettagliate  informazioni  per  il  tramite  del  comitato
 provinciale per  l'ordine  e  la  sicurezza  pubblica  competente  in
 relazione  al  luogo  di  detenzione  del condannato. In ogni caso il
 giudice  decide  trascorsi  trenta  giorni  dalla   richiesta   delle
 informazioni. Al suddetto comitato provinciale puo' essere chiamato a
 partecipare  il  direttore  dell'istituto  penitenziario  in  cui  il
 condannato e' detenuto".
    Gia' in epoca immediatamente successiva all'entrata in vigore  del
 d.-l.  12 gennaio 1991, n. 5, che, per la prima volta introduceva, in
 relazione  alle   istanze   intese   all'ottenimento   dei   benefici
 disciplinati  nella  legge di riforma dell'ordinamento penitenziario,
 l'obbligo di adizione del comitato  provinciale  per  l'ordine  e  la
 sicurezza  pubblica,  al  fine di vagliare la sussistenza di elementi
 atti a  comprovare  la  presenza  ovvero  l'assenza  di  collegamenti
 attuali  del  richiedente,  condannato per le particolari fattispecie
 criminose  sopra  menzionate,  con  la  criminalita'  organizzata  od
 eversiva, questo collegio si era espresso nel senso che l'espressione
 "misure  alternative  alla  detenzione",  contenuta  nel  primo comma
 dell'art. 4- bis o.p., interpolato dal primo comma  dell'art.  1  del
 d.-l. n. 5/1991, non dovesse essere intesa quale comprensiva, ai fini
 de quibus agitur, della riduzione di pena per liberazione anticipata,
 si' che le istanze dei condannati per i particolari titoli delittuosi
 sopra  ricordati,  intese  ad  ottenere  la  concessione  del prefato
 beneficio, dovevano essere istruite,  pur  nella  vigenza  del  nuovo
 testo  di  legge,  senza  previamente  acquisire  le  informative del
 comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica.
    Appare  opportuno,  giunti  a  tal  punto  della  motivazione  del
 presente  provvedimento, chiarire le ragioni sottese all'orientamento
 esegetico adottato da questo collegio in relazione alla necessita' di
 procedere all'acquisizione delle informative del comitato provinciale
 per l'ordine e la sicurezza pubblica al fine di istruire  le  istanze
 intese   all'ottenimento   di   riduzioni  di  pena  per  liberazione
 anticipata,  presentate  dai  condannati  per  i  particolari  titoli
 delittuosi  elencati dal primo comma dell'art. 4- bis o.p.; come gia'
 esposto, ancora nella fase di vigenza dei precedenti testi  di  legge
 (i  quali  prevedevano  la  competenza  del  c.p.o.s.p.  del luogo di
 residenza del condannato,  a  differenza  del  testo  attualmente  in
 vigore, il quale, come ricordato, radica la competenza del c.p.o.s.p.
 del  luogo  di  detenzione  del  richiedente)  questo collegio si era
 espresso circa l'inopportunita' di ricondurre, sic et simpliciter, lo
 strumento trattamentale della liberazione anticipata (rectius:  della
 riduzione  di  pena  per  deliberazione anticipata) nell'ambito delle
 misure alternative  alla  detenzione,  menzionate  nel  surrichiamato
 primo  comma  dell'art.  4-  bis o.p., per far luogo alla concessione
 delle  quali  era  richiesta  l'adizione  del   competente   Comitato
 provinciale  per  l'ordine  e la sicurezza pubblica, allo scopo sopra
 individuato (ordd. nn. 83/1991 - pres. Galassi, est. Semeraro,  cond.
 Pecorari  -  e  464/1990  L.A.  - pres. Galassi, est. Semeraro, Cond.
 Gerace - rispettivamente pronunziate in date 14  febbraio  1991  e  9
 maggio  1991):  e'  d'uopo  premettere,  in  limine  litis, una breve
 esposizione delle motivazioni  sottese  al  convincimento  di  questo
 Collegio    (espresso    nei   surrichiamati   provvedimenti)   circa
 l'obbligatorieta', per la magistratura di sorveglianza,  di  adizione
 dell'istanza rappresentata dal comitato provinciale per l'ordine e la
 sicurezza  pubblica  allorche' si debba decidere il merito di istanze
 di riduzione di pena per liberazione anticipata, presentate, ai sensi
 e per gli effetti del disposto dell'art. 54 o.p., da  condannati  che
 debbano  espiare pene inflitte per alcune delle fattispecie criminose
 individuate dalla disciplina recentemente introdotta dal primo  comma
 dell'art.  4-bis o.p.: il problema, a giudizio di questo tribunale di
 sorveglianza, si presentava coessenziale alla quaestio juris inerente
 alla sussumibilita' dell'istituto giuridico di cui al prefato art. 54
 o.p. tra le " ..misure alternative alla detenzione .." ai fini  sopra
 indicati.  Si rammenti, a tal proposito, che i primi testi di decreto
 legge (d.-l. 12 gennaio 1991 n. 5 e  d.-l.  13  marzo  1991,  n.  76,
 successivamente  decaduti  poiche'  non tempestivamente convertiti in
 legge) operavano un generico riferimento, ai fini de  quibus  agitur,
 alle  "  ..misure  alternative  alla  detenzione  .." senza ulteriori
 specificazioni. L'opinione  di  questo  tribunale,  a  tal  proposito
 espressa nei summenzionati provvedimenti, era orientata nel senso che
 la  riduzione  di  pena per liberazione anticipata di cui al disposto
 dell'art. 54 della legge 26 luglio 1975 n.  354  e  succ.  mod.,  non
 potesse  essere sussunta nel novero delle " ..misure alternative alla
 detenzione  ..",  la  cui  concessione,   allorche'   richiesta   dai
 condannati  in espiazione di pena per i particolari titoli delittuosi
 di cui al primo comma dell'art. 1 dd.-ll. 12 gennaio 1991 n. 5  e  13
 marzo  1991,  n.  76, era subordinata, ai sensi del combinato dettato
 del primo e secondo comma, dell'articolo 4- bis della legge 26 luglio
 1975, n. 354 e succ. mod.,  all'accertamento  che  "  ..non  vi  sono
 elementi   tali  da  far  ritenere  attuali  i  collegamenti  con  la
 criminalita' organizzata o  eversiva  .."    (accertamento  esperendo
 mediante   l'obbligatoria   adizione  del  comitato  provinciale  per
 l'ordine e la sicurezza pubblica competente in  ordine  al  luogo  di
 abituale  residenza  -  poi  di  detenzione,  nel vigore del d.-l. n.
 152/1991 - del condannato).  Orbene,  tale  normativa  richiede  alla
 magistratura  di sorveglianza una particolare indagine, inerente alla
 pericolosita'  sociale)  rectius:   alla   sussistenza   di   attuali
 collegamenti  con  organizzazioni criminose comuni e/o politiche) dei
 detenuti condannati per qualificati  titoli  delittuosi  al  fine  di
 procedere  all'accoglimento  di  istanze  rivolte all'ottenimento dei
 particolari  "benefici"  penitenziari,  indicati  nell'ambito   della
 prefata   normativa.   La   quaestio  juris  che,  nell'ambito  delle
 surrichiamate   processure,  appariva  di  preliminare  rilevanza  si
 incentrava sul  quesito  se  la  dizione  generica  del  primo  comma
 dell'art.  4- bis o.p., il quale operava (quanto meno nei primi testi
 di decreto legge e, comunque, con variazioni lessicali, apportate dal
 testo  normativo   attualmente   in   vigore,   tali   da   lasciare,
 nell'opinione   di  questo  collegio,  inalterata  la  questione)  un
 indistinto  richiamo  alle  "misure  alternative  alla   detenzione",
 potesse  essere  riferita,  altresi', all'istituto della riduzione di
 pena   per   liberazione   anticipata   e,   conseguentemente,    se,
 nell'eventualita'  di richieste avanzate da detenuti condannati per i
 titoli delittuosi di cui al ridetto primo comma dell'art. 4- bis o.p.
 ed intese all'ottenimento di tale  beneficio,  occorresse,  comunque,
 acquisire  le  dettagliate  informative  del comitato provinciale per
 l'ordine e la sicurezza pubblica. Riteneva  questo  collegio  di  non
 poter  condividere  tale  orientamento interpretativo: la formula, di
 cui al primo comma  dell'art.  4-  bis  o.p.  aveva  inteso  operare,
 secondo  l'opinione  di  questo  tribunale di sorveglianza, un chiaro
 riferimento  ad  istituti   caratterizzati   da   un   minimo   comun
 denominatore,  costituito  dalla natura giuridica di "misure alterna-
 tive  alla  detenzione",  stricto  sensu  intese.  A  tal  proposito,
 appariva  significativo  che la circostanza che l'obbligo di adizione
 dell'istanza rappresentata dal comitato provinciale per l'ordine e la
 sicurezza  fosse  stato  imposto,  in  relazione  alle   domande   di
 liberazione  condizionale,  nell'ambito  di  separato  articolo della
 medesima normativa (art. 2 del d.-l. n. 5/1991): tale  considerazione
 non  poteva  esser  utilizzata, in chiave di ricostruzione esegetica,
 per inferirne la conclusione che  il  richiamo  operato  dall'art.  1
 dello  stesso  decreto  legge  avesse  esclusivo riferimento a quelle
 misure, definite  quali  alternative  dal  legislatore  del  1975,  e
 prescindere  dalla loro effettiva natura giuridica: secondo tale tesi
 l'espresso richiamo alla liberazione  condizionale  in  diverso  loco
 della  medesima  normativa  si  sarebbe  reso  necessario  a  cagione
 dell'esclusione, dal novero delle misure disciplinate nel  1975,  del
 prefato  istituto,  mentre,  laddove  il  legislatore del 1991 avesse
 inteso far riferimento  alla  natura  giuridica  degli  istituti,  il
 richiamo  stesso  avrebbe  costituito un superfetazione, alla stregua
 dell'accertata natura di misura alternativa alla detenzione,  propria
 della liberazione condizionale.
   Riteneva   e,  conseguentemente,  esponeva,  per  converso,  questo
 tribunale che l'opportunita' di disciplinare in  senso  analogo  alle
 altre   misure  alternative  alla  detenzione  anche  la  liberazione
 condizionale,  sia  pure  nell'ambito   di   differente   articolato,
 derivasse  proprio dall'attenta considerazione della natura giuridica
 dell'istituto de quo: costituisce, infatti, argomento ormai  noto  la
 querelle,  insorta  tanto  in  ambito  dottrinario,  quanto in ambito
 giurisprudenziale,   sulla   natura   giuridica   della   liberazione
 condizionale e della conseguente liberta' vigilata, sul quale neanche
 vale  la  pena  di  soffermarsi,  se  non  per  il tempo necessario a
 rammentarlo. Basti soltanto sottolineare,  in  questa  sede  ed  agli
 scopi  che  ne  occupano,  che neanche la Corte costituzionale, nella
 piu' recente pronunzia in  materia  di  effetti  della  revoca  della
 liberazione condizionale (sent. 17-25 maggio 1989 n. 282, pres. Saja,
 rel. Dell'Andro, in Gazzetta Ufficiale 1989, prima serie speciale, n.
 22,  pag.  13  e  seguenti),  con  decisione  apprezzata  per  la sua
 ponderazione dall'unanime dottrina, ha ritenuto opportuno dirimere il
 contrasto  tra  coloro  che  sostengono  la  natura  di  modalita' di
 esecuzione alternativa alla pena detentiva, propria della liberazione
 condizionale, e coloro che, viceversa,  ne  predicano  la  natura  di
 istituto  di  carattere  sospensivo probatorio (v. sentenza predetta,
 pagg. 15, 16 e 17). L'irrisolto nodo interpretativo,  senz'altro  ben
 noto  al  legislatore,  era sotteso, nella ricostruzione esegetica di
 questo collegio, alla necessita' di provvedere ad  espressa  menzione
 della  liberazione condizionale nell'ambito di un differente articolo
 di legge proprio in virtu' dell'impossibilita',  allo  stato  attuale
 dell'interpretazione  dottrinaria e giurisprudenziale, di equiparare,
 sic et simpliciter, l'istituto di cui  all'art.  176  del  c.p.  alle
 misure  alternative  alla  detenzione  stricto  sensu. Donde dovevasi
 desumere  la  piena  controvertibilita'  dell'argomentazione   logica
 suddetta.
   Che,  anzi,  proprio la constatazione che il legislatore, allorche'
 aveva inteso estendere gli oneri procedurali previsti per  le  misure
 alternative  alla  detenzione  anche  ad  un  istituto, la cui natura
 giuridica appare ancora oggi di incerta definizione, aveva provveduto
 espressamente alla  menzione  dello  stesso,  addirittura  in  ambito
 testuale  separato, induceva a concludere che la locuzione " ..misure
 alternative alla detenzione  .."  utilizzata  nell'ambito  del  primo
 comma  dell'art.  4-  bis  o.p.,  sopra mentovato, avesse una propria
 specificita' tecnica, nel senso  che  il  legislatore  avesse  inteso
 operare  un  riferimento  preciso  solo  e  soltanto a quelle misure,
 introdotte per la prima volta, nell'ambito  dell'ordinamentogiuridico
 italiano,   dalla   legge  di  riforma  penitenziaria  del  1975  (e,
 successivamente, integrate nel 1986), che rivestano natura di vera  e
 propria alternativa alla pena detentiva ordinaria.
    Aggiungeva,  a tal proposito, questo Collegio un excursus inerente
 alla genesi delle misure alternative alla detenzione: a tal riguardo,
 occorre sottolineare come sia, ormai, noto, dal dibattito dottrinario
 che  ha  travagliato  la  penalistica  italiana  ed   internazionale,
 risalente,  addirittura,  al  periodo  terminale  del  diciannovesimo
 secolo,  ed  epoca,  id  est,  in  cui,  attraverso  la  formulazione
 dell'ormai  classico  paradosso  di  Von  Liszt, venne individuata la
 necessita' di definire e giuridicizzare misure alternative alla  pena
 detentiva  breve ed ai suoi inevitabili correlati di stigmatizzazione
 e  desocializzazione,  che  la  misura  alternativa  alla  detenzione
 costituisce una sorta di tergium genus tra la pena detentiva classica
 ed  i  cosiddetti  sostitutivi  penali:  la  misura  alternativa alla
 detenzione,  infatti,  non  implica  una  totale  deprivazione  della
 liberta'  personale,  ma una piu' o meno pregnante compressione della
 stessa, accompagnata da forme di assistenza  risocializzatrice;  alla
 pena   detentiva   classica,  viceversa,  le  misure  alternative  si
 avvicinano,  alla  stregua  del  loro  carattere  di   afflittivita',
 positivamente  sanzionato,  a  tutt'oggi,  da  autorevoli  interventi
 giurisprudenziali (v. sent. Corte costituzionale 15 ottobre 1987,  n.
 347,  pres.    Andrioli,  rel.  Spagnoli, in Gazzetta Ufficiale 1987,
 prima serie speciale, n. 46, pag. 50 e segg.). Su tali conclusioni si
 e' attestata la dottrina unanime, anche in seguito agli interventi di
 autorevolissimi esponenti,  sin  dai  tempi  dell'introduzione  della
 legge di riforma penitenziaria.
    Orbene, data tale premessa, secondo cui le misure alternative alla
 detenzione,  stricto  sensu intese, sono connotate da un coessenziale
 carico di afflittivita', si inferiva logicamente che  l'istituto,  di
 cui  all'art. 54 della legge 26 luglio 1975, n. 354 e succ. mod., non
 poteva rettamente essere annoverato tra le  misure  alternative  alla
 detenzione:  concorde  alla  conclusione  che  precede  e', altresi',
 autorevole dottrina, la quale, sin dall'epoca dell'entrata in  vigore
 della  legge  di  riforma dell'ordinamento penitenziario, sottolineo'
 l'improprieta'  della  collocazione   sistematica   della   normativa
 concernente   le   riduzioni   di  pena  per  liberazione  anticipata
 nell'ambito del capo ove trovavansi disciplinate le  misure  alterna-
 tive  alla detenzione: cio', stante la natura giuridica dell'istituto
 prefato, il quale consiste non nella sostituzione di  un  trattamento
 "penale"   ad   altro   tipo   di   trattamento   (quello   detentivo
 tradizionale), bensi' nella  mera  remissione  di  parte  della  pena
 detentiva  stessa  alla  stregua  della  verificazione giudiziale dei
 parametri  comportamentali  delineati   dal   legislatore   (positiva
 rispondenza agli interventi trattamentali).
    La  natura  giuridica  dell'istituto  della  riduzione di pena per
 liberazione anticipata consiste nell'abbreviazione della durata della
 pena   detentiva    quale    riconoscimento    (sanzione    positiva)
 dell'adozione,    da   parte   del   condannato,   di   comportamenti
 normorientati:  dalla  lettera  della  legge  emerge  palesemente  la
 pregnanza  spiccatamente premiale dell'istituto, il quale consiste in
 un incentivo alla condivisione di metodiche trattamentali,  orientate
 alla  progressiva  acquisizione di stadi rieducativi del soggetto. La
 ratio sottesa all'istituto de quo risulta chiaramente evincibile  del
 tenore  testuale dell'art. 54 o.p., il quale delinea per la riduzione
 di pena una finalita'  pedagogica,  desumibile  dall'indicazione  del
 semestre  quale  unita' di valutazione della condotta del condannato,
 operata in  virtu'  della  recezione  delle  conclusioni  delle  piu'
 avvedute    dottrine    psico-pedagogiche    (siccome   riconosciuto,
 oggigiorno, anche dalla suprema Corte;
 v. cassazione, sez. prima, 15 marzo 1989, pres. Molinari, rel.  Savoi
 Colombis,  cond.  comune,  in  Cass.  pen.  1989,  p. 2267, m. 1854):
 d'altro canto, lo stesso Ministro guardasigilli, nella  relazione  al
 disegno   di   legge   di   riforma  dell'ordinamento  penitenziario,
 sottolineava  le  potenzialita'  incentivanti   dell'istituto   nello
 stimolare  il  detenuto nello sforzo di adeguamento e di mantenimento
 di " ..una positiva tensione psicologica ..".
    La natura giuridica dell'istituto  della  riduzione  di  pena  per
 liberazione  anticipata,  siccome  poc'anzi  delineata, fa si' che lo
 stesso non possa essere assimilato, sic et simpliciter,  alle  misure
 alternative   alla   detenzione,   stricto  sensu  intese,  dovendosi
 ravvisare nello stesso un istituto dalla spiccata  valenza  premiale,
 ispirato  a  parametri  pedagogici  di incentivazione all'adozione di
 comportamenti di retta  progressione  nell'acquisizione  di  mete  di
 rieducazione:   il   riscontro   rispetto  al  quale  commisurare  la
 valutazione  giudiziale  dovra'   essere,   pertanto,   eminentemente
 fattuale, indipendentemente dal raggiungimento del fine dell'avvenuta
 rieducazione   sociale   del   condannato;   altrimenti  opinando  si
 perverrebbe al risultato di  sovrapporre  l'istituto  in  disamina  a
 quello della liberazione condizionale, in ordine al quale, viceversa,
 il  legislatore  richiede espressamente l'intervenuta emenda del reo.
 Il reinserimento sociale e' prospettato dal legislatore,  nell'ambito
 della  disciplina  dell'istituto  di  cui  all'art.  54  o.p.,  quale
 finalita' al cui raggiungimento sono orientati gli incentivi premiali
 intesi a stimolare l'adozione di comportamenti (carcerari e  sociali)
 normorientati; d'altro canto, la conclusione che precede si consolida
 alla luce del recenziore orientamento esegetico,
  adottato  dalla  suprema  Corte  in  materia  di frazionabilita' del
 periodo detentivo soggetto alla valutazione  giudiziale  ai  fini  de
 quibus  e  di semestralizzazione della concessione delle riduzioni di
 pena (v. cass. sez. prima, 15 marzo 1989, gia'  citata;  cass.,  sez.
 prima, 19 aprile 1989, pres. Carnevale, rel. Pirozzi, cond. Ferro, in
 cass.  pen.  1990,  pag.  1800, m. 1473; cass., sez. prima, 29 maggio
 1989, Ognibene, in mass. uff. 1989, m. 181516; cass., sez. prima,  16
 maggio  1989,  Borsone,  ivi  1989,  m. 181914; cass., sez. prima, 27
 dicembre 1989, n. 2914, pres. Aiello rel. Buogo, cond. Bassi;  cass.,
 sez. prima, 18 gennaio 1990, n. 3192, pres. Carnevale, rel. Serianni,
 cond.  Ierardi;  cass.,  sez.  prima,  13  aprile 1990, n. 758, pres.
 Molinari,  rel.  Pompa,  cond.  Carbone),  il   quale,   secondo   le
 considerazioni  della  piu'  avveduta  dottrina, implica una maggiore
 oggettivizzazione  del  giudizio  proprio   della   magistratura   di
 sorveglianza.
    Occorreva,   nella   ricostruzione  esegetica  fornita  da  questo
 collegio, porre mente alla considerazione che il parametro normativo,
 alla cui stregua valutare il comportamento del condannato ai fini  de
 quibus,  e' la partecipazione del detenuto all'attivita' rieducativa,
 sostanziantesi, secondo il testuale disposto dell'art. 94 del  d.P.R.
 29  aprile  1976,  n.  431  e  succ.  mod.,  nel  particolare impegno
 dimostrato dal  ristretto  nel  trarre  profitto  dalle  opportunita'
 offertegli  nel  corso  del  trattamento,  id  est nell'atteggiamento
 manifestato  nei  confronti  degli  operatori   penitenziari,   nella
 qualita'  dei  rapporti  intrattenuti  con  i  condetenuti  e  con  i
 familiari, oltre che, ovviamente, nella spontanea e proficua adizione
 degli  elementi  del  trattamento  rieducativo  (lavoro,  istruzione,
 religione,  etc.). Rebus sic stantibus, non si poteva non condividere
 l'orientamento predicato da autorevole dottrina, nonche',  in  ultima
 analisi,   sotteso   alla   stessa   giurisprudenza  del  giudice  di
 legittimita' delle leggi (v.  Corte costituzionale sent. 23-31 maggio
 1990, n. 276, pres. Saja, rel. Gallo, Calore ed altro, in Cass.  pen.
 1991,  m.  2,  pag.  4  e  segg.),  secondo cui il presupposto per la
 concessione (rectius, per il riconoscimento  giudiziale  del  diritto
 alla  concessione) della riduzione di pena per liberazione anticipata
 consiste in un dato squisitamente  fattuale,  il  cui  primo  ed,  in
 sostanza,  pieno  riscontro  deve  logicamente  essere demandato agli
 operatori che quotidianamente, con profusione di impegno e sacrificio
 personale, nonche' di esperienza cognitiva e  scientifica,  hanno  la
 possibilita'  di  osservare  e  studiare la rispondenza eventuale del
 condannato agli  interventi  trattamentali,  id  est  agli  operatori
 penitenziari.  Ne'  poteva  dirsi  che  siffattamente  opinando ci si
 priva, volontariamente, di uno strumento cognitivo atto  a  vagliare,
 piu'  oculatamente,  il  reale  grado  di  rispondenza  del  detenuto
 all'opera di rieducazione:  era ben consapevole questo  collegio  che
 una  regolare  condotta intramuraria, la quale dissimuli, in realta',
 una permanenza del vincolo associativo con organizzazioni criminali o
 eversive,  non  potesse   correttamente   essere   qualificata   come
 partecipazione  all'attivita'  trattamentale,  si'  da  integrare  il
 presupposto   per  il  riconoscimento  giudiziale  del  diritto  alla
 concessione della riduzione di pena per liberazione  anticipata.  Gli
 era,  peraltro,  che dati di riscontro realmente attendibili circa la
 sussistenza dei predetti legami ben  difficilmente  avrebbero  potuto
 essere  forniti,  sol  che  alla  circostanza si ponesse mente per un
 giudizio sereno e disincantato, da  organismi  statuali  estranei  al
 sistema  penitenziario,  i  quali, per loro composizione e competenza
 specifica,   non   possiedono   gli   elementi   di   giudizio   piu'
 significativi,  ai  fini che ne occupano, id est i dati inerenti alla
 condotta  intramuraria  del  condannato;  in   realta',   e'   sempre
 l'amministrazione  penitenziaria,  tramite  i suoi organi periferici,
 deputati all'osservazione della condotta  ed,  in  senso  piu'  lato,
 della  personalita'  del  ristretto,  a possedere un quadro d'insieme
 imprescindibile  e  di  primaria  rilevanza  anche  ai   fini   della
 valutazione   della   circostanza   della   sussistenza   attuale  di
 collegamenti con la criminalita'  organizzata,  siccome  e',  d'altro
 canto,  dimostrato  dalla particolare attenzione profusa dalla stessa
 amministrazione  nel  rilevare  e  segnalare  alla  magistratura   di
 sorveglianza   tutti  quegli  elementi  di  riscontro  che,  ai  fini
 predetti,  potrebbero  rivelarsi  significativi  (rimesse  di  denaro
 sospette,  necessita'  od  opportunita'  di  sottoporre  a  visto  di
 controllo  la  corrispondenza  epistolare  del  detenuto,  natura   e
 frequenza  dei  colloqui,  natura e contenuto di colloqui telefonici,
 soggetti all'ascolto di personale penitenziario, eccezion  fatta  per
 quelli  con i difensori, natura e qualita' della restante popolazione
 detenuta frequentata, etc.). Viceversa, assegnare, come desumersi dal
 testo normativo  dell'art.  4-  bis  o.p.,  primaria  rilevanza,  cui
 subordinare  l'accertamento  degli altri presupposti comportamentali,
 alle  informazioni  fornite  da  un  organismo  estraneo  al  sistema
 penitenziario,   il   quale,   tra  l'altro,  il  piu'  delle  volte,
 soprattutto  nelle  ipotesi  di  detenzioni  protraentisi  da   lungo
 periodo,  non  potra'  che fondare i propri giudizi sui comportamenti
 extramurari   antecedenti   all'instaurazione   della   carcerazione,
 appariva  decisamente  incongruo in riferimento alla natura giuridica
 dell'istituto in disamina, laddove si fosse fatta mente  locale  agli
 orientamenti della stessa consolidata giurisprudenza di legittimita',
 secondo  cui,  ai  fini  della  liberazione  anticipata, occorre aver
 riguardo al comportamento tenuto  dal  condannato  all'interno  degli
 istituti  penitenziari,  mentre  rilevanza  del  tutto  secondaria ed
 accessoria assumono i precedenti penali  e  giudiziari,  ed,  ancora,
 laddove  l'istituto  della  liberazione  condizionale  si  correla al
 sicuro ravvedimento del condannato,  desunto  dal  suo  comportamento
 globale, senza limitare l'osservazione alla sola condotta carceraria,
 quello  della  liberazione anticipata, invece, esige semplicemente la
 partecipazione  all'opera   di   rieducazione,   cioe',   l'adesione,
 ancorche'   attiva,  a  tutte  le  opportunita'  risocializzanti  che
 l'espiazione   della   pena   offre,   senza   che   cio'    comporti
 necessariamente una revisione critica del passato e l'abbandono delle
 spinte  criminali manifestate con la commissione del reato (v. cass.,
 sez. prima, 7 luglio 1989, pres. Molinari,  rel.  Lapenna,  cond.  De
 Risi,   in   Cass.   pen.   1990,   pag.  1991,  m.  1618;  in  senso
 sostanzialmente conforme, v. cass., sez. prima, 2 ottobre 1989, pres.
 Carnevale, rel. Del Vecchio, cond. De Gregori, in  cass.  pen.  1990,
 pag.  2196, m. 1769). La Corte suprema sottolinea in maniera icastica
 la  natura  di  premio per l'adozione di una condotta orientata verso
 una tensione di consentaneita'  a  parametri  di  adesione  all'opera
 trattamentale  ed al contempo di incentivazione verso il mantenimento
 di tale comportamento propria dell'istituto  in  disamina,  la  quale
 sarebbe  stata  inevitabilmente  ridimensionata da un'interpretazione
 del disposto del primo comma del nuovo art. 4- bis o.p.,  che  avesse
 indotto  ad  includere  nel novero delle " .. misure alternative alla
 detenzione ..", alla stregua del mero dato testuale  (rectius,  della
 mera    classificazione    operata    dal   legislatore   nell'ambito
 dell'intitolazione   di   una   capo   della   legge    di    riforma
 dell'ordinamento  penitenziario,  alla quale, certamente, non possono
 assegnarsi valore e dignita'  superiori  di  quelle  proprie  di  una
 semplice  rubrica legis, la quale, secondo l'antico brocardo, non est
 lex), anche  l'istituto  della  riduzione  di  pena  per  liberazione
 anticipata;  viceversa, la ritenuta ambiguita' del dato testuale, che
 non menziona  espressamente  l'istituto  prefato,  operando  un  vago
 riferimento  alle  misure  alternative  alla  detenzione,  induceva a
 concludere che, nella necessita' di assegnare un significato concreto
 ed operativo al dato normativo in via esegetica, fosse  da  preferire
 l'orientamento  che,  oltre  il  pur doveroso ossequio al mero tenore
 testuale della legge, si spingesse sino ad indagare la  reale  natura
 giuridica  degli  istituti  sottoposti  a  disamina,  onde  inferirne
 conseguenze relative  alla  disciplina  ed  agli  effetti  giuridici,
 secondo, d'altro canto, le piu' recenti indicazioni di metodo fornite
 dal  giudice  di  legittimita'  delle  leggi (v. Corte costituzionale
 sent. 23-31 marzo 1988, n.  369,  pres.  Saja,  rel.  Dell'Andro,  in
 Gazzetta  Ufficiale,  prima  serie speciale, n. 15 del 13 aprile 198,
 pagg. 11 e segg.; Corte costituzionale sent. 17-25  maggio  1989,  n.
 282, in Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, n. 22 del 31 maggio
 1989,  pagg.  13  e segg.): cio' detto, appare conseguente concludere
 che l'accertata natura  "premiale-incentivante"  della  riduzione  di
 pena  per  liberazione anticipata, la quale non sostituisce al regime
 detentivo  ordinario  un  regime  allo  stesso  alternativo,   bensi'
 consiste  in una mera decurtazione di una parte della pena detentiva,
 alla stregua dell'accertamento  giudiziale  di  dati  parametri,  non
 consentiva  un inquadramento dommatico della stessa nell'ambito delle
 misure alternative stricto  sensu  intese,  alle  quali  si  riteneva
 facesse  riferimento il richiamo operato dal primo comma dell'art. 4-
 bis o.p. e che, pertanto, la concessione  della  stessa  non  potesse
 essere  subordinata all'acquisizione di dati di riscontro provenienti
 da autorita' statuali estranee  al  sistema  penitenziario  (siccome,
 viceversa,  opportuno  in  ordine  alle  altre  misure  ed agli altri
 benefici menzionati,  che,  tutti,  comportano,  a  differenza  della
 liberazione  anticipata,  quale  effetto  immediato  e necessario, il
 ripristino, sia pure temporaneo, di uno  status  libertatis,  piu'  o
 meno compresso), pena lo snaturamento dell'istituto stesso.
   Dunque,  la  natura giuridica dell'istituto della riduzione di pena
 per liberazione anticipata differisce da quella propria delle  misure
 alternaive  alla  detenzione  strictu sensu intese, siccome delineata
 nell'ambito del vasto e risalente dibattito dottrinario  sviluppatosi
 intorno  alla  stessa  e secondo quanto riconosciuto, peraltro, dalla
 stessa consulta (v. ord. 18-26 gennaio 1990 n. 35, pres.  Saja,  rel.
 Dell'Andro,  in  Gazzetta Ufficiale 1990, prima serie speciale, n. 6,
 pag. 12 e seg.):  da cio' dovevasi desumere,  secondo  l'opinione  di
 questo   collegio,   che   la   dizione  utilizzata  dal  legislatore
 nell'ambito del primo comma dell'art. 4- bis o.p. non potesse  essere
 legittimamente estesa sino ad includere l'istituto di cui all'art. 54
 o.p.:  risultavano  gia'  acquisiti, infatti, i motivi secondo cui la
 formulazione "misure  alternative  alla  detenzione",  adoperata  nel
 comma sopra richiamato, doveva intendersi utilizzata in senso proprio
 e   non  in  senso  atecnico:  discendeva  dagli  stessi  in  maniera
 conseguenziale che la riduzione di pena  per  liberazione  anticipata
 non  poteva  essere  inclusa nel novero delle misure alternative alla
 detenzione, neanche al limiato  fine  di  osservare  gli  adempimenti
 istruttori  imposti  per  gli altri benefici, sicuramente sussumibili
 nel genus  delle  misure  alternative  strictu  sensu  dal  combinato
 disposto del primo e del secondo comma dell'art. 4- bis o.p.
    D'altro  canto,  si  pensi alle conseguenze di carattere dommatico
 che  l'accoglimento  della  tesi  opposta  a  quella  sostenuta   nei
 richiamati  provvedimenti  avrebbe  comportato sulla natura giuridica
 dell'istituto de quo: si e' gia' avuta occasione  di  evidenziare  la
 natura  di incentivo di carattere pedagogico della riduzione di pena,
 intesa  quale  sanzione  positiva  atta  a  suscitare  una   tensione
 psicologica orientata all'adozione di comportamenti normorientati. La
 subordinazione   della   concessione  della  riduzione  di  pena  per
 liberazione anticipata non piu' soltanto al riscontro di una positiva
 rispondenza agli interventi trattamentali operati dalle  e'quipes  di
 osservazione  e  trattamento,  bensi' anche, in relazione ai detenuti
 condannati per le fattispecie delittuose richiamate dal  primo  comma
 dell'art.  4-  bis  o.p., all'acquisizione di informative dettagliate
 per il tramite del comitato provinciale per l'ordine e  la  sicurezza
 pubblica   circa  la  sussistenza  attuale  di  collegamenti  con  la
 criminalita' organizzata avrebbe finito per privare l'istituto di cui
 si discute di qualsivoglia valenza incentivante e pedagogica,  quanto
 meno in relazione alla categoria di condannati menzionata nella prima
 parte del primo comma dell'art. 4- bis o.p.: il legislatore del 1991,
 infatti,   prefigura,   in  capo  agli  stessi  una  vera  e  propria
 presunzione di pericolosita'  sociale  (rectius:  di  persistenza  di
 collegamenti con organizzazioni criminali politiche e/o comuni); tale
 presumptio   legis  appare  rivestire  un  carattere  di  relativita'
 (presumptio  juris  tantum),  essendo  suscettibile  di   superamento
 attraverso  la prova contraria. Cio' non toglie che il condannato, il
 quale abbia osservato un comportamento  rispettoso  della  disciplina
 carceraria   ed  adesivo  alle  modalita'  trattamentali  e  si  veda
 respingere un'istanza di riduzione di pena per liberazione anticipata
 per  la  mera  assenza  di  una  prova  positiva  di   mancanza   dei
 collegamenti  con  organizzazioni malavitose (pur non sussistendo una
 prova di attualita' dei predetti collegamenti)  non  provera'  alcuno
 stimolo  a  perseverare  nel mantenimento dei comportamenti suddetti:
 occorre, a tale proposito, porre mente  alla  considerazione  che  la
 formulazione  adoperata dal legislatore appare chiara nel richiedere,
 ai fini del superamento della presunzione di  pericolosita'  sociale,
 che potremmo definire "qualificata", una prova positiva di assenza di
 collegamenti   attuali  con  la  malavita  organizzata,  non  essendo
 sufficiente,  agli  scopi  de  quibus,  la  mera  mancanza  di  prova
 dell'attualita'   di   connessioni.   La   peculiare  difficolta'  di
 reperimento della prefata prova positiva (la quale finisce,  per  tal
 via,  nel  trasformarsi  in  una  vera e propria probatio diabolica),
 desumibile  dalla  considerazione  che,  eccezion  fatta  per  alcune
 tipologie di criminalita' organizzata  di  tipo  politico-ideologico,
 l'esperienza   criminologica   attesta   la  non  congenialita'  alle
 organizzazioni  malavitose  di  riscontri  (documentali  e  non)   di
 intervenuto    recesso   dalle   stesse,   indurrebbe   a   svalutare
 pesantemente, sin quasi ad  obliterarla  del  tutto,  la  valenza  di
 incentivo  pedagogico proprio della riduzione di pena per liberazione
 anticipata.
    Il problema posto dall'interpretazione del disposto del richiamato
 primo comma dell'art. 4- bis o.p. si presentava, id est,  stretamente
 ed   ineludibilmente   connesso   a  quello  della  natura  giuridica
 dell'istituto  della  liberazione  anticipata.  Cio'   opinando,   si
 perveniva   alla  conseguenziale  conclusione  che  la  summenzionata
 difficolta' di  reperimento  della  prova  positiva  dell'assenza  di
 collegamenti  con  la  malavita  organizzata implicava un sostanziale
 svilimento  del  finalismo  rieducativo  della  pena,   proprio   nel
 particolare  momento  (quello  dell'esecuzione  e del trattamento) in
 cui,  per  unanime  e  risalente  riconoscimento   (v.   la   copiosa
 giurisprudenza  della  Consulta  in  materia di finalita' della pena,
 sviluppatasi a partire dalla sentenza n. 12/1966 in poi), il predetto
 finalismo   avrebbe   dovuto   trovare   il   massimo   dispiegamento
 operativo.L'introduzione  di  elementi di giudizio, improntati ad una
 tutela della finalita' di difesa sociale, sarebbe, invero,  stata  di
 per se' stessa, pienamente lecita, in virtu' della coessenzialita' di
 detto  carattere  al momento punitivo, se non fosse per la preminente
 considerazione che la formulazione della presunzione di pericolosita'
 sociale "qualificata" e della necessita' di prova positiva di assenza
 di collegamenti attuali con la criminalita' organizzata, nei  termini
 in cui risultano prospettati nell'ambito del primo comma dell'art. 4-
 bis  o.p.,  avrebbero  condotto  all'inevitabile conseguenza, laddove
 applicati anche all'istituto della riduzione di pena per  liberazione
 anticipata,  di  realizzare  l'eventualita'  di  " .. privilegiare la
 soddisfazione di bisogni collettivi di stabilita' e sicurezza (difesa
 sociale), sacrificando il  singolo  attraverso  l'esemplarita'  della
 sanzione   ..",   gia'   saggiamente   deprecata   dal   giudice   di
 costituzionalita' delle  leggi  (v.  Corte  costituzionale  sent.  26
 giugno-2  luglio  1990,  n.  313, pres. Saja, rel. Gallo, in Gazzetta
 Ufficiale 1990, prima serie speciale, n. 27, pag. 15):  il  finalismo
 rieducativo,  che  la consulta, nella predetta pronunzia, ha indicato
 come carattere antologicamente proprio della pena, in  tutte  le  sue
 manifestazioni,  dall'astratta  comminatoria, all'irrogazione ed alla
 conseguente esecuzione, trova amplissimo ambito operativo nella  fase
 del   trattamento,   di  cui  la  liberazine  anticipata  costituisce
 peculiare  strumento,  con  carattere  di  sanzione  positiva   della
 partecipazione  ad  esso del condannato, e l'introduzione di elementi
 di valutazione  non  intranei  alla  logica  ed  alle  finalita'  del
 suddetto  trattamento  (le  informative  del comitato provinciale per
 l'ordine e al  sicurezza  pubblica)  avrebbe  prodotto  l'ineludibile
 conseguenze  di  alterare  la  natura  guridica  di  quel particolare
 strumento - la riduzione di pena per liberazione anticipata - che  la
 stessa    consulta    indica   come   coessenziale   al   trattamento
 penitenziario, alla sua logica ed alla sua finalita' (v.  sentenza 26
 giugno-2 luglio 1990, gia' citata, pag. 16).
    Per   tale   via   si  giungeva  alla  conclusione  che  l'obbligo
 istruttorio alla  magistratura  di  sorveglianza  del  secondo  comma
 dell'art.  4-  bis  o.p.  fosse  inteso  a  restringere  l'ambito  di
 operativita', nei confronti di soggetti  condannati  per  fattispecie
 delittuose  tali da destare un rilevante allarme sociale, di benefici
 che hanno come  conseguenza,  diretta  e  necessaria,  l'acquisizione
 immediata  di un ambito, sia pur in vario modo compresso, di liberta'
 personale, mentre tale conseguenza  non  si  pone  con  caratteri  di
 necessita' in ordine all'istituto di cui all'art. 54 o.p.
    L'opinione  espressa  da questo collegio nel vigore dei dd.-ll. 12
 gennaio 1991, n. 5 e 13 marzo 1991, n.  76,  non  mutava  neanche  in
 seguito  all'emanazione  del  d.-l.  13  maggio  1991,  n.  152,  poi
 convertito, senza modificazioni sul punto  che  interessa  in  questa
 sede,  dall'articolo  unico  della  legge  12 luglio 1991, n. 203: il
 testo normativo, introdotto dal primo comma dell'art. 1 del d.-l.  13
 maggio   1991,  n.  152,  apporta  delle  innovazioni  rispetto  alle
 precedenti dizioni: anzitutto, laddove  il  riferimento  operato  dal
 primo  comma degli artt. 1 d.-l. 12 gennaio 1991, n. 5 ed 1 del d.-l.
 13 marzo 1991, n. 76, era operato, genericamente, alle "misure alter-
 native alla detenzione", oggi, l'art. 1 del d.-l. 13 maggio 1991,  n.
 152,  richiama,  testualmente, le "misura alternative alla detenzione
 previste dal capo sesto" della legge 26 luglio 1975, n.  354 e  succ.
 mod.  Si  rammenti, a tal proposito, che la liberazione anticipata e'
 istituto espressamente disciplinato nell'ambito del prefato capo  VI,
 del  titolo  I, della legge n. 354/1975. Tale innovazione legislativa
 ha indotto, in un primo momento, a dubitare  della  riproponibilita',
 nel   vigore  della  nuova  disciplina,  dell'orientamento  esegetico
 sostenuto in epoca  precedente  da  questo  collegio,  siccome  sopra
 ricordato:  a tal riguardo, ha ritenuto opportuno questo tribunale di
 dover confermate le conclusioni gia' adottate ed esposte. E' apparso,
 infatti, alquanto singolare che  il  legislatore  abbia  adottato  la
 soluzione  di  tecnica  redazionale  prospettata  proprio  da  questo
 collegio nelle ordinanze surrichiamate, allorche'  ha  introdotto  la
 nuova  dizione  compresa nel testo dell'art.  4- bis o.p., indicando,
 in maniera esplicita, le "misure alternative alla detenzione previste
 dal capo VI" della legge di riforma  dell'ordinamento  penitenziario,
 laddove  il  testo previgente si limitava a richiamare le "misure al-
 ternative  alla  detenzione",  ciononostante,  questo   collegio   ha
 ritenuto  fondato giungere alla conclusione che la nuova formulazione
 letterale, adoperata dal legislatore del maggio 1991,  non  fosse  di
 portata  e significativita' tali da indurre ad un revirement radicale
 rispetto alle conclusioni gia' adottata. Infatti, la dizione testuale
 continuava a far riferimento alle misure alternative alla  detenzione
 ed  era  da  presumere che il richiamato normativo fosse rivolto alla
 nozione  di  "misure  alternative"  stricto  sensu  intese,   siccome
 individuate  dalla  dottrina,  ormai risalente, gia' menzionata nella
 parte motiva dei provvedimenti sopra mentovati.   Come gia'  esposto,
 la   riduzione   di   pena  per  liberazione  anticipata  costituisce
 particolare metodica trattamentale, ispirata ad una logica di  chiara
 premialita'  incentivante,  eccentrica rispetto alla natura giuridica
 delle cd. "misure alternative  alla  detenzione"  stricto  sensu,  in
 quanto   non  sostituisce  alla  pena  espiata  nell'ordinaria  forma
 carceraria  un  regime  alternativo,  connotato,  al   contempo,   da
 afflittivita'   minore   rispetto   alla   detenzione   ordinaria   e
 dall'intervento degli organi di sostegno sociale, bensi' si limita  a
 decurtare   l'originaria   sanzione,   inflitta   dal  giudice  della
 cognizione, in virtu' della rispondenza della condotta osservata  dal
 condannato  a  parametri di partecipazione all'opera di rieducazione.
 Cio' dato, ricondurre l'istituto, di cui all'art. 54 o.p., nel novero
 delle misure alternative alla detenzione avrebbe costituito rilevante
 forzatura della natura giuridica dello stesso, oltre che, ovviamente,
 di quella delle misure  alternative  structu  sensu  intese,  siccome
 venutasi storicamente delineando, in virtu' di contributi dottrinari,
 legislativi  e  giurisprudenziali  (a meno di non voler sostenere che
 l'unica alternativa alla detenzione e' .. l'assenza  della  stessa|).
 L'indicazione  legislativa, pertanto, doveva intendersi riferita alle
 misure alternative alla detenzione, disciplinate nell'ambito del capo
 VI del titolo I della legge di riforma dell'ordinamentopenitenziario,
 le quali rivestano natura giuridica di  vere  e  proprie  alternative
 alla pena detentiva tradizionale.
    A  cio' si doveva, ancora, secondo questo collegio, aggiungere che
 lo stesso testo del d.-l. 13 maggio 1991, n. 152, offriva spunti  che
 rafforzavano  le  conclusioni  poc'anzi  esposte,  tanto sul piano di
 criteri esegetici strettamente  letterali,  quanto  alla  stregua  di
 parametri  di interpretazione sistematica. Anzitutto, in relazione al
 primo ordine di strumenti ricostruttivi,  doveva  sottolinearsi  che,
 allorquando  il  legislatore  aveva  inteso fare riferimento concreto
 alle singole misure alternative aveva adoperato, in altra  parte  del
 d.-l.,   una   differente  tecnica  redazionale,  procedendo  ad  una
 dettagliata elencazione, la  quale  prevedeva  nominatim  le  singole
 misure  interessate dalla medesima disciplina: occorreva por mente, a
 tal proposito, a quanto previsto dal primo comma dell'art.  58-quater
 o.p., siccome interpolato nel corpus dell'originaria legge di riforma
 dell'ordinamento  penitenziario dal sesto comma dell'art. 1 del d.-l.
 13 maggio 1991, n. 152, che introduce un divieto  di  concessione  di
 alcuni   particolari   strumenti  trattamentali  (permessi  premiali,
 assegnazione al lavoro extramurario) e di alcune  misure  alternative
 alla   detenzione   (affidamento   in   prova   al  servizio  sociale
 esclusivamente  nei  casi  previsti  dall'art.  47  o.p.,  detenzione
 domiciliare   e  semiliberta')  per  i  condannati  in  relazione  ai
 particolari titoli delittuosi di cui al primo comma dell'art. 4-  bis
 o.p.,  che  abbiano  posto in essere una condotta punibile ai sensi e
 per gli effetti del disposto dell'art. 385  del  c.p.:  orbene,  tale
 norma  provvede  ad  indicare nominatim i singoli "benefici" cui deve
 applicarsi la paticolare regolamentazione  dalla  stessa  introdotta,
 costituendo  chiaro indice dell'intenzione del legislatore di operare
 riferimenti   precisi   alla   natura   giuridica   degli    istituti
 disciplinati.   Il   mero   richiamo  alle  misure  alternative  alla
 detenzione, infatti, non sarebbe stato  pertinente,  poiche'  avrebbe
 comportato la conseguenza di includere nel novero anche l'affidamento
 in  casi  particolari,  previsto  dall'art.  47-  bis  o.p.,  laddove
 l'intendimento del legislatore era chiaramente orientato nel senso di
 escludere dalla normativa, ispirata a criteri di  draconiano  rigore,
 soggetti  particolarmente  bisognosi  di terapie atte a soddisfare le
 esigenze poste dalla tossicomania e da peculiari sociopatie, si'  che
 si  e'  reso  necessario  ricorrere  ad  una  tecnica redazionale che
 provvedesse all'elencazione delle singole  misure  interessate  dalla
 nuova   discipina.   Cio'   induceva  a  ritenere  che,  laddove  per
 qualsivoglia motivo,  il  legislatore  avesse  voluto  equiparare  la
 disciplina  delle  misure  stricto  sensu intese e della riduzione di
 pena per liberazione  anticipata  avrebbe  provveduto  a  contemplare
 espressamente  l'istituto  di  cui  all'art. 54 della legge 26 luglio
 1975, n. 354 e succ. mod. accanto alla  dizione  "misure  alternative
 alla  detenzione", la quale, come gia' detto, non puo' ritenersi, sic
 et simpliciter, comprensiva anche della liberazione anticipata.
    Quanto   precede   veniva   ulteriormente   corroborato   da   una
 considerazione  di  ordine  sistematico,  tale  da assumere rilevanza
 assorbente rispetto a qualsiasi altro apprezamento:  in  particolare,
 il  quarto  comma  dell'art.  58-quater o.p., sopra richiamato, nella
 versione introdotta dalla legge 12 luglio 1991, n. 203,  testualmente
 recita:  "I  condannati per i delitti di cui agli articoli 289- bis e
 630 del c.p. che abbiano cagionato la morte del sequestrato non  sono
 ammessi  ad alcuno dei benefici indicati nel primo comma dell'art. 4-
 bis se non abbiano effettivamente espiato almeno i  due  terzi  della
 pena  irrogata  o,  nel  caso  dell'ergastolo, almeno ventisei anni".
 Orbene,  laddove  il  testo  del  prefato  quarto   comma   dell'art.
 58-quater,   nella  versione  previgente,  estendeva  il  divieto  di
 fruizione, per  i  condannati  in  relazione  ai  particolari  titoli
 delittuosi  sopra  richiamati,  in  maniera  onnicomprensiva  (" .. I
 condannati per i delitti  (  ..)  non  sono  ammessi  ad  alcuno  dei
 benefici previsti dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificata
 dalla  legge  10  ottobre  1986  n.  663  .."),  la dizione normativa
 novellata si limita a richiamare i benefici di cui al precedente art.
 4- bis o.p., con  cio'  introducendo  elementi  di  maggiore  armomia
 sistematica  ed  eliminando, al contempo, pericoli di distorsioni ap-
 plicative e di snaturamenti giuridici. Doveva, infatti, considerarsi,
 nella ricostruzione esegetica fornita  da  questo  collegio,  che  il
 richiamo operato nell'ambito del d.-l. 13 marzo 1991, n. 76 (" .. non
 sono  ammessi  ad  alcuno  dei benefici ..") determinava l'esclusione
 dalla fruizione della riduzione di pena per  liberazione  anticipata,
 senza   dubbio   alcuno   sussumibile  nella  formulazione  all'epoca
 adoperata  dal  legislatore,  dei  condannati  per   le   particolari
 fattispecie   delittuose   considerate  dal  quarto  comma  dell'art.
 58-quater o.p. sino all'espiazione effettiva dei due terzi della pena
 inflitta ovvero, trattandosi di ergastolani, di ventisei anni di pena
 detentiva.  Tali  tetti  di  ammissibilita'   erano,   singolarmente,
 coincidenti  con  quello  stabilito dal secondo comma dell'art. 2 del
 d.-l. n. 76/1991  in  materia  di  concedibilita'  della  liberazione
 condizionale  ai  condannati  per  i  delitti  di  cui al primo comma
 dell'art. 4- bis o.p.:  orbene, il limite dei due  terzi  della  pena
 detentiva   temporanea,  statuito,  in  materia  di  ammissione  alla
 liberazione condizionale, dalla prefata  normativa  in  relazione  ai
 condannati  per  le  particolari  fattispecie  contemplate  dall'art.
 4-bis, primo comma, o.p. risultava, senza alcun  dubbio,  applicabile
 anche  ai  soggetti  condannati  per  i  reati di cui al quarto comma
 dell'art. 58-quater o.p., costituendo questi un  cerchio  concentrico
 di  minori  dimensioni  rispetto  ai  primi.    Si  doveva, pertanto,
 ritenere  introdotto  per  tale  via  un   elemento   di   confusione
 sistematica  (davvero  di non poso momento): la riduzione di pena per
 liberazione anticipata,  infatti,  veniva  trasformata,  per  effetto
 della  normativa  prefata,  in istituto il cui momento di fruibilita'
 veniva,  per  i  condannati  in  ordine  alle  fattispecie  criminose
 espressamente  previste  dal  quarto  comma dell'art. 58-quater o.p.,
 astrattamente   a   coincidere   con   quello  di  ammissibilita'  di
 un'eventuale istanza di  liberazione  condizionale,  con  conseguente
 annullamento della necessaria progressione trattamentale: si sarebbe,
 in  teoria,  potuta  verificare  l'eventualita'  di  ammissione di un
 condannato, in espiazione di pene detentive inflitte in  relazione  a
 fatispecie  di  rilevante disvalore sociale, al "beneficio" maggiore,
 senza   la   preventiva,   propedeutica   fruizione   dei    passaggi
 trattamentali  intermedi,  di  portata  ed  efficacia necessariamente
 minore (permessi premiali,  ammissione  al  lavoro  extramurario,  ma
 anche,   necessariamente,   riduzione   di   pena   per   liberazione
 anticipata). La distonia di tali coneguenze con un'interpretazione ed
 un'applicazione corrette del  sistema  della  riforma  penitenziaria,
 nella  parte inerente ai principi del trattamento rieducativo, appare
 in tutta evidenza, siccome  anche  la  paradossalita'  delle  stesse:
 l'istituto  della liberazione anticipata sarebbe venuto, per tal via,
 ad essere appiattito, quanto meno in  relazione  ad  una  determianta
 fascia  di  condannati,  su  quello  della  liberazione condizionale,
 contrariamente a quanto  sostenuto  dalla  stessa  giurisprudenza  di
 legittimita'  (v.  cass.,  sez. prima, 7 luglio 1989, pres. Molinari,
 rel. Lapenna, cond. De Risi, in cass. pen. 1990, pag. 1991, m.  1618;
 in  senso  sostanzialmente  conforme, v. cass., sez. prima, 2 ottobre
 1989, pres. Carnevale, rel. Del Vecchio, cond. De Gregori,  in  cass.
 pen.  1990,  pag.  2196,  m.  1769).  Oltretutto, l'impossibilita' di
 concedere riduzioni di pena per libeerazione anticipata se  non  dopo
 l'espiazione  effettiva  di due terzi della pena detentiva temporanea
 ovvero di ventisei  anni,  per  gli  ergastolani,  sarebbe  risultato
 confliggente  con i canoni pedagogici che hanno recentemente imposto,
 quale corretta metodica trattamentale, la frazionalita'  dei  periodi
 detentivi valutandi ai fini de quibus: la fruibilita' di riduzioni di
 pena  se  non  dopo  l'espiazione  effettiva  di due terzi della pena
 detentiva temporanea inflitta ovvero di ventisei  anni,  in  caso  di
 irrogazione dell'ergastolo, allontandando nel tempo la prospettiva di
 un  concreto  riconoscimento  degli  sforzi  adattativi  del detenuto
 avrebbe costituito fonte di reale disincentivazione dello  stesso  al
 mantenimento  di una condotta sostanzialmente adesiva ai parametri di
 condivisione delle metodiche e delle finalita' trattamentali, secondo
 quanto statuito, in epoca recenziore dalla stessa  giurisprudenza  di
 legittimita'  (v.  cass.,  sez.  prima,  15  marzo 1989, gia' citata;
 cass., sez. prima, 19 aprile 1989,  pres.  Carnevale,  rel.  Pirozzi,
 cond.  Ferro,  in  cass.  pen.  1990, pag. 1800, m. 1473; cass., sez.
 prima, 29 maggio 1989, Ognibene,  in  mass.  uff.  1989,  m.  181516;
 cass.,  sez.  prima,  16  maggio  1989, Borsone, ivi 1989, m. 181914;
 cass., sez. prima, 27 dicembre 1989,  n.  2914,  pres.  Aiello,  rel.
 Buogo,  cond.  Bassi;  cass.,  sez.  prima, 18 gennaio 1990, n. 3192,
 pres. Carnevale, rel. Serianni, cond. Ierardi; cass., sez. prima,  13
 aprile  1990,  n.  758,  pres.  Molinari, rel. Pompa, cond. Carbone).
 Viceversa, il testo novellato del quarto  comma  dell'art.  58-quater
 o.p.,  operante  un  mero  richiamo  ai benefici menzionati nel primo
 comma dell'art. 4- bis o.p., anch'esso novellato,  avrebbe  eliminato
 le  predette  conseguenze,  esclusivamente  laddove  il prefato primo
 comma dell'art. 4- bis o.p. fosse stato  interpretato  nel  senso  di
 escludere  dalla sua sfera di operativita' l'istituto di cui all'art.
 54  o.p.,  siccome  sostenuto  da  questo  collegio.   L'orientamento
 esegetico  propugnato, infatti, ove intendeva il richiamo operato dal
 primo  comma dell'art. 4- bis o.p. effettuato alle misure alternative
 alla  detenzione  strictu  sensu,  con  conseguente  eccezione  della
 riduzione  di  pena per liberazione anticipata, consentiva di evitare
 la produzione di effetti confliggenti con i principi del  trattamento
 rieducativo  e  della sua progressione, siccome poc'anzi delineati, i
 quali, peraltro, si sarebbero ineludibilmente riprodotti alla stregua
 di un'esegesi che avesse avuto il fine  ultimo  ed  il  risultato  di
 includere anche la riduzione di pena per liberazine anticipata tra le
 "misure alternative alla detenzione previste dal capo VI", menzionate
 dal primo comma dell'art. 4- bis o.p.
    La  tesi  interpretativa osteggiata, oltre tutto, avrebbe prodotto
 l'ulteriore conseguenza di precludere in maniera assai drastica,  per
 un  rilevantissimo  periodo di tempo dell'esecuzione (due terzi della
 pena detentiva temporanea ovvero ventisei anni per  gli  ergastolani)
 la  fruizione  dei piu' qualificanti strumenti trattamentali (tra cui
 anche,  e  soprattutto,  la  riduzione  di   pena   per   liberazione
 anticipata)   ad  una  fascia  di  condannati,  che  sarebbero  stati
 ulteriormente scriminati rispetto agli altri: tale  effetto  appariva
 in contrasto tanto con il parametro fornito dal terzo comma dell'art.
 27  della  costituzione,  inerente  alla tensione della pena verso il
 fine della rieducazione del condannato, che, per  tale  via,  sarebbe
 stato  compresso  in  maniera  tale  da  restare  quasi completamente
 conculcato, quanto con il paremetro di cui al secondo comma dell'art.
 3 della  costituzione,  poiche'  la  disparita'  di  trattamento  tra
 condannati  sarebbe  sembrata  di  tale  portata  da non poter essere
 giustificata, se  non  con  estrema  difficolta',  alla  stregua  del
 disvalore   sociale   delle   fattispecie  criminose  sanzionate.  Il
 fondamentale criterio esegetico che impone all'interprete del diritto
 di salvaguardare, tra diversi  possibili  orientamenti  ricostruttivi
 della  voluntas  legis,  quello  maggiormente  consentaneo  ai valori
 costituzionalmente tutelati imponeva, pertanto,  alla  stregua  della
 gia'  piu'  volte richiamata ricostruzione, di mantenere ferma, anche
 nella vigenza della legge 12  luglio  1991,  n.  203,  la  tesi  gia'
 precedentemente  adottata  da questo collegio, siccome sopra esposta,
 secondo cui la riduzione  di  pena  per  liberazione  anticipata  non
 doveva  essere  annoverata tra le "misure alternative alla detenzione
 previste  dal  capo  VI"  della  legge  di  riforma  dell'ordinamento
 penitenziario,  menzionate  dal  primo  comma  dell'art. 4- bis o.p.,
 interpolato dal primo comma dell'art. 1 della legge n. 203/1991,  si'
 che,  onde  far  luogo  alla  concessione  della stessa, non appariva
 necessario adire il competente Comitato provinciale per l'ordine e la
 sicurezza pubblica,  al  fine  di  acquisirne  elementi  di  giudizio
 inerenti   all'attualita'   di   collegamenti   con  la  criminalita'
 organizzativa od eversiva.
    Sin qui questo tribunale di sorveglianza in  precedenti  pronunzie
 sull'argomento.
    L'orientamento   esegetivo   sopra   doviziosamente   esposto  ha,
 peraltro, trovato smentita nella giurisprudenza di  legittimita',  la
 quale,  in  epoca ancora recente, seppure in maniera gia' tralatizia,
 ha statuito piu' volte che il disposto del primo comma  dell'art.  4-
 bis  della  legge  26  luglio  1975,  n.  354  e  succ. mod., siccome
 interpolato  nel   corpus   originario   della   legge   di   riforma
 del'ordinamento  penitenziario  dal primo comma dell'art. 1 del d.-l.
 13 maggio 1991, n. 152, deve essere  interpretato  secondo  parametri
 esclusivamente  letterali, si' che l'espressione " .. misure alterna-
 tive alla detenzione previste dal capo VI .." deve essere  rettamente
 intesa,  ai  fini  de  quibus  agitur,  come  comprensiva anche della
 riduzione di pena per liberazione anticipata (v. cass., sez.   prima,
 21 novembre 1991, n. 4409, pres. Vitale, rel. Gioggi, Tortora; cass.,
 sez.  prima,  27 novembre 1991, n. 4516, pres. Vitale, rel.  Tricomi,
 Spenuso; cass., sez. prima, 12 dicembre 1991, n. 4845, pres. Sibilia,
 rel. Pirozzi, Topazio; cass., sez. prima, 12 dicembre 1991, n.  4848,
 pres. Sibilia, rel. Pirozzi, Del Vivo; cass., sez. prima, 18 dicembre
 1991, n. 4971, pres. Carnevale, rel. Tricomi, De Sanctis; cass., sez.
 prima,  13  gennaio  1992,  n.  60,  pres.    Carnevale, rel. Pintus,
 Branciforte; tutte  inedite).  Secondo  la  Corte  di  cassazione  il
 riferimento alle misure alternative previste nel capo VI del titolo I
 della legge n. 354/1975 appare chiaro nel richiamate tutti i benefici
 disciplinati  nell'ambito  della  prefata  partizione  legislativa ed
 individuati come  tali  (misure  alernative)  dall'intitolazione  del
 capo: poiche' lo stesso e', per l'appunto, intitolato alle misure al-
 ternative alla detenzione ed alla remissione del debito e poiche' tra
 le  misure  nell'ambito  dello  stesso  prevedute e' inclusa anche la
 riduzione di pena per liberazione anticipata appare di tutta evidenza
 che tale beneficio debba essere ricompreso, ai fini de quibus agitur,
 nella dizione " .. misure alternative alla  detenzione  previste  dal
 capo  VI  .."  di  cui  al  primo comma dell'art.   4- bis o.p.: tale
 normativa dovrebbe, secondo l'orientamento esegetico predicato  dalla
 giurisprudenza  di legittimita', essere interpretata secondo i canoni
 di  un'esegesi  strettamente  ancorata  al   dato   testuale,   senza
 possibilita'  alcuna  per  il  ricorso ad altri parametri ermeneutici
 (quali quello logico-sistematico ovvero  quello  storico,  utilizzati
 nell'ambito  della  ricostruzione fornita da questo collegio, siccome
 sopra esposto), poiche' il ricorso agli stessi sarebbe stato impedito
 dall'assenza  di  qualsivoglia  risvolto  di  ambiguita'  del   testo
 normativo interpretando (primo comma dell'art.  4- bis o.p.).
    Laddove  alcune  tra  le  sentenze  sopra  richiamate  operano  un
 esclusivo ed assorbente riferimento al  criterio  di  interpretazione
 letterale,  siccome  poc'anzi esposto, consideranto inconferente ogni
 considerazione  inerente  alla  natura  giuridica  del  beneficio  di
 disamina  (v.  cass.,  sez.  prima,  18  dicembre 1991, n. 4971, gia'
 citata), altri provvedimenti giungono sino ad assimilare la riduzione
 di pena per liberazione anticipata alle vere e proprie misure  alter-
 native  alla  stregua  della  riflessione  che " .. per effetto della
 concessione del beneficio, puo' verificarsi  l'immediata  liberazione
 del  condannato  in  tutti  i  casi  in cui gli abbuoni di pena siano
 relativi agli ultimi periodi di pena che il soggetto  avrebbe  dovuto
 espiare,  e,  quindi,  si  avrebbe  una immediata alternativita' alla
 detenzione"; a cio' si aggiunge la considrazione che " .. il richiamo
 esplicito, nella intestazione dell'art. 54 della legge  n.  354/1975,
 al  beneficio  de quo, quale 'liberazione anticipata" contiene in se'
 il riferimento ad una pena' che, in parte, non viene espiata in stato
 di detenzione, ma in stato di liberta' .."; per  tale  via,  ed  alla
 stregua   di   ulteriori  osservazioni  concernenti  gli  aspetti  di
 premialita' insiti nella regolamentazione dei  rimanenti  "benefici",
 la   Cassazione  giunge  ad  assimilare  la  riduzione  di  pena  per
 liberazione  anticipata  alle  rimanenti  misure   alternative   alla
 detenzione  disciplinate  nel  capo  VI  del  titolo I della legge 26
 luglio  1975,  n. 354 e succ. mod., includendo tra le stesse anche le
 licenze premiali per i semiliberi (v. cass., sez. prima, 21  novembre
 1991,  n.  4409,  gia'  menzionata).  La conclusione conseguenziale a
 siffatto ragionare comporta l'astensione dell'onere  di  acquisizione
 delle   informative   relative  all'attualita'  di  contatti  con  la
 criminalita' organizzata od eversiva, per  il  tramite  del  comitato
 provinciale  per l'ordine e la sicurezza pubblica, anche alle istanze
 intese all'ottenimento del riconoscimento giudiziale  del  diritto  a
 riduzioni  di  pena per liberazione anticipata. Cio' stante, anche in
 relazione alle istanze intese all'ottenimento di  riduzioni  di  pena
 per   liberazione   anticipata,  presentate  dai  condannati  per  le
 fattispecie delittuose individuate dal primo comma dell'art.  4-  bis
 della  legge  26 luglio 1975, n. 354 e succ. mod., sussiste l'obbligo
 per la magistratura di sorveglianza di procedere all'acquisizione  di
 informazioni   sulla   sussistenza   di   collegamenti   attuali  del
 richiedente con la criminalita' organizzata od eversiva, fornite  per
 il  tramite  dei  competenti  comitati  provinciali per l'ordine e la
 sicurezza pubblica, ed alla conseguente valutazione delle  stesse  in
 ambito di definizione delle istanze predette.
   Orbene,  i profili di illegittimita' costituzionale della normativa
 in disamina  sono  rilevabili  proprio  in  relazione  ai  canoni  di
 valutazione   delle  suddette  informazioni  che  il  legislatore  ha
 prospettato nell'ambito della disciplina di cui al  prefato  art.  4-
 bis  o.p. Si rammenti, infatti, che la norma richiamata individua due
 diverse categorie di detenuti: la prima e' costituita dai  condannati
 per  delitti  commessi  per  finalita'  di  terrorismo o di eversione
 dell'ordinamento costituzionale,  per  delitti  commessi  avvalendosi
 delle  condizioni  previste dall'articolo 416- bis del c.p. ovvero al
 fine di  agevolare  l'attivita'  delle  associazioni  previste  dallo
 stesso  articolo,  nonche' per i delitti di cui agli artt. 416- bis e
 630 del c.p. e dell'art. 74 del testo unico delle leggi in materia di
 disciplina  degli   stupefacenti   e   delle   sostanze   psicotrope,
 prevenzione,   cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati  di
 tossicodipendenza, approvato con d.P.R. 9 ottobre 1990,  n.  309,  la
 seconda  dai  condannati  per  i  delitti di cui agli artt. 575, 628,
 terzo  comma,  629,  secondo  comma,  del  d.p.   e   dell'art.   73,
 limitatamente  alle  ipotesi aggravate ai sensi dell'art. 80, secondo
 comma, del predetto testo unico, approvato con  d.P.R.  n.  309/1990.
 Nei  confronti dei condannati rientranti nel novero della prima delle
 suindicate categorie il  legislatore  statuisce  che  le  particolari
 misure  trattamentali  individuate dallo stesso primo comma dell'art.
 4- bis o.p. sono concedibili  "  ..  solo  se  sono  stati  acquisiti
 elementi  tali  da  escludere  l'attualita'  di  collegamenti  con la
 criminalita'  organizzata  o   eversiva".   Viceversa,   gli   stessi
 "benefici"  possono essere concessi ai condannati di cui alla seconda
 delle suenunziate categorie: " .. solo se non vi sono  elementi  tali
 da  far  ritenere  la sussistenza di collegamenti con la criminalita'
 organizzata o eversiva".
    Orbene, dall'esposizione della materia e' dato arguire che in capo
 ai condannati della prima categoria, siccome  sopra  individuata,  il
 legislatore  ha posto una vera e propria presunzione di pericolosita'
 sociale qualificata (rectius: di attualita' di  collegamenti  con  la
 criminalita'  organizzaa od eversiva), la quale puo' essere superata,
 ai fini dell'ammissione  alla  fruizione  dei  particolari  strumenti
 trattamentali  indicati  dal  primo  comma  dell'art.  4-  bis  o.p.,
 soltanto mediante il reperimento di concreti elementi di giudizio che
 consentano di comprovare in termini positivi  l'assenza  dei  prefati
 collegamenti.  Diversa appare la situazione dei condannati rientranti
 nella seconda delle surrichiamate categorie,  nei  cui  confronti  il
 legislatore, al di la' della statuizione di qualsivoglia presunzione,
 sembra  aver  semplicemente indicato un ulteriore thema probandi alla
 magistratura di sorveglianza: quest'ultima, infatti, nel vagliare  la
 partecipazione all'opera di rieducazione, i progressi intervenuti nel
 corso  della stessa, la regolare condotta intramuraria del condannato
 dovra' attendere ad una valutazione intesa a verificare l'assenza  di
 strumentalita'  dei  suddetti  requisiti,  siccome  desumibile  dalla
 presenza di dissimulati collegamenti con la criminalita'  organizzata
 od  eversiva.  La  disciplina  prospettata  dal  legislatore opera un
 rilevante  discrimine  tra  le  due  categorie  sopra  enunziate:  la
 semplice  mancanza  di  elementi  di  riscontro  circa  l'ipotesi  di
 presenza di collegamenti attuali  con  la  criminalita'  organizzata,
 infatti,  potrebbe  in  teoria,  in  presenza  id  est,  degli  altri
 presupposti  e  requisiti  individuati   dalla   legge   di   riforma
 dell'ordinamento  penitenziario,  essere sufficiente all'accoglimento
 delle istanze presentate dai condannati di  cui  alla  seconda  delle
 suddette   categorie,   mentre  altrettanto  non  puo'  dirsi  per  i
 condannati di  cui  alla  prima  categoria,  nei  cui  confronti,  si
 rammenti,  sussiste  l'obbligo  di  acquisizione di positivi elementi
 atti a comprovare l'assenza dei collegamenti sopra richiamati.
    La particolare difficolta' di acquisizione dei prefati elementi di
 riscontro  (prova  positiva  dell'assenza  di  collegamenti  con   la
 criminalita'  organizzata),  di  cui si e' fatto cenno in altra parte
 del presente provvedimento, tale da configurare una  vera  e  propria
 probatio   diabolica,  produce  un  effetto,  a  giudizio  di  questo
 collegio,  di  depotenziamento  della  sfera  di  operativita'  delle
 opportunita'  risocializzatrici  offerte  a  tutti i condannati dalla
 legge di riforma  dell'ordinamento  penitenziario,  tale  da  indurre
 all'apprezzamento  di  un  profilo  di  contrasto  delle normativa in
 disamina con il precetto posto dal terzo  comma  dell'art.  27  della
 Costituzione,  secondo  cui  la  pena  deve  tendere al reinserimento
 sociale del reo. Si ponga, infatti, mente alla considerazione che  il
 primo  comma  dell'art.  4-  bis  o.p. preclude, nell'eventualita' di
 mancanza di elementi di riscontro atti a provare in termini  positivi
 l'assenza  di collegamenti con la criminalita' organizzata, l'accesso
 a tutti i piu' pregnanti strumenti di  trattamento  penitenziario,  i
 quali  implichino  contatti  con  l'ambito  extrapenitenziario ovvero
 diminuzioni del quantum di pena da espiare (permessi premiali, lavoro
 all'esterno,  misure   alternative   alla   detenzione,   liberazione
 condizionale  -  art.  2  del  d.-l.  n.  152/1991),  limitando,  nei
 confronti dei soggetti individuati dalla prima parte del primo  comma
 del  prefato  art.  4- bis o.p., il trattamento rieducativo alla sola
 offerta degli strumenti e delle opportunita' intramurarie, la cui re-
 ale efficacia a fini rieducativi (o,  quanto  meno,  di  contenimento
 degli  effetti  desocializzanti  della  pena  detentiva)  ha  destato
 perplessita' nella dottrina penalistica e criminologica sin da  tempi
 risalenti   (quanto   meno  dall'epoca  di  insorgenza  del  problema
 dell'individuazione  di  sanzioni  alternative  alla  pena  detentiva
 tradizionale).  Si  rammenti  che  autorevolissima dottrina, in epoca
 coeva  all'entrata  in vigore della legge di riforma dell'ordinamento
 penitenziario, asseriva che " .. chi avesse pensato originalmente  ed
 essenzialmente  la pena in funzione puramente rieducativa non avrebbe
 mai fatto assurgere a  pena  fondamentale  dell'ordinamento  la  pena
 carceraria".
   L'esperienza  quotidiana  dei tribunali di sorveglianza insegna che
 nella stragrande maggioranza dei casi la  richiesta  di  informazioni
 circa  l'attualita'  di  collegamenti con la criminalita' organizzata
 sortisce l'acquisizione di risposte  attestanti  l'impossibilita'  di
 reperimento di elementi atti a consustanziare l'ipotesi di assenza di
 tali  collegamenti  (del  tipo:  "allo  stato  attuale  non  si hanno
 elementi per  escludere  che  il  condannato  sia  collegato  con  la
 criminalita'  organizzata"  ovvero,  nella  migliore  delle  ipotesi,
 asserenti in maniera apodittica, id  est  priva  dell'indicazione  di
 concreti risconti, il collegamento con ben determinate organizzazioni
 criminali:  ai  fini che ne occupano, per vero, informative del primo
 tipo risultano sufficienti ad indurre ad un  rigetto  delle  istanze,
 proposte dai condannati individuati dalla prima parte del primo comma
 dell'art.  4- bis o.p., intese all'accesso agli strumenti trattamenti
 sopra   richiamati.   Appare   in   tutta   evidenza   l'effetto   di
 disincentivazione   alla   cooperazione   al   semplice   trattamento
 intramurario, la cui efficacia risocializzatrice viene, per tal  via,
 ad  essere compromessa in manier pressoche' totale: si ponga, ancora,
 mente alla  natura  di  stimolo  incentivante  alla  condivisione  di
 metodiche  e  tematiche  trattamentali  proprie  dell'istituto  della
 riduzione di pena per  liberazione  anticipata,  gia'  menzionata  in
 altra parte del presente provvedimento.
    Alle   osservazioni   che   precedono  potra'  obiettarsi  che  il
 legislatore, nell'ambito della propria discrezionalita', e' libero di
 introdurre normative che abbiano lo scopo  di  rinsaldare  la  natura
 generalpreventiva  della  sanzione  penale  e  la  funzione di difesa
 sociale   della   pena   detentiva:   cio'   appare    di    indubbia
 incontrovertibilita',  ma si rivela, altresi', necessario spingere il
 vaglio  della  normativa  ordinaria  sino  al  punto  di   constatare
 l'eventualita' di obliterazione, da parte della stessa della funzione
 rieducativa  della  pena, che' il completo sacrificio della stessa, a
 vantaggio delle altre funzioni sopra ricordate, appare  in  conflitto
 con  il  disposto dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione. Vero
 e' che, secondo le statuizioni  della  consulta,  la  pena  detentiva
 appare  rivestire  una natura polifunzionale (v. Corte costituzionale
 2-4 aprile 1985, n. 102, pres. Elia, rel. Saja,  Marzucchi,  Roberti,
 Cristelli,   in   Cass.   pen.   1985,   pag.  1322  e  segg.;  Corte
 costituzionale, 8-25 maggio  1985,  n.  169,  pres.  Roherssen,  rel.
 Paladin,  Branchesi,  in  cass.  pen. 1985, pag. 1779 e segg.), ma la
 corrente esegetica che, in ossequio alla finalita'  plurisatisfattiva
 della  sanzione  penale,  interpreta  il  precetto  costituzionale in
 maniera tale da limitarne l'ambito di operativita'  alla  sola  sfera
 del  trattamento  penitenziario  appare smentita da recente pronunzia
 della Corte costituzionale (Corte costituzionale, sent.  26  giugno-2
 luglio  1990,  n.  313,  pres.  Saja,  rel.  Gallo,  Milano, Voraldo,
 Quartarone, in Gazzetta Ufficiale  prima  serie  speciale,  4  luglio
 1990, n. 27, pag. 9 e segg.), secondo cui: " .. incidendo la pena sui
 diritti   di   chi   vi   e'   sottoposto,   non  puo'  negarsi  che,
 indipendentemente  da  una  considerazione  retributiva,  essa  abbia
 necessariamente anche caratteri in qualche misura afflittivi.
    Cosi'  come  e'  vero  che alla sua natura ineriscano caratteri di
 difesa sociale, e anche di  prevenzione  generale  per  quella  certa
 intimidazione  che  esercita  sul calcolo utilitaristico di colui che
 delinque. Ma,  per  una  parte  (afflittivita',  retributivita'),  si
 tratta  di  profili che riflettono quelle condizioni minime, senza le
 quali la pena  cesserebbe  di  essere  tale.  Per  altra  parte,  poi
 (reintegrazione,  intimidazione, difesa sociale), si tratta bensi' di
 valori che  hanno  un  fondamento  costituzionale,  ma  non  tale  da
 autorizzare  il pregiudizio della finalita' rieducativa espressamente
 consacrata dalla Costituzione nel contesto dell'istituto della  pena.
 Se  la finalizzazione venisse orientata verso quei diversi caratteri,
 anziche' al  principio  rieducativo,  si  correrebbe  il  rischio  di
 strumentalizzare  l'individuo per fini generali di politica criminale
 (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di  bisogni
 collettivi  di  stabilita' e sicurezza (difesa sociale), sacrificando
 il singolo attraverso l'esemplarita' della sanzione.  E'  per  questo
 che,  in  uno Stato evoluto, la finalita' rieducativa non puo' essere
 ritenuta estranea alla legittimazione e alla  funzione  stesse  della
 pena.
    L'esperienza  successiva ha, infatti, dimostrato che la necessita'
 costituzionale che la pena debba 'tendere'  a  rieducare,  lungi  dal
 rappresentare   una   mera   generica   tendenza   riferita  al  solo
 trattamento, indica invece proprio una delle  qualita'  essenziali  e
 generali  che  caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e
 l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta  previsione  normativa,
 fino  a  quando  in concreto si estingue. Cio' che il verbo 'tendere'
 vuole significare e' soltanto la presa d'atto della divaricazione che
 nella prassi puo' verificarsi tra quella finalita'  e  l'adesione  di
 fatto del destinatario al processo di rieducazione; com'e' dimostrato
 dall'istituto  che  fa  corrispondere  benefici di decurtazione della
 pena ogniqualvolta, e nei limiti  temporali,  in  cui  quell'adesione
 concretamente  si manifesti (liberazione anticipata). Se la finalita'
 rieducativa venisse limitata alla sola fase  esecutiva,  rischierebbe
 grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non
 fossero  state  calibrate  (ne'  in  sede  normativa  ne'  in  quella
 applicativa) alle necessita' rieducative del soggetto".
    La lunga citazione e' apparsa  necessaria  non  quale  sfoggio  di
 pedanteria,   bensi'   onde   operare   un  richiamo  alla  forte  ed
 autorevolissima sottolineatura della funzione della sanzione  penale,
 vieppiu' necessaria in un'epoca, come quella presente, caratterizzata
 da  appannamento  e  da  confusione  circa la riflessione sugli scopi
 della pena detentiva e da prese di posizione dettate  non  da  rigore
 scientifico,  ma,  apparentemente, dalla necessita' di operare scelte
 di politica criminale  dettate  dall'esigenza  del  momento.  Orbene,
 quanto  statuito  dalla  consulta  appare  sufficiente a far dubitare
 della legittimita' della disciplina di cui alla prima parte del primo
 comma dell'art. 4- bis o.p. per contrasto con il precetto  del  terzo
 comma  dell'art.  27  della  Costituzione:  la  subordinazione  della
 concessione di un istituto quale la riduzione di pena per liberazione
 anticipata  all'acquisizione  di  prove  positive   dell'assenza   di
 collegamenti attuali con la criminalita' organizzata, la creazione in
 capo ai soggetti indicati dalla prima parte del primo comma dell'art.
 4- bis o.p. di una presunzione di attualita' dei prefati collegamenti
 si  risolvono  in  una presunzione di impraticabilita', nei confronti
 dei predetti soggetti, di uno tra i piu' pregnanti tra gli  strumenti
 del  trattamento  penitenziario,  la  cui  concessione, peraltro, non
 appare piu', alla stregua della novella  di  cui  all'art.  18  della
 legge 10 ottobre 1986, n. 663, discrezionale, sibbene doverosa (fatta
 sempre salva la necessita' di accertare giudizialmente la sussistenza
 dei  presupposti  di  legge)  (v.  Corte costituzionale, 23-31 maggio
 1990, n.  276, pres. Saja, rel. Gallo, Calore ed altro, in Cass. pen.
 1991, m.  2, pag. 4 e segg.). Siffattamente operando si  perviene  ad
 una  svalutazione  della finalita' rieducativa della pena proprio nel
 momento  rispetto  al  quale  la  stessa  appare,  anche  secondo   i
 sostenitori  della  teoria  che  si  potrebbe definire "minimalista",
 maggiormente  connaturata,  id  est  quello  dell'esecuzione  e   del
 trattamento  penitenziario. Non si nasconde questo collegio la trista
 realta' della sussistenza di condannati che,  strumentalmente  agendo
 al  fine  di  conseguire  alleggerimenti  della posizione espiatoria,
 simulano  una  condotta  osservante  dei  canoni  di   partecipazione
 all'attivita' trattamentale, dissimulando, viceversa, connessioni con
 pericolose organizzazioni criminali: allo scopo, peraltro, di evitare
 che  siffatti  soggetti  beneficino  dell'ammissione  agli astrumenti
 trattamentali  ed  alle  misure  alternative  appare   adeguata   una
 disciplina  tal quale quella predisposta dal legislatore del 1991 nei
 confronti  della  seconda  delle  due  categorie  di  detenuti  sopra
 richiamate  ed  individuata  dalla  seconda  parte  del  primo  comma
 dell'art. 4-bis o.p., della cui legittimita'  costituzionale  non  si
 dubita:  sembra  cioe',  sufficiente  indicare  un  particolare  iter
 istruttorio  alla  magistratura  di  sorveglianza,   svincolando   il
 giudizio  della stessa da rigidi automatismi e permettendo la ricerca
 e la valutazione di concreti elementi di riscontro atti a  comprovare
 in  positivo la presenza di legami con la criminalita' organizzata od
 eversiva.
    Viceversa,  la  statuizione  di  una  presunzione  qualificata  di
 attualita'  dei predetti collegamenti (quasi che per i condannati per
 alcuni  particolari  titoli  delittuosi  la  permanenza  del  vincolo
 associativo  fosse  in  re  ipsa),  superabile  soltanto  mediante la
 acquisizione, peraltro di quasi  impossibile  verificazione  pratica,
 siccome  sopra  ricordato, di positivi elementi dell'assenza dei gia'
 piu' volte menzionati collegamenti con  la  criminalita'  organizzata
 appare  escogitazione  legislativa  tale  da  svilire  il trattamento
 penitenziario  dei  soggetti  sopra  individuati  sino  al  punto  di
 obliterare  la  funzione  rieducativa  dello  stesso,  la cui massima
 esplicazione, secondo quanto asserito dalla stessa consulta (v. Corte
 costituzionale, sentenza  26  giugno-2  luglio  1990,  n.  313,  gia'
 citata),  si  manifesta nell'istituto disciplinato dall'art. 54 della
 legge 26 luglio 1975, n. 354 e succ. mod. Appare opportuno ricordare,
 a tal proposito, che, nella vigenza dell'originaria legge di  riforma
 dell'ordinamento  penitenziario,  in  epoca,  cioe', antecedente alle
 modifiche  apportate  dalla  legge  10  ottobre  1986,  n.  663,   la
 sussistenza  di  preclusioni  alla  fruibilita' di misure alternative
 quali l'affidamento in prova al servizio sociale  e  la  semiliberta'
 (derivanti  dalla  presenza di dichiarazioni di recidiva ovvero dalla
 commissione di particolari delitti) venne giudicata non completamente
 confliggente con il precetto di cui al terzo comma dell'art. 27 della
 Costituzione proprio in virtu'  della  possibilita'  di  adizione  di
 altri  strumenti  del  trattamento  penitenziario: si rammenti che la
 possibilita' di ammissione alla prestazione  di  mansioni  lavorative
 all'esterno  dell'istituto  di  pena  non  ha  mai preveduto, sino al
 gennaio 1991, la sussistenza di titoli di reato ostativi alla  stessa
 e   che  la  previsione  normativa  che  stabiliva  che  il  detenuto
 condannato per determinate fattispecie delittuose non  potesse  adire
 l'istituto  della  riduzione di pena per liberazione anticipata venne
 abrogata mediante la legge 12 gennaio 1977, n. 1, la quale, peraltro,
 introdusse rilevanti restrizioni ad  altri  istituti  dell'originaria
 legge   di  riforma  dell'ordinamento  penitenziario,  essendo  stata
 promulgata  in  un  momento  storico  caratterizzato  da  particolare
 disfavore  nei  confronti degli istituti del trattamento rieducativo.
 Orbene, la prima parte del primo comma dell'art. 4- bis  della  legge
 26  luglio  1975,  n. 354 e succ. mod., mediante la prefigurazione in
 capo ai soggetti in essa individuati (condannati per delitti commessi
 per  finalita'  di  terrorismo  o   di   eversione   dell'ordinamento
 costituzionale,  per  delitti  commessi  avvalendosi delle condizioni
 previste dall'art. 416- bis del c.p.  ovvero  al  fine  di  agevolare
 l'attivita'   delle  associazioni  previste  dallo  stesso  articolo,
 nonche' per i delitti di cui agli artt. 416-  bise  630  del  c.p.  e
 all'art.  74  del  testo  unico  delle leggi in materia di disciplina
 degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, prevenzione,  cura  e
 riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con
 d.P.R.  9  ottobre  1990,  n.  309) di una presunzione qualificata di
 attualita'  di  collegamenti   con   la   criminalita'   organizzata,
 superabile  soltanto  attraverso  la  prova  positiva  di assenza dei
 collegamenti  stessi,  peraltro   di   assai   difficile   (ove   non
 impossibile) acquisizione, pone un ostacolo alla fruizione di uno tra
 i  piu'  pregnanti  strumenti del trattamento penitenziario, quale la
 riduzione di pena per  liberazione  anticipata,  si'  da  svilire  la
 finalita'  rieducativa della sanzione penale, sin quasi ad una totale
 obliterazione della stessa, in un  momento  particolarmente  connesso
 alla   finalita'   suddetta,   come   quello  dell'esecuzione  e  del
 trattamento: da cio' desumesi un vulnus  del  procetto  statuito  dal
 terzo  comma  dell'art. 27 della Costituzione, tale da indurre questo
 collegio ad apprezzare la necessita' di procedere ad  una  rimessione
 degli atti alla Corte costituzionale.
   Ancora,  aggiungasi  che la disciplina predisposta dall'art. 4- bis
 della legge 26 luglio 1975, n. 354 e succ.  mod.  appare  confliggere
 anche  con  il  principio  di  eguaglianza  di  cui  all'art. 3 della
 Costituzione:   invero,   non   si   rinviene   alcuna    ragionevole
 giustificazione  della disparita' trattamentale riservata ai soggetti
 indicati dalla prima parte del primo  comma  dell'art.  4-  bis  o.p.
 rispetto a quelli individuati dalla seconda parte del medesimo comma,
 i  quali  potrebbero  risultare penalmente responsabili di delitti di
 non minore efferatezza e disvalore sociale (si pensi alla  situazione
 dell'autore   di   un   omicidio   premeditato,  magari  plurimo,  in
 comparazione a quella del correo di sequestro di persona a  scopo  di
 estorsione,   che   abbia   svolto,  nell'ambito  dell'organizzazione
 criminosa, mansioni di secondaria importanza) e, comunque, fruire  di
 un  trattamento piu' favorevole, poiche' nei loro confronti si rende,
 allo stato, necessaria l'acquisizione della prova della  presenza  di
 collegamenti  attuali  con  la  criminalita'  organizzata, tramite il
 reperimento di elementi di riscontro dettagliati  (v.  art.  4-  bis,
 seconda  parte, del primo comma, o.p.), si' che la mera assenza degli
 stessi non varrebbe, come per i soggetti di cui alla prima parte  del
 primo  comma  dell'art. 4- biso.p., a consustanziare una pronunzia di
 reiezione delle istanze intese all'ottenimento dei  "benefici"  della
 legge di riforma dell'ordinamento penitenziario.
    Cio'  detto  in  relazione  alla  non manifesta infondatezza della
 questione di legittimita' costituzionale,  occorre  sottolineare  gli
 elementi   sottesi  al  giudizio  di  rilevanza  della  stessa  nella
 procedura  presente:  basti,  a  tale  scopo,   riflettere   che   le
 informazioni  acquisite  per  il tramite del comitato provinciale per
 l'ordine e la  sicurezza  pubblica  di  Ascoli  Piceno  (v.  nota  n.
 1304/9B-1 redatta in data 13 febbraio 1992 dalla prefettura di Ascoli
 Piecno,  in  atti)  asseriscono  l'insussistenza di elementi idonei a
 comprovare  l'attualita'  di  collegamenti  del   Medaglia   con   la
 criminalita'  organizzata  (non  la  presenza,  si  badi, di positivi
 elementi di riscontro atti a  comprovare  l'assenza  di  collegamenti
 attuali  ovvero  l'intervenuta recisione di collegamenti passati, ove
 mai esistiti), aggiungendo  ulteriori  emergenze  (la  richiesta,  da
 parte   del   dipartimento   dell'amministrazione  penitenziaria,  in
 occasione di una traduzione, per motivi di giustizia, del  condannato
 presso  la  casa  circondariale  di  Cosenza,  di  predisposizione di
 particolari cautele di vigilanza esterna all'istituto  di  pena),  le
 quali,  invero,  non risultano particolarmente significative, ai fini
 che ne occupano, essendo state impartite nell'ambito dell'adozione di
 una prassi di ruotine inerente alle traduzioni di  tutti  i  detenuti
 provenienti  dal  circuito  carcerario a maggiore indice di vigilanza
 cautelativo, come desumibile dal modulo utilizzato per  impartire  le
 summenzionate     disposizioni     (v.    nota    del    dipartimento
 dell'amministrazione penitenziaria, in atti). Stante  la  presunzione
 di   attualita'  di  collegamenti  con  la  criminalita'  organizzata
 gravante in capo ai soggetti sopra individuati (quindi anche in  capo
 al  Medaglia  Francesco,  condannato,  si  rammenti,  per concorso in
 sequestro di persona a scopo di  estorsione)  l'informativa  predetta
 appare  sufficiente  allo  scopo  di  consustanziare una pronunzia di
 reiezione dell'istanza intesa all'ottenimento  di  una  riduzione  di
 pena  per  liberazione  anticipata,  senza, invero, rendere necessari
 ulteriori,   piu'   approfonditi   accertamenti   circa   l'effettiva
 sussistenza  dei  denunziati  collegamenti  (la  quale,  va  da  se',
 escluderebbe   l'apprezzamento   di   un'adesione   alle    tematiche
 trattamentali),  siccome  sarebbe,  viceversa,  opportuno  laddove la
 disciplina legislativa fosse analoga a quella prevista per i soggetti
 individuati nella seconda parte del primo comma dell'art. 4- bis o.p.