IL PRETORE
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza nella causa previdenziale
 promossa  da  Tamboroni  Rosina,  rappresentata  e  difesa  dall'avv.
 Luciano  Patronio  contro l'I.N.P.S. rappresentato e difeso dall'avv.
 Domenico Liveri.
    Con ricorso depositato il 27  settembre  1991,  Tamboroni  Rosina,
 titolare  sia di pensione diretta integrata al trattamento minimo che
 di pensione di reversibilita', chiedeva la riliquidazione  di  questa
 con  l'integrazione  al minimo di tempo in tempo in vigore fino al 30
 settembre 1983  e,  nell'importo  cristallizzato  alla  data  del  30
 settembre, dal 1› ottobre 1983 in poi, con la rivalutazione monetaria
 e gli interessi legali sugli arretrati.
    Si  costituiva  in  giudizio l'I.N.P.S. chiedendo il rigetto della
 domanda; eccepiva che secondo la disposizione dell'art. 6  del  d.-l.
 n.  103/1991  era  intervenuta la decadenza prevista dall'art. 47 del
 d.P.R. n. 639/1970, con gli effetti ricollegativi dall'art. 6,  primo
 e  secondo  comma,  del  d.-l.  n.  103/1991,  convertito in legge n.
 166/1991.
    In ordine alla c.d. cristallizzazione ivocava il d.-l. 21  gennaio
 1992,  n.  14,  art.  4,  interpretativo dell'art. 6, quinto, sesto e
 settimo comma, della legge n. 638/1983, mentre per  la  richiesta  di
 cumula  fra  interessi  e rivalutazione monetaria invocava l'art. 16,
 sesto comma, della legge n. 412/1991.
    Eccepita  dal  procuratore   della   ricorrente   l'illegittimita'
 costituzionale   delle   norme  dall'I.N.P.S.  invocate,  il  pretore
 riservava la decisione.
    In atto risulta che la Tamboroni e' titolare dal 1› febbraio  1971
 della  pensione diretta cat. IO n. 60001189, integrata al minimo; dal
 1›  marzo  1973  e'  divenuta  titolare  anche  della   pensione   di
 reversibilita'  pagata  "a  calcolo".  A  seguito  della  sentenza n.
 314/1985 della Corte  costituzionale,  il  13  febbraio  1986  chiese
 l'integrazione  al minimo della pensione di reversibilita'; l'istanza
 fu rigettata dall'I.N.P.S. il 12 giugno 1990 perche' era  decorso  il
 termine   decennale   per  la  proposizione  dell'azione  giudiziaria
 previsto dall'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970.
    Fu presentato ricorso il 2 luglio 1990, ma il comitato provinciale
 non provvide. Il 27 settembre 1991  e'  stata  iniziata  la  presente
 causa.
    L'accoglimento  della  domanda e' impedito da una serie di recenti
 norme  la  cui  legittimita'  costituzionale  e'   stata   posta   in
 discussione  ed  il  pretore  non ritiene le questioni manifestamente
 infondate.
    Con ordinanza 2 dicembre 1991 questo pretore ha gia' sottoposto al
 giudizio della Corte costituzionale l'art. 6, primo e secondo  comma,
 del  d.-l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito in legge 1› giugno 1991,
 n. 166, per contrasto con gli artt. 3, 38 e 136 della Costituzione.
    Le sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 6245
 del  21  giugno 1990 (con interpretazione condivisa anche dalla Corte
 costituzionale con la sentenza n. 126  del  26  marzo  1991)  avevano
 ritenuto  che il termine previsto dall'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970
 e' di decadenza ma con effetti solo di tipo  procedimentale  e  senza
 effetti sostanziali nel senso che, decorso il decennio senza l'inizio
 dell'azione  giudiziaria,  l'interessato  ha solo l'onere di proporre
 una nuova domanda amministrativa  che,  avendo  effetto  interruttivo
 della  prescrizione decennale, consente la richiesta delle differenze
 di importo delle pensioni per i dieci anni precedenti.
    Poiche'  la  ricorrente  aveva  richiesto  in  via  amministrativa
 l'integrazione   al   minimo   il   13  febbraio  1986,  eccepita  la
 prescrizione, si sarebbero potute liquidare tutte le differenze rela-
 tive ai ratei dal marzo 1976 al 30 settembre 1983.
    Dopo che con precedenti decreti legge,  non  convertiti  in  legge
 (nn. 259 e 338 del 1990 e 29/1991), si era cercato di attribuire alla
 suddetta  decadenza  effetti sostanziali con norma di interpretazione
 autentica dell'art.  47  citato,  l'art.  6  del  d.-l.  n.  103/1991
 convertito  in  legge  n.  166/1991,  sotto  la rubrica "Regime delle
 prescrizioni delle prestazioni previdenziali", ha cosi' disposto:  "I
 termini  previsti  dall'art. 47, commi secondo e terzo, del d.P.R. 30
 aprile 1970, n. 639, sono posti a pena di decadenza  per  l'esercizio
 del  diritto  alla  prestazione previdenziale. La decadenza determina
 l'estinzione  del  diritto  ai  ratei  pregressi  delle   prestazioni
 previdenziali e l'inammissibilita' della relativa domanda giudiziale.
    In  caso  di  mancata  proposizione  del ricorso amministrativo, i
 termini decorrono dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei".  "Le
 disposizioni  di  cui  al primo comma hanno efficacia retroattiva, ma
 non si applicano ai processi che sono in corso alla data  di  entrata
 in vigore del presente decreto".
    La norma e' oscura e la sua interpretazione non e' facile.
    Innanzi  tutto  va  escluso che si tratti di norma interpretativa.
 Cosi' era stata definita solo quella contenuta nel d.-l. n.  259/1990
 e  la  dimostra  anche  l'espressa  dichiarazione  di retroattivita',
 peraltro esclusa per i giudizi in corso, che per le norme interpreta-
 tive e' inutile.
    In secondo luogo si  deve  escludere  che  il  decorso  del  tempo
 importi   l'intangibilita'  della  pensione  come  gia'  liquidata  e
 l'impossibilita' di richiederne anche per il futuro la riliquidazione
 con l'integrazione al minimo, sia  pure  nell'importo  cristallizzato
 alla data del 1› ottobre 1983. E' da tempo assolutamente pacifico che
 il  diritto  a  pensione  (e cioe' il diritto a percepire la pensione
 nell'importo determinato dalle  leggi  vigenti)  e'  imprescrittibile
 perche'  indisponibile,  in base alle disposizioni dell'art. 2934 del
 c.c., coordinato con gli artt.  128,  primo  comma,  del  r.d.-l.  n.
 1827/1935  e  69  della legge n. 153/1969 che escludono o limitano la
 cedibilita', sequestrabilita' e pignorabilita' delle pensioni  e  con
 l'art.  2115,  terzo  comma,  del  c.c.,  stante  anche  la rilevanza
 costituzionale ex  art.  38  degli  interessi  protetti  (Cassazione,
 sezioni  unite  6245/90  cit.).  E'  per questo che gli effetti della
 "decadenza   per   l'esercizio   del   diritto    alla    prestazione
 previdenziale",  di  cui  alla  prima  parte dell'art. 6 cit., devono
 intendersi limitati a quanto dice in prosieguo lo stesso  articolo  e
 cioe'  che "la decadenza determina (solo) l'estinzione del diritto ai
 ratei  pregressi";  non  e'  lecito  attribuire  alla  norma  portata
 sostanziale piu' ampia.
    Neppure  potrebbe  sostenersi che l'istanza 13 febbraio 1986 debba
 essere ritenuta come ricorso amministrativo con la conseguenza che  a
 partire  da  quando esso e' stato respinto inizierebbe a decorrere il
 termine decadenziale.
    Non sembra si possa dubitare che lo  scopo  principale  propostosi
 dal  legislatore  del 1991 e' stato quello di limitare gli aggravi di
 spesa  conseguenti  all'effetto  retroattivo   delle   decisioni   di
 incostituzionalita'; secondo l'interpretazione su accennata, lo scopo
 non sarebbe di fatto raggiungibile.
    Va inoltre ricordato che l'art. 6 della legge n. 166/1991 menziona
 i  termini  previsti  dall'art.  47 del d.P.R. n. 639/1970, ma questa
 norma, quando parla di "ricorso", non allude a quello proponibile  in
 ogni  tempo  secondo  l'art.  8  della legge n. 533/1973, ma a quello
 previsto e regolato dalle norme che la precedono. Gli artt. 44, 45  e
 46  del  d.P.R.  n.  639/1970,  sotto  il  titolo  terzo  "Ricorsi  e
 controversie in materia previdenziale", prevedono termini precisi per
 la loro proposizione.
    Una volta ripudiato  il  sistema  della  cosiddetta  giurisdizione
 condizionata,  il  decorso  di  questi  termini non puo' importare la
 perdita del diritto a pensione  che  e'  imprescrittibile;  cio'  non
 toglie che, una volta prevista una procedura amministrativa diretta a
 provocare  un  controllo  interno per un'eventuale composizione della
 vertenza  in  modo  rapido  ed  economico,  abbia  ancora  senso   la
 previsione   di   termini  ristretti  decorsi  i  quali  la  pubblica
 amministrazione  possa   considerare   le   pratiche   concluse   per
 archiviarle.
    E'   anche   il   caso   di  ricordare  il  particolare  interesse
 dell'ordinamento a che  si  svolga  questa  procedura  tanto  che  il
 giudizio  eventualmente  iniziato  prima  della  sua conclusione deve
 essere sospeso (art. 443 del c.p.c.).
    Chiarito che il ricorso cui fa riferimento l'art. 6 della legge n.
 166/1991 e' quello previsto dagli artt. 44, 45 e  46  del  d.P.R.  n.
 639/1970  va  detto che la ricorrente non ebbe a presentarlo, ne' del
 resto c'era motivo perche' l'originario provvedimento di liquidazione
 della pensione era conforme alle leggi all'epoca vigenti.
    L'ipotesi oggetto di questo  giudizio  e'  quindi  regolata  dalla
 seconda parte del primo comma dell'art. 6 cit.
    A  questo  proposito  non  si  puo'  sostenere che il diritto alla
 percezione dei singoli ratei di cui parla la norma  in  esame,  sorga
 volta  per  volta spostandosi avanti continuamente mese per mese, con
 la conseguenza che  si  protrebbero  richiedere  tutti  i  ratei  non
 prescritti dal marzo 1976.
    Innanzitutto  si  verrebbe  a creare un'assoluta ed ingiustificata
 disparita' di trattamento fra chi  presento'  il  ricorso  contro  il
 provvedimento  di  liquidazione  della  pensione e chi vi fece invece
 acquiescenza. In secondo luogo  l'intento  del  legislatore,  che,  a
 differenza  delle espressioni usate che sono quanto mai equivoche, e'
 invece ben chiaro, sarebbe inspiegabilmente frustrato. In terzo luogo
 sembra da seguire l'interpretazione dell'I.N.P.S. (circolare  n.  244
 dell'11  ottobre  1991)  che  propone  di  distinguere  il  diritto a
 pensione "astrattamente esistente al verificarsi dei  presupposti  di
 legge   ed   indipendentemente  dalla  presentazione  della  relativa
 domanda", dal "diritto alla erogazione dei singoli ratei" che nasce a
 seguito  dall'accoglimento  della domanda di pensione. La conseguenza
 e' che, nell'ipotesi in cui non  sia  stato  presentato  ricorso,  il
 termine  decennale  inizia  a  decorrere  dal momento in cui e' stato
 emesso il provvedimento di liquidazione della pensione.
    Interpretata in questo modo la  disposizione  di  cui  all'art.  6
 della  legge  n.  166/1991,  i dubbi sulla sua costituzionalita' sono
 molti e fondati.
    Gia'  il  pretore  di  Sanremo  (ordinanza  14  giugno  1991)   ha
 sospettato  di  incostituzionalita'  la norma in relazione all'art. 3
 della Costituzione in quanto discrimina in relazione ad un fatto  del
 tutto  estrinseco  e  non  significativo,  ai  fini  della necessaria
 salvaguardia dei diritti quesiti, quale quello della proposizione  di
 un giudizio.
    Ulteriore  contrasto con l'art. 3 emerge dal fatto che, seppure e'
 possibile per il legislatore emanare norme retroattive, nel  caso  di
 specie  non  e'  stata  dettata  una  qualche  disciplina transitoria
 diretta   a   salvare   quelle   situazioni   pregresse,   sia   pure
 caratterizzate  da  una  certa inerzia ma per le quali, essendo stata
 interrotta la prescrizione, era  inconcepibile  ed  imprevedibile  la
 perdita  del  diritto  sostanziale,  da  riternersi  gia' entrato nel
 patrimonio  del   titolare.   La   scelta   legislativa   oltre   che
 discriminatoria  e'  anche irrazionale perche' ricollega l'effetto di
 una irrimediabile perdita del diritto ad un fatto che quando fu posto
 in essere non poteva produrre tale effetto.
    Per lo stesso motivo la norma sembra contrastare anche con  l'art.
 38  della  Costituzione  perche'  produce gli effetti di cui sopra in
 danno di soggetti deboli e  riconosciuti  meritevoli  di  particolare
 tutela.
    La  stessa  Corte  costituzionale,  con  la sentenza n. 822 del 14
 luglio 1988, ha  precisato  i  limiti  che  il  legislatore  incontra
 nell'intervenire     nei    rapporti    di    durata    modificandoli
 sfavorevolmente, nel  senso  che  le  disposizioni  retroattive  "non
 possono  trasmodare  in un regolamento irrazionale ed arbitrariamente
 incidere sulle  situazioni  sostanziali  poste  in  essere  da  leggi
 precedenti,  frustando  cosi' anche l'affidamento del cittadino nella
 sicurezza  pubblica  che   costituisce   elemento   fondamentale   ed
 indispensabile dello stato di diritto.
    Anche  se deve ritenersi ammissibile un intervento legislativo che
 modifichi  l'ordinamento  pubblicistico  delle  pensioni,  non  puo',
 pero',    ammettersi   che   detto   intervento   sia   assolutamente
 discrezionale.  In  particolare  non  puo'   dirsi   consentita   una
 modificazione  legislativa che, intervenendo in una fase avanzata del
 rapporto di lavoro oppure quando gia'  sia  subentrato  lo  stato  di
 quiescenza,  peggiorasse,  senza una inderogabile esigenza, in misura
 notevole ed in maniera definitiva, un  trattamento  pensionistico  in
 precedenza  spettante, con al conseguente irrimediabile vanificazione
 delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il  tempo
 successivo alla cessazione della propria attivita' lavorativa".
    La   norma   sembra  in  contrasto  anche  con  l'art.  136  della
 Costituzione giacche' limita ed anzi  di  fatto  esclude  l'efficacia
 retroattiva delle sentenze della Corte costituzionale.
    La  stessa  avvocatura centrale dell'I.N.P.S., nella circolare 244
 dell'11  ottobre  1991,  riconosce  che  la  disposizione  e'   stata
 "presumibilmente    dettata   dall'esigenza   di   regolamentare   la
 applicazione retroattiva di sentenze della Corte  costituzionale  che
 possono  incidere  retroattivamente  sulla misura della pensione gia'
 liquidata".
   E' il caso di richiamare  una  fattispecie  che  presenta  notevoli
 analogie  con  quella in oggetto. Con la sentenza n. 139 del 7 maggio
 1984 la Corte costituzionale, nel dichiarare  illegittimo  l'art.  1,
 terzo comma, della legge 10 maggio 1978, n. 176, richiamato dall'art.
 15,  primo  comma  legge 3 maggio 1982, n. 203, cosi' testualmente ha
 motivato: "Le sentenze di accoglimento, in base al disposto dell'art.
 136 della Costituzione confermato dall'art. 30 della legge  11  marzo
 1953,  n.  87, operano ex tunc perche' producono i loro effetti anche
 sui rapporti sorti anteriormente  alla  pronuncia  di  illegittimita'
 sicche',  dal  giorno  successivo  alla  loro pubblicazione, le norme
 dichiarate incostituzionali non  possono  piu'  trovare  applicazione
 (salvo quanto discende dall'art. 25 della Costituzione per la materia
 penale).
    "Il principio, che suole essere enunciato con il ricorso alla for-
 mula  della  c.d.  'retroattivita''  di  dette  sentenze,  vale pero'
 soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente  esclusione
 di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata
 invalida.  Per  rapporti esauriti debbono certamente intendersi tutti
 quelli che sul piano processuale hano trovato la  loro  definitiva  e
 irretrattabile  conclusione mediante sentenza passata in giudicato, i
 cui effetti non  vengono  intaccati  dalla  successiva  pronuncia  di
 incostituzionalita'  (salvo quanto disposto per la materia penale dal
 cit.  art.  30).  Secondo  l'orientamento   talvolta   emerso   nella
 giurisprudenza  di  questa  Corte  (cfr.  sentenza  n.  58/1967) e il
 prevalente indirizzo dottrinale, vanno considerati esauriti  anche  i
 rapporti  rispetto  ai quali sia decorso il termine di prescrizione o
 di decadenza previsto dalla legge per l'esercizio di diritti ad  essi
 relativi.
    Ma   quando,   come   nell'ipotesi   considerata  dalla  normativa
 denunciata, detto termine e' pendente e quindi il creditore,  secondo
 i  principi generali puo' pretendere quanto ancora gli e' dovuto, non
 e' consentito al legislatore ordinario limitare la portata  dell'art.
 136  della  Costituzione,  sia  pure  ricorrendo,  come nella specie,
 all'espediente di introdurre un nuovo onere, non previsto al  momento
 dell'avvenuto  pagamento  parziale, e di escludere percio' l'acquisto
 del  diritto  successivamente  riconosciuto  dalla   legge   che   ha
 sostituito quella dichiarata invalida.
    Cosi'  operando,  il  legislatore,  in  realta', fa in modo che il
 rapporto oggetto  del  giudizio  principale  e  non  ancora  esaurito
 rimanga  illegittimamente  regolato  dalla norma annullata, riducendo
 indebitamente, l'operativita' dell'art. 136 della Costituzione".
    Anche gli artt. 101, 102 e 104 della Costituzione che garantiscono
 l'indipendenza  della  funzione  giurisdizionale  possono   ritenersi
 violati dalla norma in esame.
    La  seconda questione riguarda l'art. 16, sesto comma, della legge
 n. 412/1991  che  cosi'  dispone:  "Gli  enti  gestori  di  forme  di
 previdenza  obbligatoria  sono  tenuti  a corrispondere gli interessi
 legali, sulle prestazioni dovute, a decorrere dalla data di  scadenza
 del  termine previsto per l'adozione del provvedimento sulla domanda.
 L'importo dovuto a titolo di interessi e' portato in detrazione dalle
 somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito  dal
 titolare  della  prestazione  per  la  diminuzione del valore del suo
 credito".
    La disposizione appare in contrasto con gli artt. 3, primo  comma,
 38 secondo comma e 136 della Costituzione.
    Con   la   sentenza   n.   156  dell'8-12  aprile  1991  la  Corte
 costituzionale aveva gia' dichiarato l'illegittimita'  costituzionale
 dell'art.  442  del  c.p.c.  nella  parte  in  cui non prevede che il
 giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di  somme
 di  denaro  per crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale,
 deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior
 danno eventualmente subito del titolare per la diminuzione del valore
 del suo credito, applicando l'indice dei prezzi calcolato  dall'Istat
 per  la  scala  mobile  nel  settore  dell'Industria e condannando al
 pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno  in  cui  si
 sono verificate le condizioni legali di responsabilita' dell'istituto
 o ente debitore per il ritardo dell'adempimento.
    Con  la  norma  in  oggetto  la  sentenza e' stata posta nel nulla
 ripristinando di fatto, senza alcun  altro  intervento  di  revisione
 generale della materia, la norma gia' dichiarata incostituzionale.
    E'  sufficiente  richiamare  le  argomentazioni  gia' svolte dalla
 Corte costituzionale nella sentenza n. 156/1991  per  evidenziare  il
 contrasto  con  gli artt. 3 e 38, e quelle gia' svolte nella presente
 ordinanza in merito ai poteri del legislatore in relazione  a  quelli
 della Corte costituzionale.
    Il  terzo problema riguarda l'interpretazione dell'art. 6, settimo
 comma, d.-l. n. 463/1983 convertito in legge n. 638/1983.
    La ricorrente oltre a  chiedere  l'integrazione  al  minimo  anche
 sulla  pensione  di  reversibilita' fino al 30 settembre 1983, chiede
 che anche dopo il 1› ottobre 1983 questa venga mantenuta nell'importo
 erogato alla data del 30 settembre fino a che esso non venga superato
 per effetto del meccanismo di adeguamento. Si tratta dell'effetto che
 comunemente viene definito come "congelamento" o  "cristallizzazione"
 del trattamento minimo.
    La     giurisprudenza    era    ormai    pacificamente    concorde
 nell'interpretare il settimo comma dell'art. 6 del d.-l. n.  463/1983
 come   riferito   a   qualsiasi   ipotesi   di  perdita  del  diritto
 all'integrazione al minimo e non limitato a  quella  di  perdita  per
 superamento  del  limite  di reddito (Cassazione 19 dicembre 1989, n.
 5720, seguita da varie altre numeri 3749 e 7315 del  1990  e  6192  e
 12139 del 1991 e Corte costituzionale 6-19 novembre 1991, n. 418 e n.
 21/1992).
    Pendente  questo  giudizio  e'  stata  emanata  una norma che pare
 impedire l'accoglimento della domanda per il periodo posteriore al 30
 settembre 1983, giacche' interpreta autenticamente l'art. 6,  settimo
 comma, nel senso contrario a quello ritenuto dalla giurisprudenza.
    L'art.  4,  primo  comma,  del d.-l. 21 gennaio 1992, n. 14, cosi'
 dispone: "L'art. 6, quinto, sesto  e  settimo  comma,  del  d.-l.  12
 settembre 1973, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11
 novembre  1983,  n.  638,  si  interpreta  nel  senso che nel caso di
 concorso di due o piu' pensioni integrate al trattamento minimo  liq-
 uidate  con  decorrenza  anteriore alla data di entrata in vigore del
 predetto decreto, l'importo del trattamento  minimo  vigente  a  tale
 data  e' conservato su una sola delle pensioni come individuata con i
 criteri previsti dal terzo comma dello stesso articolo".
    Come norma interpretativa ha certamente valore retroattivo.
    Non  pare  a  questo  pretore  che  la pendenza del termine per la
 conversione in legge del decreto-legge possa  impedire  di  rilevarne
 l'eventuale  incostituzionalita', trattandosi di atto avente forza di
 legge.
    La   norma,   pur   nella   discrezionalita'    del    legislatore
 nell'interpretare con valore retroattivo una precedente norma, appare
 in contrasto con gli artt. 3, 38 e 136 della Costituzione.
    Va  infatti  ricordato che la Corte costituzionale con la sentenza
 citata n. 418/1991 aveva ritenuto l'art. 6 della legge  n.  638/1983,
 non    contrastante   con   i   precetti   costituzionali   ma   solo
 interpretandolo in un  preciso  senso;  un'interpretazione  contraria
 porterebbe quindi alla sua dichiarazione di incostituzionalita'.
    Poiche'   il   d.-l.   n.   463/1983   introducendo   il   divieto
 dell'integrazione al minimo su piu' di una pensione non ha toccato le
 situazioni preesistenti (per le quali invece il divieto non  esisteva
 stante   la   dichiarata   incostituzionalita'  delle  norme  che  lo
 prevedevano) queste verrebbero oggi ad essere  limitate  dalla  nuova
 interpretazione,  che  viene  a ridurre quello che era stato ritenuto
 come necessario per garantire ai lavoratori mezzi adeguati alle  loro
 esigenze di vita (art. 38, secondo comma, della Costituzione). Sembra
 violato  anche  l'art.  136  Cost.  in  quanto,  di fatto, si viene a
 svuotare   di   contenuto   le   numerose   decisioni   della   Corte
 costituzionale  che  dichiararono illegittime le norme che impedivano
 la doppia integrazione, e  si  opera  in  contrasto  con  la  recente
 decisione n. 418/1991.
    Sembra   violato   anche   l'art.   3   della   Costituzione   per
 l'irrazionalita'  di  utilizzare  lo  strumento  dell'interpretazione
 autentica per effettuare una sostanziale modifica legislativa.
    Ritiene  il  pretore  che  possa  ritenersi  ipotizzata  anche una
 violazione dell'art. 77 dato che il decreto e'  stato  emanato  pochi
 giorni dopo l'entrata in vigore della legge 30 dicembre 1991, n. 412.
    Il  relativo progetto di legge del governo (v. Atti parlamentari -
 Senato della Repubblica - 3004) gia'  conteneva  all'art.  11,  primo
 comma,  la  norma  poi  trasfusa  nell'art.  4  del d.-l. n. 14/1992,
 identica anche nella sua formulazione letterale.
    Il fatto che essa non e' stata recepita nella  legge  n.  412/1991
 significa  che il Parlamento avera ritenuto il contrario, per cui non
 sembra che  il  governo  possa  dopo  pochi  giorni  imporre  con  lo
 strumento del decreto-legge una norma gia' respinta dal Parlamento.