IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa previdenziale promossa da Tamboroni Rosina, rappresentata e difesa dall'avv. Luciano Patronio contro l'I.N.P.S. rappresentato e difeso dall'avv. Domenico Liveri. Con ricorso depositato il 27 settembre 1991, Tamboroni Rosina, titolare sia di pensione diretta integrata al trattamento minimo che di pensione di reversibilita', chiedeva la riliquidazione di questa con l'integrazione al minimo di tempo in tempo in vigore fino al 30 settembre 1983 e, nell'importo cristallizzato alla data del 30 settembre, dal 1 ottobre 1983 in poi, con la rivalutazione monetaria e gli interessi legali sugli arretrati. Si costituiva in giudizio l'I.N.P.S. chiedendo il rigetto della domanda; eccepiva che secondo la disposizione dell'art. 6 del d.-l. n. 103/1991 era intervenuta la decadenza prevista dall'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970, con gli effetti ricollegativi dall'art. 6, primo e secondo comma, del d.-l. n. 103/1991, convertito in legge n. 166/1991. In ordine alla c.d. cristallizzazione ivocava il d.-l. 21 gennaio 1992, n. 14, art. 4, interpretativo dell'art. 6, quinto, sesto e settimo comma, della legge n. 638/1983, mentre per la richiesta di cumula fra interessi e rivalutazione monetaria invocava l'art. 16, sesto comma, della legge n. 412/1991. Eccepita dal procuratore della ricorrente l'illegittimita' costituzionale delle norme dall'I.N.P.S. invocate, il pretore riservava la decisione. In atto risulta che la Tamboroni e' titolare dal 1 febbraio 1971 della pensione diretta cat. IO n. 60001189, integrata al minimo; dal 1 marzo 1973 e' divenuta titolare anche della pensione di reversibilita' pagata "a calcolo". A seguito della sentenza n. 314/1985 della Corte costituzionale, il 13 febbraio 1986 chiese l'integrazione al minimo della pensione di reversibilita'; l'istanza fu rigettata dall'I.N.P.S. il 12 giugno 1990 perche' era decorso il termine decennale per la proposizione dell'azione giudiziaria previsto dall'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970. Fu presentato ricorso il 2 luglio 1990, ma il comitato provinciale non provvide. Il 27 settembre 1991 e' stata iniziata la presente causa. L'accoglimento della domanda e' impedito da una serie di recenti norme la cui legittimita' costituzionale e' stata posta in discussione ed il pretore non ritiene le questioni manifestamente infondate. Con ordinanza 2 dicembre 1991 questo pretore ha gia' sottoposto al giudizio della Corte costituzionale l'art. 6, primo e secondo comma, del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito in legge 1 giugno 1991, n. 166, per contrasto con gli artt. 3, 38 e 136 della Costituzione. Le sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 6245 del 21 giugno 1990 (con interpretazione condivisa anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 126 del 26 marzo 1991) avevano ritenuto che il termine previsto dall'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970 e' di decadenza ma con effetti solo di tipo procedimentale e senza effetti sostanziali nel senso che, decorso il decennio senza l'inizio dell'azione giudiziaria, l'interessato ha solo l'onere di proporre una nuova domanda amministrativa che, avendo effetto interruttivo della prescrizione decennale, consente la richiesta delle differenze di importo delle pensioni per i dieci anni precedenti. Poiche' la ricorrente aveva richiesto in via amministrativa l'integrazione al minimo il 13 febbraio 1986, eccepita la prescrizione, si sarebbero potute liquidare tutte le differenze rela- tive ai ratei dal marzo 1976 al 30 settembre 1983. Dopo che con precedenti decreti legge, non convertiti in legge (nn. 259 e 338 del 1990 e 29/1991), si era cercato di attribuire alla suddetta decadenza effetti sostanziali con norma di interpretazione autentica dell'art. 47 citato, l'art. 6 del d.-l. n. 103/1991 convertito in legge n. 166/1991, sotto la rubrica "Regime delle prescrizioni delle prestazioni previdenziali", ha cosi' disposto: "I termini previsti dall'art. 47, commi secondo e terzo, del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, sono posti a pena di decadenza per l'esercizio del diritto alla prestazione previdenziale. La decadenza determina l'estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni previdenziali e l'inammissibilita' della relativa domanda giudiziale. In caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo, i termini decorrono dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei". "Le disposizioni di cui al primo comma hanno efficacia retroattiva, ma non si applicano ai processi che sono in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto". La norma e' oscura e la sua interpretazione non e' facile. Innanzi tutto va escluso che si tratti di norma interpretativa. Cosi' era stata definita solo quella contenuta nel d.-l. n. 259/1990 e la dimostra anche l'espressa dichiarazione di retroattivita', peraltro esclusa per i giudizi in corso, che per le norme interpreta- tive e' inutile. In secondo luogo si deve escludere che il decorso del tempo importi l'intangibilita' della pensione come gia' liquidata e l'impossibilita' di richiederne anche per il futuro la riliquidazione con l'integrazione al minimo, sia pure nell'importo cristallizzato alla data del 1 ottobre 1983. E' da tempo assolutamente pacifico che il diritto a pensione (e cioe' il diritto a percepire la pensione nell'importo determinato dalle leggi vigenti) e' imprescrittibile perche' indisponibile, in base alle disposizioni dell'art. 2934 del c.c., coordinato con gli artt. 128, primo comma, del r.d.-l. n. 1827/1935 e 69 della legge n. 153/1969 che escludono o limitano la cedibilita', sequestrabilita' e pignorabilita' delle pensioni e con l'art. 2115, terzo comma, del c.c., stante anche la rilevanza costituzionale ex art. 38 degli interessi protetti (Cassazione, sezioni unite 6245/90 cit.). E' per questo che gli effetti della "decadenza per l'esercizio del diritto alla prestazione previdenziale", di cui alla prima parte dell'art. 6 cit., devono intendersi limitati a quanto dice in prosieguo lo stesso articolo e cioe' che "la decadenza determina (solo) l'estinzione del diritto ai ratei pregressi"; non e' lecito attribuire alla norma portata sostanziale piu' ampia. Neppure potrebbe sostenersi che l'istanza 13 febbraio 1986 debba essere ritenuta come ricorso amministrativo con la conseguenza che a partire da quando esso e' stato respinto inizierebbe a decorrere il termine decadenziale. Non sembra si possa dubitare che lo scopo principale propostosi dal legislatore del 1991 e' stato quello di limitare gli aggravi di spesa conseguenti all'effetto retroattivo delle decisioni di incostituzionalita'; secondo l'interpretazione su accennata, lo scopo non sarebbe di fatto raggiungibile. Va inoltre ricordato che l'art. 6 della legge n. 166/1991 menziona i termini previsti dall'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970, ma questa norma, quando parla di "ricorso", non allude a quello proponibile in ogni tempo secondo l'art. 8 della legge n. 533/1973, ma a quello previsto e regolato dalle norme che la precedono. Gli artt. 44, 45 e 46 del d.P.R. n. 639/1970, sotto il titolo terzo "Ricorsi e controversie in materia previdenziale", prevedono termini precisi per la loro proposizione. Una volta ripudiato il sistema della cosiddetta giurisdizione condizionata, il decorso di questi termini non puo' importare la perdita del diritto a pensione che e' imprescrittibile; cio' non toglie che, una volta prevista una procedura amministrativa diretta a provocare un controllo interno per un'eventuale composizione della vertenza in modo rapido ed economico, abbia ancora senso la previsione di termini ristretti decorsi i quali la pubblica amministrazione possa considerare le pratiche concluse per archiviarle. E' anche il caso di ricordare il particolare interesse dell'ordinamento a che si svolga questa procedura tanto che il giudizio eventualmente iniziato prima della sua conclusione deve essere sospeso (art. 443 del c.p.c.). Chiarito che il ricorso cui fa riferimento l'art. 6 della legge n. 166/1991 e' quello previsto dagli artt. 44, 45 e 46 del d.P.R. n. 639/1970 va detto che la ricorrente non ebbe a presentarlo, ne' del resto c'era motivo perche' l'originario provvedimento di liquidazione della pensione era conforme alle leggi all'epoca vigenti. L'ipotesi oggetto di questo giudizio e' quindi regolata dalla seconda parte del primo comma dell'art. 6 cit. A questo proposito non si puo' sostenere che il diritto alla percezione dei singoli ratei di cui parla la norma in esame, sorga volta per volta spostandosi avanti continuamente mese per mese, con la conseguenza che si protrebbero richiedere tutti i ratei non prescritti dal marzo 1976. Innanzitutto si verrebbe a creare un'assoluta ed ingiustificata disparita' di trattamento fra chi presento' il ricorso contro il provvedimento di liquidazione della pensione e chi vi fece invece acquiescenza. In secondo luogo l'intento del legislatore, che, a differenza delle espressioni usate che sono quanto mai equivoche, e' invece ben chiaro, sarebbe inspiegabilmente frustrato. In terzo luogo sembra da seguire l'interpretazione dell'I.N.P.S. (circolare n. 244 dell'11 ottobre 1991) che propone di distinguere il diritto a pensione "astrattamente esistente al verificarsi dei presupposti di legge ed indipendentemente dalla presentazione della relativa domanda", dal "diritto alla erogazione dei singoli ratei" che nasce a seguito dall'accoglimento della domanda di pensione. La conseguenza e' che, nell'ipotesi in cui non sia stato presentato ricorso, il termine decennale inizia a decorrere dal momento in cui e' stato emesso il provvedimento di liquidazione della pensione. Interpretata in questo modo la disposizione di cui all'art. 6 della legge n. 166/1991, i dubbi sulla sua costituzionalita' sono molti e fondati. Gia' il pretore di Sanremo (ordinanza 14 giugno 1991) ha sospettato di incostituzionalita' la norma in relazione all'art. 3 della Costituzione in quanto discrimina in relazione ad un fatto del tutto estrinseco e non significativo, ai fini della necessaria salvaguardia dei diritti quesiti, quale quello della proposizione di un giudizio. Ulteriore contrasto con l'art. 3 emerge dal fatto che, seppure e' possibile per il legislatore emanare norme retroattive, nel caso di specie non e' stata dettata una qualche disciplina transitoria diretta a salvare quelle situazioni pregresse, sia pure caratterizzate da una certa inerzia ma per le quali, essendo stata interrotta la prescrizione, era inconcepibile ed imprevedibile la perdita del diritto sostanziale, da riternersi gia' entrato nel patrimonio del titolare. La scelta legislativa oltre che discriminatoria e' anche irrazionale perche' ricollega l'effetto di una irrimediabile perdita del diritto ad un fatto che quando fu posto in essere non poteva produrre tale effetto. Per lo stesso motivo la norma sembra contrastare anche con l'art. 38 della Costituzione perche' produce gli effetti di cui sopra in danno di soggetti deboli e riconosciuti meritevoli di particolare tutela. La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 822 del 14 luglio 1988, ha precisato i limiti che il legislatore incontra nell'intervenire nei rapporti di durata modificandoli sfavorevolmente, nel senso che le disposizioni retroattive "non possono trasmodare in un regolamento irrazionale ed arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustando cosi' anche l'affidamento del cittadino nella sicurezza pubblica che costituisce elemento fondamentale ed indispensabile dello stato di diritto. Anche se deve ritenersi ammissibile un intervento legislativo che modifichi l'ordinamento pubblicistico delle pensioni, non puo', pero', ammettersi che detto intervento sia assolutamente discrezionale. In particolare non puo' dirsi consentita una modificazione legislativa che, intervenendo in una fase avanzata del rapporto di lavoro oppure quando gia' sia subentrato lo stato di quiescenza, peggiorasse, senza una inderogabile esigenza, in misura notevole ed in maniera definitiva, un trattamento pensionistico in precedenza spettante, con al conseguente irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attivita' lavorativa". La norma sembra in contrasto anche con l'art. 136 della Costituzione giacche' limita ed anzi di fatto esclude l'efficacia retroattiva delle sentenze della Corte costituzionale. La stessa avvocatura centrale dell'I.N.P.S., nella circolare 244 dell'11 ottobre 1991, riconosce che la disposizione e' stata "presumibilmente dettata dall'esigenza di regolamentare la applicazione retroattiva di sentenze della Corte costituzionale che possono incidere retroattivamente sulla misura della pensione gia' liquidata". E' il caso di richiamare una fattispecie che presenta notevoli analogie con quella in oggetto. Con la sentenza n. 139 del 7 maggio 1984 la Corte costituzionale, nel dichiarare illegittimo l'art. 1, terzo comma, della legge 10 maggio 1978, n. 176, richiamato dall'art. 15, primo comma legge 3 maggio 1982, n. 203, cosi' testualmente ha motivato: "Le sentenze di accoglimento, in base al disposto dell'art. 136 della Costituzione confermato dall'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, operano ex tunc perche' producono i loro effetti anche sui rapporti sorti anteriormente alla pronuncia di illegittimita' sicche', dal giorno successivo alla loro pubblicazione, le norme dichiarate incostituzionali non possono piu' trovare applicazione (salvo quanto discende dall'art. 25 della Costituzione per la materia penale). "Il principio, che suole essere enunciato con il ricorso alla for- mula della c.d. 'retroattivita'' di dette sentenze, vale pero' soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida. Per rapporti esauriti debbono certamente intendersi tutti quelli che sul piano processuale hano trovato la loro definitiva e irretrattabile conclusione mediante sentenza passata in giudicato, i cui effetti non vengono intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalita' (salvo quanto disposto per la materia penale dal cit. art. 30). Secondo l'orientamento talvolta emerso nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. sentenza n. 58/1967) e il prevalente indirizzo dottrinale, vanno considerati esauriti anche i rapporti rispetto ai quali sia decorso il termine di prescrizione o di decadenza previsto dalla legge per l'esercizio di diritti ad essi relativi. Ma quando, come nell'ipotesi considerata dalla normativa denunciata, detto termine e' pendente e quindi il creditore, secondo i principi generali puo' pretendere quanto ancora gli e' dovuto, non e' consentito al legislatore ordinario limitare la portata dell'art. 136 della Costituzione, sia pure ricorrendo, come nella specie, all'espediente di introdurre un nuovo onere, non previsto al momento dell'avvenuto pagamento parziale, e di escludere percio' l'acquisto del diritto successivamente riconosciuto dalla legge che ha sostituito quella dichiarata invalida. Cosi' operando, il legislatore, in realta', fa in modo che il rapporto oggetto del giudizio principale e non ancora esaurito rimanga illegittimamente regolato dalla norma annullata, riducendo indebitamente, l'operativita' dell'art. 136 della Costituzione". Anche gli artt. 101, 102 e 104 della Costituzione che garantiscono l'indipendenza della funzione giurisdizionale possono ritenersi violati dalla norma in esame. La seconda questione riguarda l'art. 16, sesto comma, della legge n. 412/1991 che cosi' dispone: "Gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria sono tenuti a corrispondere gli interessi legali, sulle prestazioni dovute, a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto per l'adozione del provvedimento sulla domanda. L'importo dovuto a titolo di interessi e' portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito". La disposizione appare in contrasto con gli artt. 3, primo comma, 38 secondo comma e 136 della Costituzione. Con la sentenza n. 156 dell'8-12 aprile 1991 la Corte costituzionale aveva gia' dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 442 del c.p.c. nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito del titolare per la diminuzione del valore del suo credito, applicando l'indice dei prezzi calcolato dall'Istat per la scala mobile nel settore dell'Industria e condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno in cui si sono verificate le condizioni legali di responsabilita' dell'istituto o ente debitore per il ritardo dell'adempimento. Con la norma in oggetto la sentenza e' stata posta nel nulla ripristinando di fatto, senza alcun altro intervento di revisione generale della materia, la norma gia' dichiarata incostituzionale. E' sufficiente richiamare le argomentazioni gia' svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 156/1991 per evidenziare il contrasto con gli artt. 3 e 38, e quelle gia' svolte nella presente ordinanza in merito ai poteri del legislatore in relazione a quelli della Corte costituzionale. Il terzo problema riguarda l'interpretazione dell'art. 6, settimo comma, d.-l. n. 463/1983 convertito in legge n. 638/1983. La ricorrente oltre a chiedere l'integrazione al minimo anche sulla pensione di reversibilita' fino al 30 settembre 1983, chiede che anche dopo il 1 ottobre 1983 questa venga mantenuta nell'importo erogato alla data del 30 settembre fino a che esso non venga superato per effetto del meccanismo di adeguamento. Si tratta dell'effetto che comunemente viene definito come "congelamento" o "cristallizzazione" del trattamento minimo. La giurisprudenza era ormai pacificamente concorde nell'interpretare il settimo comma dell'art. 6 del d.-l. n. 463/1983 come riferito a qualsiasi ipotesi di perdita del diritto all'integrazione al minimo e non limitato a quella di perdita per superamento del limite di reddito (Cassazione 19 dicembre 1989, n. 5720, seguita da varie altre numeri 3749 e 7315 del 1990 e 6192 e 12139 del 1991 e Corte costituzionale 6-19 novembre 1991, n. 418 e n. 21/1992). Pendente questo giudizio e' stata emanata una norma che pare impedire l'accoglimento della domanda per il periodo posteriore al 30 settembre 1983, giacche' interpreta autenticamente l'art. 6, settimo comma, nel senso contrario a quello ritenuto dalla giurisprudenza. L'art. 4, primo comma, del d.-l. 21 gennaio 1992, n. 14, cosi' dispone: "L'art. 6, quinto, sesto e settimo comma, del d.-l. 12 settembre 1973, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, si interpreta nel senso che nel caso di concorso di due o piu' pensioni integrate al trattamento minimo liq- uidate con decorrenza anteriore alla data di entrata in vigore del predetto decreto, l'importo del trattamento minimo vigente a tale data e' conservato su una sola delle pensioni come individuata con i criteri previsti dal terzo comma dello stesso articolo". Come norma interpretativa ha certamente valore retroattivo. Non pare a questo pretore che la pendenza del termine per la conversione in legge del decreto-legge possa impedire di rilevarne l'eventuale incostituzionalita', trattandosi di atto avente forza di legge. La norma, pur nella discrezionalita' del legislatore nell'interpretare con valore retroattivo una precedente norma, appare in contrasto con gli artt. 3, 38 e 136 della Costituzione. Va infatti ricordato che la Corte costituzionale con la sentenza citata n. 418/1991 aveva ritenuto l'art. 6 della legge n. 638/1983, non contrastante con i precetti costituzionali ma solo interpretandolo in un preciso senso; un'interpretazione contraria porterebbe quindi alla sua dichiarazione di incostituzionalita'. Poiche' il d.-l. n. 463/1983 introducendo il divieto dell'integrazione al minimo su piu' di una pensione non ha toccato le situazioni preesistenti (per le quali invece il divieto non esisteva stante la dichiarata incostituzionalita' delle norme che lo prevedevano) queste verrebbero oggi ad essere limitate dalla nuova interpretazione, che viene a ridurre quello che era stato ritenuto come necessario per garantire ai lavoratori mezzi adeguati alle loro esigenze di vita (art. 38, secondo comma, della Costituzione). Sembra violato anche l'art. 136 Cost. in quanto, di fatto, si viene a svuotare di contenuto le numerose decisioni della Corte costituzionale che dichiararono illegittime le norme che impedivano la doppia integrazione, e si opera in contrasto con la recente decisione n. 418/1991. Sembra violato anche l'art. 3 della Costituzione per l'irrazionalita' di utilizzare lo strumento dell'interpretazione autentica per effettuare una sostanziale modifica legislativa. Ritiene il pretore che possa ritenersi ipotizzata anche una violazione dell'art. 77 dato che il decreto e' stato emanato pochi giorni dopo l'entrata in vigore della legge 30 dicembre 1991, n. 412. Il relativo progetto di legge del governo (v. Atti parlamentari - Senato della Repubblica - 3004) gia' conteneva all'art. 11, primo comma, la norma poi trasfusa nell'art. 4 del d.-l. n. 14/1992, identica anche nella sua formulazione letterale. Il fatto che essa non e' stata recepita nella legge n. 412/1991 significa che il Parlamento avera ritenuto il contrario, per cui non sembra che il governo possa dopo pochi giorni imporre con lo strumento del decreto-legge una norma gia' respinta dal Parlamento.