LA CORTE DEI CONTI Ha pronunciato la seguente ordinanza n. 9/92/ord. sui ricorsi in materia di pensione civile, proposti contro il Ministero di grazia e giustizia, da: 1) Finocchiaro Maria, vedova del dott. Ubaldo Trizzino, residente a Palermo, via Costantino Nigra, n. 4 (n. 3005/C di registro di segreteria); 2) Badagliacca Clotilde, vedova del dott. Andrea Montalbano, residente a Palermo, via Costantino Nigra n. 4 (n. 2804/C del registro di segreteria); 3) Furitano Antonina, residente a Savona, via Crocetta 2/13; Cerenzia Paola, quale rappresentante del marito Furitano Gioacchino, residente a Palermo, via Villafranca n. 22; Furitano Maria Ida, residente a Palermo, via Ausonia n. 31; Furitano Clara, residente a Palermo, via Ausonia n. 31; quali eredi di Giandalia Francesca, vedova del dott. Furitano Salvatore (n. 3025/C del registro di segreteria); 4) Gueli Iole, vedova del dott. Gueli Giuseppe, elettivamente domiciliata a Roma presso lo studio dell'avv. Renato Preziosi che la rappresenta e difende (n. 2811/C del registro di segreteria); 5) Mazzu' Filippo, elettivamente domiciliato a Roma, presso lo studio dell'avv. Michelangelo Pascasio che lo rappresenta e difende (n. 2916/C del registro di segreteria); 6) Iannelli Salvatore, elettivamente domiciliato a Roma, presso lo studio dell'avv. Michelangelo Pascasio che lo rappresenta e difende (n. 2971/C del registro di segreteria); 7) Turiano Sebastiano, elettivamente domiciliato a Roma, presso lo studio dell'avv. Michelangelo Pascasio che lo rappresenta e difende (n. 2917/C del registro di segreteria); 8) Fischetti Giacomo, elettivamente domiciliato a Roma, presso lo studio dell'avv. Michelangelo Pascasio che lo rappresenta e difende (n. 1144/C del registro di segreteria); 9) Natale Luigi, elettivamente domiciliato a Roma, presso lo studio dell'avv. Michelangelo Pascasio che lo rappresenta e difende (n. 2080/C del registro di segreteria); 10) Valenti Gioacchino, elettivamente domiciliato a Roma, presso lo studio dell'avv. Michelangelo Pascasio che lo rappresenta e difende (n. 2572/C del registro di segreteria); 11) Scalici Maria Teresa, vedova del dott. Gaetano Piscitello, elettivamente domiciliata a Roma, presso lo studio dell'avv. Michelangelo Pascasio che la rappresenta e difende (n. 2810/C del registro di segreteria); 12) Puglisi Francesco, elettivamente domiciliato a Roma, presso lo studio dell'avv. Michelangelo Pascasio che lo rappresenta e difende (n. 2821/C del registro di segreteria); 13) Mangiacasale Dionigi, elettivamente domiciliato a Palermo, presso lo studio dell'avv. Giovanni Natoli, rappresentato e difeso dall'avv. Tommaso Palermo del foro di Roma (n. 2901/C del registro di segreteria); 14) Coltraro Vincenzo, residente a Catania, via Filocomo n. 40 (n. 788/C del registro di segreteria); 15) Militello Francesco, residente a Palermo, viale Regione siciliana, n. 2464 (n. 2797/C del registro di segreteria); 16) Giunta Salvatore, residente a Palermo, via Marchese di Villabianca n. 54 (n. 2655/C del registro di segreteria); 17) Busacca Angelo, residente a Catania, via Ingegnere n. 52 (n. 2633/C del registro di segreteria); 18) Rindone Salvatore, residente a Catania, viale Vittorio Veneto n. 122 (n. 2586/C del registro di segreteria); 19) Cultrera Paolo, residente a Catania, via Firenze n. 36 (n. 2007/C del registro di segreteria); Nonche' i ricorsi, in materia di pensione civile, proposti contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri da: 20) Picone Nicolo', residente a Palermo, corso dei Mille, n. 1317 (n. 2585/C del registro di segreteria); 21) De Fina Silvio, elettivamente domiciliato a Roma, presso lo studio dell'avv. Luigi Mazzei che lo rappresenta e difende (n. 2164/C del registro di segreteria); 22) Vinci Teresa, vedova del dott. Giuseppe Vaccaro, elettivamente domiciliata a Roma, presso lo studio dell'avv. Angelo Insolia che la rappresenta e difende (n. 2920/C del registro di segreteria); 23) avv. Roberto Noschese, elettivamente domiciliato in Palermo, presso lo studio legale Valenti, via Catania n. 15, rappresentato e difeso da se' medesimo (n. 3094/C del registro di segreteria); Uditi nella pubblica udienza del 20 novembre 1991 i relatori, consigliere dott.ssa Luciana Savagnone e consigliere dott. Mariano Grillo, l'avv. Tommaso Palermo e l'avv. Giovanni Tesoriere, in sostituzione dell'avv. Luigi Mazzei, nonche' il p.m., nella persona del vice procuratore generale dott. Giuseppe Petrocelli; Esaminati gli atti ed i documenti di causa; F A T T O Con singoli gravami, i ricorrenti indicati in epigrafe hanno chiesto il riconoscimento del diritto alla riliquidazione del loro trattamento pensionistico, diretto o di reversibilita', sulla base della retribuzione spettante ai magistrati, procuratori ed avvocati dello Stato in servizio, in applicazione dei principi indicati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 501/1988, come gia' statuito in precedenti numerose decisioni di questa sezione. Il procuratore generale nelle conclusioni scritte, considerato che la Corte costituzionale con la sentenza sopra menzionata ha affermato il principio dell'adeguamento automatico del trattamento pensionistico dei magistrati in quiescenza a quello del trattamento economico dei magistrati in servizio attivo, a decorrere dal 1 gennaio 1988, ha chiesto che il ricorso venga accolto nei termini indicati dalle sezioni riunite della Corte dei conti con decisione n. 76/C/1988. In conseguenza dell'entrata in vigore della legge 8 agosto 1991, n. 265, emanata nelle more dei giudizi, l'avv. Michelangelo Pascasio in difesa dei suoi assistiti, ha presentato memorie illustrative con domande integrative. Preliminarmente, il difensore afferma che la legge deve applicarsi solo per il futuro, mentre fino al 23 agosto 1991 andrebbero applicate le disposizioni precedenti. Quanto, poi, alla disposizione dell'art. 2 della legge citata, che dispone il riassorbimento di maggiori somme riscosse con riferimento al disposto del sesto comma dell'art. 1, della medesima legge, assume trattarsi di una norma di rinvio "ricettizio", nel senso che la stessa sarebbe applicabile negli stretti limiti in cui il riassorbimento e' espressamente previsto, e cioe' nei confronti del c.d. "trascinamento". La legge in esame, comunque, poiche' impedisce che nel futuro si possa procedere a riliquidazioni di pensioni secondo i precetti della Corte costituzionale, presenta vistosi aspetti di illegittimita' costituzionale ed in particolare: 1) invade in danno di organi giurisdizionali (Corte costituzionale e Corte dei conti) la loro sfera di attribuzioni e li priva del potere di decidere eliminando gli effetti delle loro decisioni; 2) ripristina disparita' di trattamento fra soggetti cui i benefici ora soppressi sono stati gia' applicati ed altri che ne sono privati, fra pensionati cessati dal servizio in tempi diversi, nonche' nei confronti di altre categorie di pensionati le cui pensioni sono automaticamente rivalutate; 3) contrasta con risoluzioni deliberate in Parlamento intese ad eliminare il fenomeno delle c.d. "pensioni d'annata"; 4) elude ogni criterio perequativo, disattendendo i principi espressi dalla Corte costituzionale con riferimento alla pensione quale retribuzione differita; 5) non vincola l'intero gettito delle "entrate tesoro" alle pensioni dei pubblici dipendenti. In definitiva il difensore chiede l'attribuzione ai suoi assistiti di tutti gli aumenti retributivi riconosciuti ai colleghi in servizio sino al 22 agosto 1991; la sospensione dei giudizi per quant'altro loro spettante anche in futuro, e la rimessione degli atti alla Corte costituzionale per contrasto dell'art. 1, sesto comma, e dell'art. 2 della legge 8 agosto 1991, n. 265 con gli artt. 3, 36, 38, 41, 101, 102 e 103 della Costituzione, nonche' degli artt. 13 della legge 29 aprile 1976, n. 177, ed 1 del d.-l. 2 marzo 1989, n. 65, convertito nella legge 26 aprile 1989, n. 155 per quanto non vincolano alle pensioni dei pubblici dipendenti l'intero gettito delle entrate in conto tesoro, che hanno tale unica destinazione. Anche l'avv. Tommaso Palermo, per i suoi assistiti, ha depositato una memoria integrativa nella quale afferma che la riliquidazione del trattamento pensionistico va effettuata senza tener conto della legge n. 265/1991, che troverebbe applicazione solo per il futuro. Tale normativa, peraltro, sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione e con gli artt. 23 e 25 della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. All'udienza dibattimentale, l'avv. Giovanni Tesoriere, in sostituzione dell'avv. Mazzei, e l'avv. Tommaso Palermo hanno insistito per l'accoglimento dei ricorsi. Il procuratore generale ha sollevato per tutti i ricorsi eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 2, primo comma, legge 8 agosto 1991, n. 265, per contrasto con i medesimi articoli della costituzione ritenuti violati nella sentenza n. 501; in subordine ha chiesto il rigetto dei ricorsi. D I R I T T O Preliminarmente, osserva il Collegio che deve disporsi la riunione dei ricorsi, ai sensi dell'art. 274 del c.p.c., per connessione oggettiva e parzialmente soggettiva. Prima di entrare nel merito della eccezione di legittimita' costituzionale che questa Corte ritiene di sollevare, occorre riassumere brevemente le vicende giurisprudenziali in materia di trattamento pensionistico dei magistrati e procuratori ed avvocati dello Stato. Come e' noto, la Corte costituzionale, con sentenza n. 501 del 5 maggio 1988, ha dichiarato la illegittimita' costituzionale degli artt. 1, 3, primo comma, e 6 della legge 17 aprile 1985, n. 141, nella parte in cui, in luogo degli aumenti ivi previsti, non dispongono a favore dei magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, nonche' dei procuratori e avvocati dello Stato, collocati a riposo anteriormente al 1 luglio 1983, la riliquidazione, a cura delle amministrazioni competenti, della pensione sulla base del trattamento economico derivante dall'applicazione degli artt. 3 e 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425 con decorrenza dalla data del 1 gennaio 1988. Richiamando la sua costante giurisprudenza, secondo cui la pensione va intesa come retribuzione differita e deve essere comunque in ogni caso proporzionata alla qualita' e quantita' del lavoro prestato durante il servizio attivo, la decisione in rassegna ha tratto la conseguenza della "esigenza di una costante adeguazione del trattamento di quiescenza alla retribuzione del servizio attivo". Pertanto il legislatore, invece di stabilire rivalutazioni percentuali di pensioni pregresse, del tutto estranee ai criteri adottati con la legge 6 agosto 1984, n. 425, per la strutturazione dei nuovi trattamenti retributivi, avrebbe dovuto perequare le pensioni dei magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari, nonche' dei procuratori e degli avvocati dello Stato, alle retribuzioni disposte con la suddetta legge n. 425/1984. A seguito della precitata sentenza, le sezioni riunite della Corte dei conti, pronunciando sulla questione di massima di particolare importanza rimessa dal presidente della Corte dei conti, hanno dichiarato, con decisione n. 76/C del 14 novembre 1988, che "la liquidazione delle pensioni dei magistrati e degli avvocati e procuratori dello Stato deve essere effettuata, con decorrenza dal 1 gennaio 1988, sulla base del trattamento economico derivante dall'applicazione delle misure stipendiali indicate nelle tabelle annesse alla legge 19 febbraio 1981, n. 27 e adeguate di diritto, con proiezione nel futuro, ai sensi dell'art. 2 della medesima legge, nonche' dei benefici previsti dall'art. 3 (progressione economica delle anzianita' pregresse) e 4 (valutazione economica delle anzianita' pregresse) della legge 6 agosto 1984, n. 425". In motivazione detta decisione ha osservato che la riliquidazione delle pensioni, sulla base delle previsioni della cennata decisione della Corte costituzionale, ha per suoi destinatari non solo coloro che sono andati a riposo anteriormente alla data del 1 luglio 1983, ma anche coloro che siano stati collocati in quiescenza posteriormente a quella data. Invero, continua la decisione, "ove le riliquidazioni cui occorre provvedere venissero ancorate ai trattamenti economici vigenti al 1 luglio 1983, escludendo quindi sia i miglioramenti stipendiali successivi che i soggetti cessati dal servizio posteriormente a tale data, si creerebbero nuove e rilevanti sperequazioni, con evidente vulnus degli artt. 3 e 36 della Costituzione". La sezione terza dalla Corte dei conti di Roma e le sezioni giurisdizionali per la regione siciliana e per la regione sarda, condividevano il principio di diritto enucleato dalle sezioni riunite e, facendone concreta applicazione in ordine ai casi decisi, riconoscevano: 1) il diritto dei ricorrenti alla riliquidazione delle pensioni, con decorrenza dal 1 gennaio 1988, sulla base del trattamento economico derivante dall'applicazione delle misure stipendiali indi- cate nelle tabelle annesse alla legge n. 27/1981, degli adeguamenti previsti dall'art. 2 della medesima legge, calcolati alla stessa data, con i benefici previsti dagli artt. 3 e 4 della legge n. 425/1984; 2) il diritto dei ricorrenti all'applicazione dell'art. 15 della legge 29 novembre 1976, n. 177, nonche' dell'art. 161 della legge 11 gennaio 1980, n. 312, sempre con decorrenza dal 1 gennaio 1988; 3) il diritto alla rivalutazione monetaria nonche' agli interessi legali sulle somme dovute; 4) il diritto che le pensioni riliquidate siano a loro volta soggette a successive riliquidazioni automatiche a cura delle amministrazioni competenti sulla base delle variazioni il cui meccanismo di attuazione e' previsto dall'art. 2 della legge 19 gennaio 1981, n. 27. Successivamente, pero' nell'ambito della sezione terza pensioni civili di Roma, sorgevano perplessita' circa la c.d. "proiezione nel futuro" del meccanismo di adeguamento delle pensioni, illustrato sopra al punto 4), e venivano cosi' rimessi gli atti alla Corte costituzionale per la verifica dell'art. 2 della legge n. 27/1981. Con ordinanza 11-16 febbraio 1991, n. 95, la Corte costituzionale dichiarava la manifesta inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale, affermando che il controllo della Corte "riguardando la compatibilita' delle leggi denunziate con i principi della Costituzione, non puo' sostanziarsi in una revisione, in grado ulteriore, delle interpretazioni offerte dagli organi giurisdizionali cui tale attivita' compete" ed inoltre "che la Corte remittente richiede una sentenza atta ad innestare nella normativa pensionistica un meccanismo d'adeguamento periodico concepito per il personale in servizio, attivita' questa .. certamente estranea al sindacato di costituzionalita' e viceversa propria del legislatore". Intanto, il giorno 23 agosto 1991, entrava in vigore la legge 8 agosto 1991, n. 265 che, all'art. 2, primo comma, disponeva che le pensioni spettanti ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari, nonche' ai procuratori ed avvocati dello Stato, collocati a riposo anteriormente al 1 luglio 1983, sono riliquidate con decorrenza dal 1 gennaio 1988 sulla base delle misure stipendiali vigenti, in applicazione degli artt. 3 e 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, alla data del 1 luglio 1983, con esclusione degli adeguamenti periodici di cui al secondo comma. Della medesima disposizione di legge, per richiamo sistematico del medesimo art. 2, veniva a costituire parte integrante il sesto comma del precedente art. 1, secondo cui, eventuali maggiori trattamenti spettanti o in godimento, conseguenti ad interpretazioni difformi, sono conservati ad personam e sono riassorbiti con la normale progressione economica di carriera o con i futuri miglioramenti dovuti sul trattamento di quiescenza. Il secondo comma del menzionato art. 2 disponeva, poi, che, in ogni caso, gli adeguamenti periodici previsti dall'art. 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, per il personale in servizio non sono computati ai fini delle riliquidazioni di trattamenti pensionistici in godimento. Premesso tutto cio', osserva la Corte che gli odierni ricorrenti, magistrati e avvocati dello Stato collocati a riposo sia prima che dopo il 1 luglio 1983, chiedono la riliquidazione della pensione in conformita' a quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 501, secondo l'interpretazione costantemente adottata da questa sezione della Corte dei conti. Invero, prima dell'entrata in vigore della legge n. 265/1991, la sezione aveva sempre riconosciuto ai magistrati ed ai procuratori ed avvocati dello Stato ricorrenti il diritto alla riliquidazione delle pensioni secondo lo schema sopra illustrato. Si ritiene, infatti, che esattamente la riliquidazione andava fatta, secondo il dispositivo della sentenza della Corte costituzionale, sulla base del trattamento economico derivante dall'applicazione degli artt. 3 e 4 della legge n. 425 del 1984, trattamento che ovviamente si innesta sulle misure stipendiali all'epoca vigenti le quali "sono adeguate di diritto, ogni triennio, nella misura percentuale pari alla media degli incrementi realizzati nel triennio precedente dalla altre categorie dei pubblici dipendenti" (art. 2 della legge n. 27/1981). Come hanno affermato le sezioni riunite della Corte dei conti, il meccanismo stipendiale sopra descritto costituisce un unicum, nel senso che la riliquidazione alla data del 1 gennaio 1988 delle pensioni dei magistrati non puo' assumere a parametro lo stipendio vigente nel 1983, ma quello attuale, cioe' lo stipendio tabellare con gli adeguamenti intervenuti sino alla data di decorrenza della riliquidazione. La conformita' di tale meccanismo di riliquidazione ai principi espressi nella sentenza della Corte costituzionale, e' emerso, altresi', in sede di esame dei ricorsi proposti da magistrati cui l'amministrazione aveva riliquidato il trattamento pensionistico secondo un'errata interpretazione della sentenza n. 501, ancorandolo allo stipendio del pari qualifica vigente nel 1983, senza considerare gli incrementi del menzionato art. 2 ed eliminando gli aumenti percentuali perequativi nel frattempo conteggiati. In alcune ipotesi, relative soprattutto a qualifiche non elevate, la pensione riliquidata risultava addirittura inferiore a quella in atto percepita dal pensionato, cui veniva chiesta la restituzione di quanto liquidato in piu'. Inoltre, cosi' come le riliquidazioni dovevano comprendere i miglioramenti stipendiali successivi, dovevano essere effettuate anche nei confronti dei soggetti cessati dal servizio posteriormente al 1 luglio 1983, altrimenti si sarebbero create nuove e rilevanti sperequazioni con ulteriore violazione degli artt. 3 e 36 della Costituzione. L'esattezza di criteri di applicazione della sentenza n. 501/1988, adottata dal questa sezione nei vari giudizi, e' stata indirettamente confermata dal comportamento dello stesso legislatore, che mentre con il d.-l. 22 dicembre 1990, n. 409, riguardante "Disposizioni urgenti in tema di perequazione dei trattamenti di pensione nei settori privato e pubblico", aveva inserito tra le categorie di dipendenti da perequare quella dei magistrati, nella legge di conversione n. 59 del 27 febbraio 1991, non la menziono' ritenendo, quindi, implicitamente, che la categoria fruisse gia' di un adeguato meccanismo perequativo almeno fino al 1994, data di cessazione di efficacia della legge. Posto cio', la sezione ritiene che, in conseguenza dalla entrata in vigore della nuova normativa, le domande attrici non siano piu' accoglibili nei termini sopra delineati. Anzitutto, infatti, sono individuati quali destinatari del beneficio della riliquidazione solo i magistrati, procuratori ed avvocati dello Stato, collocati a riposo anteriormente al 1 luglio 1983, inoltre sono esclusi gli adeguamenti periodici previsti dall'art. 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, sia ai fini della riliquidazione, sia ai fini della c.d. "proiezione nel futuro" del meccanismo di adeguamento delle pensioni. In proposito, non puo' ritenersi che la norma non abbia effetto retroattivo, come assumono alcuni difensori dei ricorrenti, in quanto non solo incide sulle posizioni giuridiche ed economiche di coloro che ancora attendono il provvedimento di riliquidazione della pensione con decorrenza 1 gennaio 1988, ma modifica il titolo di attribuzione delle somme gia' liquidate, anche in base a provvedimenti giudiziari dotati della stabilita' del giudicato, statuendo al sesto comma dell'art. 1, che come gia' rilevato e' parte integrante dell'art. 2, che i maggiori trattamenti spettanti o in godimento sono conservati ad personam e sono riassorbibili. In questo senso si ritiene rilevante la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, primo e secondo comma, della legge n. 265/1991, giacche' solo l'eliminazione di tale norma da parte della Corte costituzionale, consentirebbe il riconoscimento del diritto dei ricorrenti alla riliquidazione della pensione conformemente ai punti sopra illustrati. Prima di passare all'esame dei motivi di fondatezza dell'eccezione di costituzionalita' che questo giudice ritiene di sollevare, occorre accertare la natura giuridica della nuova legge, di cui si e' posto in risalto fino ad ora solo la caratteristica della retroattivita'. In proposito, ritiene questa Corte che la legge n. 265 possa qualificarsi a carattere interpretativo, ma in un senso del tutto difforme da quello che caratterizza le norme c.d. di interpretazione autentica. Con queste ultime, infatti, il legislatore modifica o limita l'indirizzo interpretativo dominante o almeno maggioritario di una norma giuridica, con la conseguenza che alla disposizione vecchia si sostituisce sin dall'inizio la nuova norma, che per assolvere alla funzione interpretativa deve avere carattere vincolante e retroattivo. La norma in esame, invece, ha natura interpretativa in quanto individua una diversa chiave di lettura della sentenza della Corte costituzionale, rispetto a quella che questo giudice nelle sue pronunce ha ritenuto corretta. In definitiva, lo scopo della legge non e' normativo bensi' esclusivamente correttivo di determinati provvedimenti giudiziari che, secondo il legislatore, contrasterebbero con la esatta interpretazione della sentenza n. 501 della Corte costituzionale. Sotto un primo profilo, quindi, si ritiene che l'art. 2 della legge n. 265/1991 sia incostituzionale per violazione dell'art. 136 della Costituzione, per incompetenza assoluta del legislatore ad incidere sugli effetti della sentenza della Corte costituzionale attraverso una interpretazione diversa da quella adottata dai giudici di merito. Invero, a seguito dell'accertamento della illegittimita' costituzionale di una norma consegue la sua perdita di efficacia: le modificazioni dell'ordinamento giuridico discendono, infatti, ipso iure dalla norma costituzionale, sulla base della decisione d'incostituzionalita'. Spettera' ai diversi soggetti dell'ordinamento, i giudici in particolare, applicare l'art. 136 della Costituzione e, sulla base della interpretazione della sentenza, rendere concreto l'effetto ivi previsto. In definitiva, i destinatari della pronuncia della Corte costituzionale sono i giudici e non il legislatore, il quale potra', invece, nell'ambito delle competenze assegnategli dalla Costituzione, mettere in moto il processo politico per sopperire al vuoto normativo creatosi. Solo indirettamente talvolta le pronunce costituzionali si rivolgono al legislatore, in particolare quando, attraverso i c.d. "motivi", vogliono indicargli la strada da battere per legiferare nella materia. Il sistema normativo, improntato al rispetto dell'autonomia interpretativa dell'autorita' giudiziaria nella ricostruzione della disciplina giuridica risultante dalla dichiarazione di incostituzionalita', non consente nemmeno alla stessa Corte costituzionale di interpretare le proprie decisioni ne' di sindacare le scelte interpretative effettuate di volta in volta dall'autorita' giudiziaria: soltanto successivamente, in sede di controllo del diritto vivente, la Corte costituzionale potra' essere chiamata a verificare la conformita' ai precetti costituzionali di un indirizzo giurisprudenziale consolidato. Anche sotto altro profilo, ritiene questa Corte che sia stato violato l'art. 136 della Costituzione. Invero, la sentenza con la quale la Corte dichiara la incostituzionalita' della legge e' definitiva, non essendo ammessa contro di essa alcuna impugnazione (art. 137 cpv., della Costituzione); tale definitivita' concerne gli effetti tipici di questa decisione, come indicati dall'art. 136 della Costituzione. Da esso deriva, inoltre, l'immodificabilita' delle pronuncie d'incostituzionalita' da parte di qualsiasi potere dello Stato: ogni atto che si ponesse contro la decisione della Corte si scontrerebbe con la disposizione costituzionale che determina gli effetti delle decisioni di accoglimento. Nell'ipotesi in cui sia il legislatore ad operare contro una decisione d'incostituzionalita' della Corte costituzionale puo' accadere che la legge sia riproduttiva di quella dichiarata incostituzionale, ma la sua efficacia sia proiettata solo per il futuro. In tal caso non puo' ritenersi che vi sia violazione del giudicato costituzionale, in quanto la decisione della Corte varra' solo come precedente, sia pure costringente, nei confronti della stessa Corte. Se invece la legge nuova prevedesse di ripristinare la legge dichiarata incostituzionale, anche in relazione al periodo gia' trascorso, novandone la fonte di validita' e cosi' mirando a porre nel nulla la sentenza di incostituzionalita' allora si concreterebbe la figura della violazione del giudicato costituzionale o della generale forza obbligatoria della decisione di incostituzionalita'. Con riferimento a tale vizio di costituzionalita' ritiene questa Corte che la legge n. 265/1991 si ponga in contrasto con l'art. 136 della Costituzione, in quanto impedisce, con effetto retroattivo, l'applicazione della sentenza della Corte costituzionale attraverso il ripristino di una normativa con cui vengono perseguiti e raggiunti esiti corrispondenti a quelli gia' ritenuti lesivi della Costituzione. Con la sentenza n. 501, infatti, veniva espressa l'esigenza di una costante adeguazione del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo, ed appunto a tal fine, si dichiarava la non conformita' delle norme impugnate ai precetti costituzionali. In pratica, l'art. 2, primo e secondo comma, della legge n. 265 ha vanificato il contenuto della suddetta pronuncia, escludendo qualunque corrispondenza tra riqualificazione del trattamento di quiescenza tra riliquidazione del trattamento di quiescenza e determinazione di quello di attivita'. La mancata inclusione dell'art. 2 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 nel meccanismo di riliquidazione, nonche' la limitazione della sua applicazione ai dipendenti collocati a riposo prima del 1 luglio 1983, impedisce, infatti, ogni raccordo tra evoluzione degli stipendi ed evoluzione delle pensioni. Occorre, poi, rilevare che, tutte le volte in cui una norma e' incostituzionale per violazione del giudicato costituzionale e' altresi' incostituzionale per nuova violazione delle norme precedentemente invocate nel giudizio sulle norme riprodotte. Deve ritenersi, pertanto, che la nuova legge sia in contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione cosi' come era stato riconosciuto per la normativa precedente, gia' passata al vaglio della Corte costituzionale. Invero, secondo la giurisprudenza ormai consolidata dalla Corte costituzionale, il trattamento di quiescenza dei lavoratori in pensione deve essere proporzionato alla quantita' e qualita' del lavoro prestato e deve in ogni caso assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita: la proporzionalita' e l'adeguatezza debbono sussistere in ogni tempo e non soltanto al momento del collocamento in pensione. In proposito, si e' gia' rilevato come l'art. 2 della legge n. 265 violi il precetto costituzionale indicato nell'art. 36 della Costituzione, secondo cui la pensione deve intendersi come una retribuzione differita, e consenta, invece, una sempre maggiore divaricazione tra il trattamento di attivita' e quello di quiescenza mentre sarebbe indispensabile una corrispondenza tra i due trattamenti, costituendo la pensione un prolungamento della retribuzione. Il legislatore, pertanto, secondo l'indirizzo esplicitamente indicatogli dal giudice costituzionale, dovrebbe, nell'ambito della sua discrezionalita', operare un bilanciamento di tutti i valori ed interessi costituzionali coinvolti nella graduale attuazione di tali principi. In sostanza, perche' non ci sia violazione dell'art. 36 della Costituzione non e' necessario che vi sia una corrispondenza quantitativa tra la pensione e la retribuzione, ma occorre che il criterio di adeguamento della prima, alla quantita' e a qualita' del lavoro prestato e alle esigenze di vita del pensionato, sia lo stesso in base al quale vengono disposti gli incrementi stipendiali. Contrariamente a tali principi, la legge in esame, al primo comma, blocca la determinazione dei trattamenti pensionistici agli stipendi percepiti nel 1983, al secondo comma esclude l'adeguamento nel tempo di tali trattamenti. Per il futuro, quindi, manca del tutto un sistema perequativo delle pensioni dei magistrati ed assimilati che, come gia' rilevato, sono una categoria esclusa anche dalla legge n. 59 del 1991. Sotto altro profilo, la mancata attuazione dei principi che si riconnettono alla natura della pensione come retribuzione differita, determina una ulteriore violazione della Costituzione ed in particolare dell'art. 3. Invero, l'applicazione dell'art. 2 della legge n. 265, concreta una ingiustificata disparita' di trattamento con altre categorie di pubblici dipendenti, che fruiscono di meccanismi di adeguamento automatico del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del personale in servizio. Inoltre, ulteriore disparita' si verifica fra le pensioni degli stessi magistrati, in relazione alle liquidazioni disposte dalle varie sezioni della Corte dei conti in applicazione dei principi stabiliti dalla sentenza della Corte costituzionale, in tutti i giudizi gia' definiti. In relazione alle considerazioni esposte, la sezione ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge 8 agosto 1991, n. 265, per contrasto con gli artt. 3, 36 e 136 della Costituzione, restando in tale pronuncia assorbite le eccezioni in parte analoghe dedotte dalle parti e dal p.m. in udienza. Per quanto attiene alla violazione degli altri precetti costituzionali indicati dall'avv. Michelangelo Pascasio, nella sua memoria integrativa, ritiene il collegio che le questioni di costituzionalita' sollevate siano manifestamente infondate, in quanto trattasi di norme costituzionali non pertinenti con riferimento all'oggetto della legge impugnata.