ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 122 del codice
 penale militare di pace, promosso con ordinanza emessa il  4  ottobre
 1991  dal  Giudice  per  le  indagini preliminari presso il Tribunale
 militare di Padova  nel  procedimento  penale  a  carico  di  Palazzo
 Antonio  ed  altri,  iscritta al n. 734 del registro ordinanze 1991 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  4,  prima
 serie speciale, dell'anno 1992;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del  1›  aprile  1992  il  Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Nel corso di un procedimento penale davanti al Giudice per le
 indagini preliminari presso il Tribunale penale militare di Padova, a
 carico   di  Antonio  Palazzo,  Oscar  Pandolfo  e  Pietro  Bettella,
 imputati, tra l'altro, del reato previsto e punito dall'art. 122 cod.
 pen. mil. di pace, la difesa di costoro  ha  sollevato  questione  di
 legittimita'  costituzionale  della  norma suddetta per contrasto con
 l'art. 25, secondo comma, della Costituzione. Il  pubblico  ministero
 ha  aderito  all'eccezione ed il giudice, ritenendola rilevante e non
 manifestamente  infondata,  ne  ha   rimesso   l'esame   alla   Corte
 costituzionale  con  ordinanza  del  4  ottobre 1991 (r.o. n. 734 del
 1991).
    Il giudice a quo osserva che il citato art. 122 prevede  il  reato
 di  violata  consegna da parte di militare preposto di guardia a cosa
 determinata e commina, per  tale  reato,  la  pena  della  reclusione
 militare  non  inferiore  a  due  anni.  Il limite massimo della pena
 irrogabile, non indicato direttamente dalla norma, e' pari a 24 anni,
 a norma dell'art. 26 cod. pen. mil. di pace. Dopo aver ricordato  che
 la  Corte costituzionale ha gia' esaminato, respingendoli, i dubbi di
 legittimita' costituzionale che erano stati formulati  sull'art.  122
 cod.  pen.  mil.  di  pace  in  relazione  agli  artt.  3  e 27 della
 Costituzione, il giudice  ritiene  che  ad  un  diverso  esito  debba
 portare  il  vaglio di costituzionalita' della medesima norma in base
 al  parametro  dell'art.  25,  secondo  comma,  Cost.,   in   ragione
 dell'indeterminatezza della sanzione stabilita dalla norma impugnata.
 Il  remittente  afferma  che  la  riserva di legge consacrata in tale
 precetto costituzionale ha carattere assoluto e risponde all'esigenza
 che gli elementi della fattispecie criminosa e quelli della  sanzione
 abbiano  come  fonte  la  legge,  al  fine  di  garantire che il bene
 fondamentale della liberta' personale non sia esposto al pericolo  di
 arbitrarie restrizioni. Tale pericolo sussiste sia nel caso in cui il
 giudice  sia  assolutamente  libero di scegliere il tipo di pena, sia
 quando  vengano  lasciati  ampi  spazi edittali per la commisurazione
 della  sanzione.  In  quest'ultima  ipotesi,  l'obbligo  imposto   al
 legislatore  di  predeterminare la misura della pena viene rispettato
 solo formalmente, poiche' viene in realta' demandato al  giudice  non
 solo   di  individuare  la  pena  soggettivamente  ed  oggettivamente
 proporzionata, ma anche di individuare la vasta gamma di  fattispecie
 cui  ricollegare  i molteplici trattamenti sanzionatori astrattamente
 previsti.
    Nell'ordinanza   si   richiama,   a   sostegno   del   dubbio   di
 costituzionalita', la recente sentenza n. 285 del 1991, in cui questa
 Corte  ha  precisato che non si deve verificare un "sovvertimento del
 rapporto tra principio  della  riserva  alla  legge  del  trattamento
 sanzionatorio  e  quello  della  individualizzazione  della  pena  ..
 l'individuazione del disvalore oggettivo dei  fatti-reato  tipici,  e
 quindi del loro diverso grado di offensivita', spetta al legislatore;
 mentre  al  giudice  compete  di  valutare le particolarita' del caso
 singolo onde individualizzare la pena .. e' compito  del  legislatore
 di  rispettare quel rapporto attraverso un'adeguata articolazione dei
 trattamenti sanzionatori".
    Secondo il giudice a quo la norma impugnata determina  appunto  il
 sovvertimento  di  cui parla la Corte, perche' e' il giudice che, con
 giudizio  discrezionale,  stabilisce  la  regola  astratta   per   la
 quantificazione  della  pena, anche a causa del fatto che la condotta
 sussumibile nella previsione dell'art. 122 cod.  pen.  mil.  di  pace
 puo'  atteggiarsi  in  concreto "in forme estremamente differenziate,
 secondo una gamma di valori quanto mai ampia, con  la  quale  mal  si
 concilia  l'unificazione sotto un'unica figura di fatti profondamente
 diversi  l'uno  dall'altro  e  che   meriterebbero   un   trattamento
 sanzionatorio   differenziato   in  rapporto  alla  diversa  gravita'
 astratta delle varie ipotesi".
    2. - E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
 rappresentato  dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la
 questione sia dichiarata infondata.
    L'Avvocatura ricorda che in dottrina si ritiene che un margine  di
 elasticita'  della durata edittale della pena sia non solo legittimo,
 ma anzi imposto dalla Costituzione, al fine di lasciare al giudice un
 corrispondente  margine  di  discrezionalita'  che  gli  consenta  di
 determinare  la misura della pena in considerazione delle circostanze
 del caso concreto, della gravita' delle conseguenze e della possibile
 multiformita' della condotta criminale.  Normalmente  il  margine  di
 elasticita'  suddetto viene strutturato dal legislatore attraverso la
 fissazione di un minimo e di un massimo prefissati, ma  e'  legittimo
 anche  che  la  norma si limiti a fissare uno solo dei due parametri,
 rinviando per l'altro ai limiti  genericamente  prefissati  per  ogni
 categoria  di  pene dalle disposizioni generali del codice di diritto
 sostanziale. La ragionevolezza dell'impugnato art. 122 cod. pen. mil.
 di pace quanto alla misura  della  pena  appare  evidente  -  secondo
 l'Avvocatura  - anche in considerazione della sostanziale omogeneita'
 delle forme di condotta  considerate  dalla  norma,  dovendosi  anche
 ricordare che, a proposito della stessa, la Corte costituzionale ebbe
 a  rilevare  che  "l'individuazione  concreta  della  pena  spetta al
 giudice, nell'ambito del potere regolato  dall'art.  133  del  codice
 penale   comune,   in   modo   che  essa  risulti  soggettivamente  e
 oggettivamente proporzionata alle  singole  fattispecie  concrete  ..
 potere  il  cui  esercizio e' soggetto a controllo mediante i normali
 mezzi di impugnazione previsti dall'ordinamento processuale militare"
 (sentenza n. 102 del 1985). In generale, del resto, "e' perfettamente
 conforme al disposto costituzionale .. che la legge rimetta, con  una
 certa   ampiezza,   al   giudice   la  valutazione  di  situazioni  e
 circostanze, lasciandogli un congruo ambito di  discrezionalita'  per
 l'applicazione della pena" (sentenza n. 131 del 1970, che richiama la
 sentenza  n.  26 del 1966 ed e' a sua volta richiamata dalla sentenza
 n. 203 del 1991), in conformita' al principio di  individualizzazione
 delle  pene, con il quale quello della loro legalita' va contemperato
 e armonizzato (sentenza n. 203 del 1991).
                        Considerato in diritto
    1. - L'art. 122 cod. pen. mil. di pace punisce, per il solo  fatto
 della  violata consegna, il militare che, essendo preposto di guardia
 a  cosa  determinata,  la  sottrae,  distrae,   devasta,   distrugge,
 sopprime,  disperde o deteriora ovvero la rende, in tutto o in parte,
 inservibile. Della pena comminata per i comportamenti cosi' descritti
 la norma indica solo il minimo  -  due  anni  -  si'  che  essa  puo'
 giungere,  ai  sensi  dell'art.  26  cod.  pen.  mil. di pace, sino a
 ventiquattro anni di reclusione militare.
    Il  Giudice  per  le  indagini  preliminari  presso  il  Tribunale
 militare  di Padova ritiene che tale norma contrasti con il principio
 di legalita' della pena stabilito dall'art. 25, secondo comma,  della
 Costituzione,  in  ragione dell'ampiezza eccessiva del divario tra il
 minimo ed il massimo della pena che al giudice  viene  consentito  di
 irrogare.
    2. - Il reato di violata consegna da parte di militare preposto di
 guardia  a  cosa  determinata  si  pone  in  rapporto  di specialita'
 rispetto alle figure di violata  consegna  previste  e  punite  dagli
 artt.  118  e  120  cod. pen. mil. di pace e riferibili, tra l'altro,
 alla violazione delle prescrizioni generali o  particolari  impartite
 per  l'adempimento  dei  compiti  di vigilanza e custodia affidati al
 militare collocato di sentinella (art. 118) ovvero preposto ad  altro
 servizio  di  guardia  (art.  120).  Gli  elementi di specialita' che
 connotano la figura criminosa in esame riguardano,  in  primo  luogo,
 l'identificazione  del soggetto attivo del reato, e piu' precisamente
 il contenuto del servizio di guardia  cui  il  militare  e'  preposto
 (come  sentinella  o meno), dovendo, tale servizio, riferirsi "a cosa
 determinata". In secondo luogo occorre, quanto all'elemento materiale
 del reato, che  la  violazione  della  consegna  si  concretizzi  nel
 sottrarre, distrarre, devastare, distruggere, sopprimere, disperdere,
 deteriorare  o  rendere  in  tutto  o  in parte inservibile la cosa a
 guardia della quale  il  militare  e'  stato  preposto.  La  pena  e'
 peraltro  comminata  "per  il  solo  fatto  della  violata consegna",
 sicche' il reato concorre formalmente con le varie figure  delittuose
 del codice penale e del codice penale militare che contemplano simili
 comportamenti  come delitti contro il patrimonio o contro altri beni,
 tra l'altro prevedendo non di rado severe sanzioni.
    3. - La questione che viene oggi sottoposta  all'esame  di  questa
 Corte e' diversa da quella risolta dalla sentenza n. 102 del 1985. In
 tale  occasione  venne escluso, in primo luogo, che la norma in esame
 violasse l'art. 3 della Costituzione per  irrazionale  disparita'  di
 trattamento  sanzionatorio  rispetto  alle  altre  figure di reato di
 violata consegna previste dagli artt. 118 e 120  cod.  pen.  mil.  di
 pace;  venne  altresi'  disattesa  la denunzia di incostituzionalita'
 genericamente  sollevata  con  riferimento  al  principio  del   fine
 rieducativo  della  pena,  di  cui  al terzo comma dell'art. 27 della
 Costituzione, avendo la Corte ritenuto che il  fine  rieducativo  non
 puo'  propriamente formare oggetto di un accertamento nel giudizio di
 costituzionalita', in quanto la determinazione della pena edittale in
 funzione di tale finalita' e' rimessa alla valutazione  discrezionale
 del  legislatore  e,  comunque,  l'efficacia rieducativa in questione
 dipende soprattutto dal regime di esecuzione della pena.  E  tuttavia
 la  Corte,  nella  pronunzia  suddetta,  ritenne necessario formulare
 l'auspicio che il legislatore provvedesse "a ridurre il  divario  tra
 il  minimo  e il massimo della pena edittale, limitando ulteriormente
 cosi' il potere discrezionale del giudice".
    Diversi - e peraltro collegati alle ragioni  sottese  all'auspicio
 da  ultimo  ricordato  -  sono i profili ed i parametri della censura
 formulata dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale
 militare di Padova. Secondo il  giudice  a  quo,  infatti,  la  norma
 impugnata,  a  causa dell'eccessiva divaricazione tra il minimo ed il
 massimo (da  due  a  24  anni)  risponde  solo  formalmente,  ma  non
 sostanzialmente,  al principio di legalita' e di determinatezza della
 pena stabilito dall'art. 25, secondo comma,  della  Costituzione,  in
 quanto  lo  spazio cosi' lasciato al potere discrezionale del giudice
 eccede largamente la funzione di commisurare la pena da  irrogare  in
 concreto ai connotati oggettivi e soggettivi di ciascun singolo caso.
    4. - La questione cosi' posta e' fondata.
    Il  principio  di legalita' della pena, gia' stabilito dall'art. 1
 del codice penale,  e'  costituzionalmente  garantito  dall'art.  25,
 secondo  comma,  della  Costituzione  (sentenza n. 15 del 1962). Tale
 principio non impone al legislatore di determinare in misura fissa  e
 rigida la pena da irrogare per ciascun tipo di reato. Questa Corte ha
 anzi   piu'   volte   rilevato   che  lo  strumento  piu'  idoneo  al
 conseguimento delle finalita' della pena e piu' congruo  rispetto  al
 principio  di uguaglianza e' la predeterminazione della pena medesima
 da  parte  del  legislatore  fra  un  massimo  e  un  minimo  ed   il
 conferimento  al  giudice  del potere discrezionale di determinare in
 concreto, entro tali limiti, la sanzione  da  irrogare,  al  fine  di
 adeguare  quest'ultima  alle  specifiche  caratteristiche del singolo
 caso (sentenze nn. 15 e 29  del  1962,  67  del  1963  e,  da  ultimo
 sentenze  nn.    203  e 285 del 1991). La "individualizzazione" della
 pena,  in  modo  da  tener  conto  dell'effettiva  entita'  e   delle
 specifiche esigenze dei singoli casi, si pone, infatti, come naturale
 attuazione  e  sviluppo  di  principi costituzionali, tanto di ordine
 generale (principio di uguaglianza),  quanto  attinenti  direttamente
 alla materia penale. Di qui il ruolo centrale che, nei sistemi penali
 moderni,  e' proprio della discrezionalita' giudiziale, nell'ambito e
 secondo i criteri segnati dalla legge (sentenza n. 50 del 1980).
    Invero, "l'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti  -
 in  termini  di  uguaglianza  e/o  differenziazione  di trattamento -
 contribuisce, da un lato, a rendere quanto piu' possibile "personale"
 la responsabilita' penale, nella prospettiva  segnata  dall'art.  27,
 primo comma; e nello stesso tempo e' strumento per una determinazione
 della  pena  quanto  piu'  possibile "finalizzata", nella prospettiva
 dell'art. 27, terzo comma, Cost. Il principio di uguaglianza trova in
 tal modo dei concreti punti di riferimento, in  materia  penale,  nei
 presupposti  e  nei fini (e nel collegamento fra gli uni e gli altri)
 espressamente   assegnati   alla   pena    nello    stesso    sistema
 costituzionale.   L'uguaglianza   di   fronte   alle   pene  viene  a
 significare, in definitiva, "proporzione" della  pena  rispetto  alle
 "personali"  responsabilita'  e  alle  esigenze  di  risposta  che ne
 conseguano, svolgendo una funzione che e' essenzialmente di giustizia
 e anche di tutela  delle  posizioni  individuali  e  di  limite  alla
 potesta' punitiva statale" (sentenza n. 50 del 1980).
    Ma  anche il suddetto potere discrezionale del giudice, volto alla
 individualizzazione della sanzione, deve trovare nella legge  i  suoi
 limiti e i suoi criteri direttivi.
    A  cio'  risponde l'art. 133 cod. pen., che specifica quali sono i
 connotati oggettivi e  soggettivi  del  singolo  caso  dei  quali  il
 giudice  puo' e deve tener conto per determinare la sanzione concreta
 e quali sono gli elementi dai quali egli puo'  desumere  le  relative
 valutazioni. E la determinazione legislativa del minimo e del massimo
 della  pena  irrogabile  per  ciascun  tipo  di reato non rappresenta
 soltanto un limite alla discrezionalita' giudiziale,  ma  costituisce
 anche  un  indispensabile  parametro  legislativo  per l'esercizio di
 essa, un criterio guida senza il quale il potere  cosi'  riconosciuto
 al  giudice  non  sarebbe  riconducibile  al  principio di legalita'.
 Mediante la determinazione legislativa del minimo e  del  massimo  di
 pena, infatti, il compito che viene assegnato al giudice e' quello di
 "proporzionare"  la sanzione concreta non gia' al proprio giudizio di
 disvalore sul fatto previsto dalla legge come reato, ma alla scala di
 graduazione individuata dal minimo e dal  massimo  edittali,  tenendo
 conto della volonta' del legislatore di comminare il minimo a quelli,
 tra  i  casi  riconducibili  alla  medesima fattispecie astratta, che
 siano connotati da minor  gravita'  e  presentino  minori  indici  di
 capacita'  a  delinquere,  e  di comminare, d'altra parte, il massimo
 edittale ai casi che, in base agli elementi di cui all'art. 133  cod.
 pen.,  rivestono  maggior gravita' ed in cui siano ravvisabili indici
 di maggiore pericolosita' personale.
    La predeterminazione legislativa del massimo  di  pena  irrogabile
 per  un  determinato  tipo  di  reato costituisce quindi un requisito
 essenziale   affinche'   la   discrezionalita'    giudiziale    nella
 determinazione  concreta della pena trovi nella legge il suo limite e
 la sua regola e non si traduca, invece, in arbitrio.
    Il principio di legalita'  della  pena  escluderebbe  pertanto  la
 legittimita'  costituzionale  di  reati a pena massima indeterminata:
 tant'e' che tale ipotesi  non  ha  modo  di  verificarsi  nel  nostro
 ordinamento,  dato  che  -  ove  la specifica norma sanzionatoria non
 indichi il massimo  edittale,  si  deve  intendere  che  essa  faccia
 riferimento  alla  durata  massima  prevista  in via generale, per le
 singole categorie di pene, dagli artt. 23-26 cod. pen. e 26 cod. pen.
 mil. di pace.
    Ma il principio di legalita' richiede  anche  che  l'ampiezza  del
 divario  tra il minimo ed il massimo della pena non ecceda il margine
 di elasticita' necessario a  consentire  l'individualizzazione  della
 pena  secondo  i  criteri  di  cui  all'art. 133 e che manifestamente
 risulti non correlato alla variabilita' delle fattispecie concrete  e
 delle  tipologie  soggettive  rapportabili alla fattispecie astratta.
 Altrimenti la predeterminazione legislativa della misura  della  pena
 diverrebbe  soltanto  apparente  ed il potere conferito al giudice si
 trasformerebbe da potere discrezionale in potere arbitrario.
    5.  -  L'analisi  della norma impugnata induce la Corte a ritenere
 che la predeterminazione del massimo di pena  ad  opera  della  norma
 stessa  (per  effetto  del rinvio implicito alla durata massima della
 reclusione militare stabilita in 24 anni dall'art. 26 del  cod.  pen.
 mil. di pace) sia soltanto apparente e quindi non idonea a funzionare
 effettivamente  quale  parametro e criterio direttivo per l'esercizio
 del potere discrezionale del giudice.
    Tale valutazione, del resto, era gia' sottesa al rilievo  espresso
 nella sentenza n. 102 del 1985, secondo cui l'eventualita' che per un
 reato  di violata consegna da parte di militare preposto a guardia di
 cosa determinata, venga irrogata una pena di 24  anni  di  reclusione
 militare  si  presenta  come "mera ipotesi teorica". Il che significa
 che non appare ipotizzabile alcuna fattispecie concreta di  reato  ex
 art.  122  cod. pen. mil. di pace alla quale sia ragionevole ritenere
 che il legislatore abbia davvero inteso  collegare  una  sanzione  di
 tale misura. E poiche' le norme penali debbono invece far riferimento
 a  fenomeni  che  appaiano concretamente verificabili (sentenza n. 96
 del  1981),  ne  deriva  il  carattere  meramente   apparente   della
 predeterminazione legislativa del massimo di pena.
    Sono  del  resto  sufficienti  alcuni  rilievi  a  confermare tale
 valutazione.
    Deve essere considerato, infatti, che tra il minimo ed il  massimo
 della  pena  comminata  dall'art.  122  vi  e'  una  divaricazione di
 ampiezza  tale  da  non  avere  quasi  alcun  riscontro  nel   nostro
 ordinamento  penale.  Ne'  puo'  ritenersi  che  l'abnorme estensione
 dell'ambito di determinazione cosi'  lasciato  alla  discrezionalita'
 del  giudice  corrisponda  alla variabilita' - in termini di gravita'
 del reato  -  delle  fattispecie  concrete  sussumibili  nella  norma
 incriminatrice   e   trovi   quindi   in  tale  variabilita'  la  sua
 giustificazione.
    Al riguardo, va qui ribadito, in primo luogo, che non deve esservi
 "sovvertimento del rapporto tra il principio della riserva alla legge
 del trattamento sanzionatorio e quello dell'individualizzazione della
 pena. In linea di principio, infatti, l'individuazione del  disvalore
 oggettivo  dei fatti-reato tipici, e quindi del loro diverso grado di
 offensivita', spetta al legislatore; mentre  al  giudice  compete  di
 valutare  le particolarita' del caso singolo onde individualizzare la
 pena, stabilendo in base ad esse,  nella  cornice  posta  dai  limiti
 edittali,  quella  adeguata in concreto. Poiche' gli ambiti delle due
 sfere non vanno confusi, e' compito  del  legislatore  di  rispettare
 quel  rapporto  attraverso  un'adeguata articolazione dei trattamenti
 sanzionatori" (sentenza n. 285 del 1991).
    Ma, con specifico riferimento alla  norma  in  esame,  particolare
 rilievo  assume  la  considerazione  che  la pena da essa prevista e'
 comminata "per il solo fatto della violata consegna" ed e' quindi  da
 commisurare   soltanto   alla   gravita',   oggettiva  e  soggettiva,
 dell'offesa arrecata allo specifico bene protetto (che, nei reati  di
 violata  consegna,  e'  costituito  dal servizio), mentre l'offesa al
 patrimonio e/o ad altri beni, che e' intrinseca alla  fattispecie  di
 cui  all'art.  122  cod.  pen.  mil. di pace, e' gia' comunque punita
 dalla sanzione prevista per lo specifico  reato  che  ciascuna  delle
 condotte  previste dalla norma suddetta necessariamente concretizza e
 che si pone in concorso  formale  con  il  reato  qui  in  esame.  Ne
 consegue  che  la  gravita'  della lesione specifica rappresenta gia'
 direttamente  il  parametro  per  la  commisurazione  della  pena  da
 irrogare  per  il  reato  concorrente  e  non  puo'  quindi servire a
 giustificare razionalmente un massimo di  pena  cosi'  elevato  quale
 quello  previsto  per questa particolare ipotesi di violata consegna,
 ne',  quindi,  a  rendere  tale  previsione  riferibile   ad   alcuna
 immaginaria ipotesi di concretizzazione del reato.
    Risultano  cosi'  confermati  sia il carattere "meramente teorico"
 della determinazione del massimo edittale previsto dall'art. 122 cod.
 pen. mil. di pace, sia il superamento di quel margine di  elasticita'
 che  al  legislatore  e' consentito di predisporre al fine di rendere
 possibile al giudice la "individualizzazione"  della  pena  ai  sensi
 degli  artt. 132 e 133 cod. pen. La norma in esame, con la previsione
 di una pena determinabile tra un minimo  di  due  ed  un  massimo  di
 ventiquattro  anni di reclusione militare, rappresenta in definitiva,
 per le considerazioni svolte, l'attribuzione al giudice di un  potere
 di  determinazione  svincolato  da  effettivi  criteri  normativi  di
 quantificazione.
    E' quindi violato il principio di legalita' della pena, posto  che
 tale  principio, e' si' compatibile con una regolata discrezionalita'
 giudiziale, ma non con l'arbitrio del giudice.
    6.   -   Deve   pertanto   essere   dichiarata    l'illegittimita'
 costituzionale dell'art. 122 cod. pen. mil. di pace.
    Ne   consegue   -  a  prescindere  dal  possibile  intervento  del
 legislatore in attuazione della sollecitazione  formulata  da  questa
 Corte gia' sette anni or sono - che le ipotesi particolari di violata
 consegna  previste  dalla  norma  suddetta restano riconducibili alle
 figure generali di cui agli artt. 118 e 120 cod. pen. mil. di pace, e
 quindi punibili ai sensi di tali norme, salve rimanendo  altresi'  le
 ulteriori sanzioni previste per i reati concorrenti.