IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA A scioglimento della riserva espressa nell'udienza 3 luglio 1992; Visti gli atti della procedura di sorveglianza in materia di revoca dell'ammissione alla semiliberta' nei confronti di Coinu Salvatore, nato a Fanni il 10 agosto 1941; non comparso, detenuto nella casa circondariale di Sassari; Sentiti il p.m. e difensore, concludenti come in atti; O S S E R V A Coinu Salvatore, detenuto dall'8 novembre 1980 e' stato condannato con sentenza 26 gennaio 1985 dalla Corte d'assise d'appello alla pena di anni 23 di reclusione perche' ritenuto responsabile di diversi reati, fra i quali sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 del c.p.), ed e' stato ammesso al regime di semiliberta' con ordinanza del tribunale di sorveglianza di Cagliari. Nel periodo intercorso dall'ammissione al regime anzidetto, il comportamento serbato dal Coinu non consta avere dato adito a rilievi di alcun genere. A seguito della pubblicazione del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, il Commissariato di p.s. di Alcamo ha rimesso al magistrato di sorveglianza una nota del 9 giugno u.s. concernente il Coinu Salvatore dalla quale si desume che il Coinu medesimo non si trova nelle condizioni previste dall'art. 58- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354. E poiche' l'art. 15, secondo comma, del d.-l. citato impone la revoca, a seguito di comunicazione dell'autorita' di polizia, dei benefici ivi indicati nei confronti dei soggetti condannati per taluni reati, fra i quali il sequestro di persona per estorsione, che pur fruendo di uno dei detti benefici, non si trovino nelle condizioni per l'applicazione dell'art. 58- ter sopra menzionato, il magistrato di sorveglianza ha disposto, con decreto emesso ex art. 51 dell'o.p., la sospensione cautelativa del regime di semiliberta' concernente il Coinu e la riconduzione del medesimo in istituto. Nella odierna udienza, richiesta dal p.m. la conferma del decreto del m.s. e la revoca definitiva della ammissione del Coinu alla semiliberta', la difesa ha proposto un'eccezione di incostituzionalita' che investe l'art. 15, secondo comma, del d.-l. n. 306/1992. Il tribunale reputa non manifestamente infondata le censure mosse dalla difesa del detenuto avverso il citato art. 15, secondo comma, e dispone pertanto la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per i seguenti; M O T I V I 1. - Contrasto fra l'art. 3 della Costituzione e l'art. 15.2 del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306. L'art. 15.2 del d.-l. n. 306/1992, testualmente recita: "nei confronti delle persone detenute o internate per taluno dei delitti indicati nel primo periodo del primo comma che fruiscano, alla data di entrata in vigore del presente decreto, delle misure alternative alla detenzione o di permessi premio, o siano assegnate al lavoro all'esterno, l'autorita' di polizia, ove lo ritenga, comunica al giudice di sorveglianza competente che le persone medesime non si trovano nella condizione per l'applicazione dell'art. 58- ter della legge 26 luglio 1975, n. 354. In tal caso il tribunale o il magistrato di sorveglianza dispone la revoca della misura alternativa alla detenzione o del permesso premio. Analogo provvedimento e' adottato dalla competente autorita' in riferimento all'assegnazione al lavoro all'esterno". Pertanto, l'autorita' di polizia puo' decidere di segnalare al giudice di sorveglianza il fatto che determinati condannati (o internati) per uno dei delitti di cui alla prima parte del primo comma dello stesso art. 15 (e fra tali delitti e' compreso quello di cui all'art. 630 del c.p., per il quale il Coinu e' stato condannato) e fruenti di uno dei benefici ivi specificati non sono nelle condizioni di cui all'art. 58- ter o.p. Alla comunicazione dell'autorita' di polizia consegue la revoca del beneficio. Il testo sopra riportato non consente di operare alcuna distinzione fra le situazioni, anche assai diverse, dei singoli condannati, cosi' che, previa la semplice comunicazione dell'autorita' di polizia, si dovrebbero revocare i benefici concessi a chi mai abbia offerto ne' offra collaborazione, rilevante ex art. 58- ter o.p., assumendo nei confronti degli organi dello Stato un atteggiamento affatto negativo o di perdurante solidarieta' con i correi eventualmente ancora liberi, e dovrebbe assumersi eguale decisione nei riguardi di chi, per aver commesso da solo il reato a lui ascritto o perche' ogni aspetto della vicenda criminosa che lo riguardi sia stato chiarito, nessuna collaborazione puo' piu' pre- stare (e' appena il caso di ricordare come l'art. 58- ter o.p. riguardi solo la collaborazione relativa alla particolare attivita' delittuosa per la quale sia intervenuta condanna, e non gia' una generica collaborazione attinente a fatti delittuosi diversi). Per Coinu Salvatore si afferma che l'intervenuto completo chiarimento dell'episodio delittuoso che lo ha portato in carcere e' di ostacolo alla prestazione - anche in futuro - della collaborazione, e d'altra parte il tribunale, stante l'automaticita' della decisione imposta dalla norma in questione, non puo' darsi carico della verifica della circostanza allegata. Si deve pero' ammettere che la formulazione dell'art. 15, secondo comma, del d.-l. n. 306/1992 finisce per accomunare nel trattamento penitenziario situazioni profondamente diverse, finendo pero', paradossalmente, per favorire proprio quei condannati che, per avere agito nell'ambito di una struttura criminale piu' articolata e segreta, sono di solito piu' pericolosi ma si trovano dipoi nella condizione di potere utilmente "spendere" la propria collaborazione. Di qui il denunciato non manifestamente infondato contrasto della norma in argomento con l'art. 3 della Costituzione. 2. - Contrasto fra l'art. 15, secondo comma, del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306 e l'art. 25, secondo comma, della Costituzione. La norma in discussione confliggerebbe con il principio costituzionale della non retroattivita' della legge penale: secondo l'interpretazione piu' logica, il concetto di legge in virtu' della quale si deve irrogare una sanzione, cui si riferisce l'art. 25, secondo comma della Costituzione non puo' comprendere le sole norme che descrivano fattispecie penalmente illecite e stabiliscano le rel- ative sanzioni, ma si estende a tutte le norme che, anche nel precisare il contenuto della pena, descrivono il quadro sanzionatorio riguardante chi dovra' espiare le pene previste per le singole ipotesi criminose. E se e' vero che e' stata autorevolmente criticata la costruzione teorica di chi voglia "fissare" al momento della commissione del reato non solo l'entita' della pena che da questo puo' conseguire ma anche il tipo di trattamento penitenziario, si dovra' pure ammettere, con la migliore dottrina, che almeno dal momento del passaggio in giudicato della sentenza, si stabilisca fra lo Stato e il condannato un "patto" che atterra' alla estensione della pretesa del primo e - per converso - alle aspettative del secondo. Patto che non sembra, durante lo svolgimento del trattamento da esso disciplinato, possa essere modificato, neppure con legge che stabilisca per il condannato condizioni deteriori e, pertanto aggravi la punizione alla quale lo ha esposto la sua condotta. E poiche' la norma in discussione, nel far discendere - in maniera pressoche' decisiva - conseguenze favorevoli per il condannato da comportamenti per il passato non essenziali ai fini dell'ammissione ai benefici da essa indicati, opera un innegabile peggioramento del trattamento sanzionatorio, si reputa non manifestamente infondato il denunciato contrasto con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione. 3. - Contrasto fra l'art. 15, comma secondo, del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306 e l'art. 27, comma secondo, della Costituzione. Quanto esposto al punto precedente vale in parte a dar conto della non manifesta infondatezza del denunciato contrasto fra l'art. 15, secondo comma, del d.-l. n. 306/1992 e la norma costituzionale che indica l'emenda del condannato quale finalita' della pena: appare evidente l'effetto deleterio che sulla rieducazione del condannato puo' avere la frustrazione delle sue legittime aspettative esistenti al momento di inizio della espiazione della pena o sorte per effetto di successive disposizioni. L'art. 15, secondo comma, in discussione stabilendo - nelle precisate condizioni - la revoca di benefici gia' in corso di fruizione, rischia di rendere vana in molti casi l'opera di rieducazione che, proprio nei casi di condannati per gravi reati, e' particolarmente impegnativa per operatori penitenziari e detenuti. Non si vuole certo porre in dubbio il valore, in ipotesi apprezzabile anche come sintomo di emenda, di una collaborazione prestata agli organi dello Stato, soprattutto quando - come nel caso dei sequestri di persona per estorsione - si impediscano gli sviluppi di un delitto in corso di svolgimento; ma non sembra coerente con le finalita' del citato dettato costituzionale ancorare - nei casi di pena in corso di espiazione - la fruizione dei noti benefici alla prestazione della collaborazione, poiche' la prestazione di questa puo' intervenire per le ragioni piu' disparate (anche tali da poter non essere dimostrative, necessariamente, di emenda), mentre anche una mancata collaborazione, accompagnata (e' chiaro) da una dimostrata ed effettiva rottura con la scala di valori gia' posta a base della vita pregressa del condannato, dovrebbe non costituire elemento ostativo alla prosecuzione del "convenuto" trattamento penitenziario. E' appena il caso di notare come non si intende certo censurare la legittimita' ed opportunita' della previsione di incentivi a favore dei collaboratori della giustizia. Ma negare, in sostanza e in pratica, che possa essere, per i responsabili di certi reati, apprezzato positivamente il comportamento serbato pur in mancanza di collaborazione, significa - quanto a tanto si giunga nei confronti di persone delle quali sia in corso, anche con risultati positivi, il trattamento penitenziario - operare in possibile contrasto con la previsione costituzionale in discussione. 4. - Contrasto fra l'art. 15, secondo comma, del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306 e gli artt. 24, secondo comma e 111 alinea della Costituzione. L'art. 111 della Costituzione prevede che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati: e' stato piu' volte chiarito che la motivazione non puo' essere puramente formale ne' puo' consistere in mere clausole di stile (c.d. motivazione apparente) ma deve dare ragione dell'apprezzamento dei fatti e dei motivi di applicazione della legge da parte del giudice. Si e' gia' rilevata, sotto altro profilo, la sostanziale automaticita' della pronuncia che il magistrato o il tribunale di sorveglianza e' chiamato a rendere quando gli pervenga dall'autorita' di polizia la comunicazione di cui all'art. 15, secondo comma, del d.-l. n. 306/1992: si nota ora che il provvedimento di revoca da questa norma previsto deve essere, proprio perche' dovuto, adottato senza che il giudice possa esprimere alcun apprezzamento circa la sussistenza del presupposto di esso, essendogli in definitiva sottratta perfino la valutazione circa la riconducibilita' della situazione del singolo condannato alla fattispecie di cui all'art. 58- ter o.p. E' stato osservato che nell'ambito della revoca in argomento la funzione del giudice diviene puramente notarile e dichiarativa della volonta' altrui: essa pone capo pertanto alla adozione di un provvedimento che, per consistere in una mera presa d'atto, non puo' essere motivato. La norma che prevede la emanazione di tale provvedimento appare in modo non manifestamente infondato contrastante con l'art. 111 della Costituzione. Proprio quanto si e' notato a proposito della carenza di motivazione normale al provvedimento di revoca in argomento rende palese come non sia manifestamente infondata la questione relativa alla denunciata violazione dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione: posto che l'attivita' del giudice si esaurirebbe in una presa d'atto non preceduta da momenti valutativi, la stessa attivita' del difensore sarebbe del tutto impossibile non potendo la difesa nei casi come quello in esame, svolgere alcuna utile funzione di critica, di sollecitazione, di illustrazione del caso, in una parola, difensiva in senso proprio. Sollevata la questione di legittimita' costituzionale, il procedimento in corso resta sospeso. In questa situazione e' certo - dati i tempi tecnici - che una decisione nel merito da parte dell'intestato tribunale, non potra' intervenire entro trenta giorni dalla data (12 giugno 1992) di ricezione degli atti relativi alla revoca della semiliberta', secondo il disposto dell'art. 51- ter ord. pen. Di conseguenza non ha piu' alcun senso il decreto di sospensione adottato dal magistrato di sorveglianza ai sensi del predetto articolo; attesa infatti la natura cautelare del medesimo provvedimento, appare imprescindibile - se non altro in via teorica - il suo collegamento con il provvedimento di merito del quale deve assicurare gli effetti. Poiche', come si e' notato, detto provvedimento - stante la necessaria sospensione del procedimento instaurato in vista della sua adozione - non potra' intervenire nel termine massimo di legge, viene meno la strumentalita' della sospensione cautelativa, che non ha piu' alcuna ragione di essere e va percio' revocata. Il detenuto deve conseguentemente essere riammesso a godere del regime di semiliberta' disposto con ordinanza 20 febbraio 1990, del tribunale di sorveglianza di Cagliari secondo il programma di trattamento gia' stabilito ed in corso al momento del decreto 9 giugno 1992 del magistrato di sorveglianza di Sassari.