IL PRETORE
    Sciogliendo la riserva formula nel verbale di causa del  9  giugno
 1992,
                             O S S E R V A
    Con  ricorso  ex  art. 700 del c.p.c. del 3 giugno 1992 Fanigliulo
 Cosimo conveniva in giudizio il  comune  di  San  Giorgio  Jonico  in
 persona  del  sindaco  in  carica  e  tutti  i  consiglieri dell'ente
 predetto per i seguenti motivi: il ricorrente, con delibera del  c.c.
 del  comune  convenuto  del  27 aprile 1992, vistata dal Co.Re.Co. in
 data 15 maggio 1992,  veniva  dichiarato  decaduto  dalla  carica  di
 consigliere   comunale   per  essere  stato  cancellato  dalle  liste
 elettorali con provvedimento del 10 aprile 1992 della C.E.C.  Avverso
 tale  cancellazione  egli  attivava procedura di imputazione pendente
 innanzi alla corte d'appello di Lecce.
    Il provvedimento di cancellazione e la conseguente declaratoria di
 decadenza da consigliere comunale  venivano  adottati  in  base  alla
 legge  16  gennaio 1992, n. 15 (entrata in vigore il 6 febbraio 1992)
 e, per effetto della sentenza del tribunale di Taranto del 3 febbraio
 1992 con la quale l'istante veniva dichiarato fallito.
    Avverso tale decisione costui  aveva  proposto  opposizione  e  il
 relativo  giudizio  pende  innanzi alla prima sezione civile di detto
 tribunale.
    A  giudizio  del  ricorrente  erroneamente  C.E.C.  e C.C. avevano
 adottato nei suoi confronti i provvedimenti suindicati sia perche' la
 nuova normativa non poteva trovare  applicazione  retroattiva  e  sia
 perche' la sentenza dichiarativa di fallimento non era ancora passata
 in  giudicato,  essendo  in  tal  caso  la definitivita' della stessa
 presupposto necessario delle summenzionate  deliberazioni  vertendosi
 "in  materia di diritti di liberta' politica anche costituzionalmente
 protetti".
    Da tale punto di vista riteneva di poter richiedere  con  successo
 al  giudice  competente  (tribunale  di Taranto) l'annullamento della
 delibera  di  decadenza.  Nelle  more,  pero',  rischiava  di  subire
 pregiudizio   imminente   e   irreparabile  dalla  esecutorieta'  del
 provvedimento di esclusione dal consesso comunale. A  tale  proposito
 deduceva  che  stava  per  concludersi  la  fase di trattative per la
 risoluzione della crisi  amministrativa  con  la  formazione  di  una
 maggioranza  e  conseguente  elezione del sindaco. Nel caso in cui si
 fosse visto riconoscere il diritto di rimanere in  carica,  egli  non
 avrebbe potuto piu' rimuovere situazioni che, frattanto, si sarebbero
 anche  consolidate senza che avesse potuto contribuire, esercitando i
 suoi poteri-doveri, a determinarle cosi' come voleva la  legge  anche
 costituzionale.  Concludeva,  pertanto, chiedendo che l'adito pretore
 provvedesse a sospendere la delibera di decadenza della quale avrebbe
 domandato  l'annullamento  nel  giudizio  di   merito   che   avrebbe
 instaurato  innanzi al tribunale di Taranto. In subordine eccepiva la
 illegittimita' costituzionale della normativa prevista dalla legge n.
 15/1992 sostitutiva di quella  di  cui  al  d.P.R.  n.  223/1967  con
 riferimento  agli  artt.  48  e  3  della Carta costituzionale per le
 ragioni che avrebbe illustrato  in  sede  di  discussione.  Produceva
 copia  dei  provvedimenti  impugnati.  Con  decreto del 3 giugno 1992
 veniva fissata la comparizione delle parti per l'udienza del 6 giugno
 1992. A tale udienza il ricorrente chiedeva termine per  rinotificare
 il  ricorso  a  tre  consiglieri  comunali. La procedura veniva cosi'
 rinviata all'udienza del 9 giugno 1992  e  il  Fanigliulo  provvedeva
 all'incombente  il giorno precedente. A tale udienza, con memoria del
 6 giugno 1992, si costituiva solo il  consigliere  Pozzessere  Cosimo
 Damiano    ed   eccepiva   preliminarmente   l'inammissibilita'   e/o
 l'improponibilita' della domanda in quanto il  procedimento  ex  art.
 700 del c.p.p. non poteva trovare applicazione in subiecta materia.
   Le   impugnazioni  avverso  le  delibere  adottate  in  materia  di
 eleggibilita'  e  decadenza  a  (e/da)  consigliere  comunale   erano
 disciplinate  dalla  normativa processuale contenuta nell'art. 82 del
 d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, ed erano sottratte al  rito  ordinario
 (nella  cui dinamica poteva legittimamente trovare ingresso la misura
 cautelare  prevista  dall'art.  700  del  c.p.p.  ed   invocata   dal
 ricorrente)  essendo devolute alla cognizione del tribunale in camera
 di  consiglio  secondo  il  rito  previsto  per  i  procedimenti   di
 volontaria  giurisdizione.  Per  la  loro  soluzione, inoltre, veniva
 dettato un meccanismo processuale estremamente  celere  (che  rendeva
 superfluo  il ricorso alla cautela d'urgenza). Deduceva, poi, che non
 era  stato  in  alcun  modo  richiesto,  sollecitato  ed  attuato  il
 prescritto intervento obbligatorio del pubblico Ministero. Nel merito
 sosteneva  l'infondatezza  della  domanda  atteso  che il c.c. di San
 Giorgio Jonico si era limitato a sacire e a formalizzate la decadenza
 della controparte della carica di consigliere comunale quale  diretta
 ed  inevitabile  conseguenza  della  sua  cancellazione  dalle  liste
 elettorali in quanto imprenditore commerciale  dichiarato  fallito  e
 tanto   in   applicazione   della  normativa  vigente.  Rilevava  che
 correttamente  la  C.E.C.  aveva   adottato   il   provvedimento   di
 cancellazione  (anche  se  la  legittimita' di tale provvedimento non
 rientrava el thema decidendum) atteso che la ratio che aveva  indotto
 il  legislatore  a  prevedere  siffatta situazione andava ricercata e
 individuata nell'esigenza di dare immediata attuazione,  per  ragioni
 legate  alla  necessita' di moralizzare la vita pubblica e combattere
 la criminalita', ad uno dei  principi  ispiratori  dei  piu'  recenti
 provvedimenti  legislativi  in  materia  e cioe' quello di perseguire
 l'esclusione di alcune categorie di  cittadini  dalla  partecipazione
 (almeno  da  quella  attiva  e  apparente)  alla vita pubblica. Cosi'
 correttamente individuata la ratio ispiratrice della norma  contenuta
 nel  primo  comma  dell'art.  2  del  d.P.R.  20  marzo 1967, n. 223,
 modificato ed integrato dall'art. 1 della legge 16 gennaio  1992,  n.
 15, essa non poteva che trovare applicazione nei confronti di tutti i
 cittadini  che  si  fossero  trovati  nella  condizione  giuridica di
 "falliti" e per la durata (espressamente prevista) di cinque  anni  a
 far  tempo dalla data di pubblicazione della sentenza dichiarativa di
 fallimento. Tale interpretazione, lungi dal  costituire  un'eccezione
 al   principio   di   irretroattivita'  nell'applicazione  della  ius
 superveniens consentiva di dare attuazione alla ratio ispiratrice del
 provvedimento e non  creava  alcuna  disparita'  di  trattamento  tra
 cittadini. Anzi essa attuava il principio di uguaglianza estendendone
 l'applicazione  senza  tener  conto dell'epoca di pubblicazione della
 sentenza dichiarativa di fallimento  e  non  contrastava  i  principi
 costituzionali  sanciti  nell'art.  48  della  Costituzione  che, pur
 postio a garanzia dei diritti elettorali, tuttavia  contemplavano  la
 delega   al  Parlamento  della  funzione  di  adottare  provvedimenti
 normativi  che  ne  disciplinavano  l'esercizio.   Concludeva   detto
 Pozzessere per l'inammissibilita' ovvero per l'improponibilita' della
 domanda  e,  in  via gradata, perche' fosse ordinato l'intervento del
 p.m.; e, nel merito, per il  rigetto  di  ogni  avversa  pretesa  con
 vittoria  delle  spese  di  lite. Dopo che la causa veniva ampiamente
 discussa dai procuratori delle  parti,  il  giudicante  riservava  la
 decisione.
    Preliminarmente   va   affrontata  la  questione  di  legittimita'
 costituzionale della normativa  introdotta  dalla  legge  n.  15/1992
 sollevata  dal ricorrente. Il Fanigliulo e' stato dichiarato decaduto
 dalla carica di consigliere comunale ai sensi degli artt. 1 e 6 della
 legge 23 aprile 1981, n. 154, secondo  i  quali  "sono  eleggibili  a
 consiglieri  comunali  ..  gli  elettori  di  qualsiasi  comune della
 Repubblica"; mentre "la perdita  delle  condizioni  di  eleggibilita'
 previste  dalla  legge  (in  esame) importa la decadenza dalla carica
 (suddetta)". In assenza della capacita'  elettorale  attiva,  quindi,
 non  si  puo' assumere o mantenere la carica di consigliere comunale.
 La cancellazione  dalle  liste  elettorali  comporta  automaticamente
 l'ineggibilita'  ovvero  la  decadenza  da tale carica. Alla sentenza
 dichirativa di fallimento consegue  automaticamente  la  perdita  del
 diritto  elettorale  (v. artt. 1 e 9 della legge n. 15/1992 che hanno
 sostituito gli artt. 2 e 32, primo comma, n. 3 del  d.P.R.  30  marzo
 1967,  n.  223). Il ricorrente, anche se non le indica espressamente,
 certamente ha inteso censurare, sotto il profilo  dell'illegittimita'
 costituzionale  le due disposizioni da ultimo indicate poiche' la sua
 cancellazione dalle liste nonche' la pronuncia di decadenza  dal  suo
 incarico  di  consigliere  comunale e' stata operata sulla base delle
 stesse.
    L'art. 2, primo comma, n. 2 del d.P.R.  20  marzo  1967,  n.  223,
 disponeva  la  perdita  dell'elettorato  attivo  per i "commercianti"
 falliti. L'art. 32, primo comma, n. 3 medesimo d.P.R. collegava  tale
 effetto  al  passaggio  in  giudicato  della sentenza dichiarativa di
 fallimento. Tale disciplina sembra che sia mutata  con  l'entrata  in
 vigore  della  legge 16 gennaio 1992, n. 15. Tanto potrebbe ricavarsi
 da un'interpretazione letterale dalla nuova normativa. L'art. 1 della
 legge n. 15/1992, nel riformulare il n. 2 dell'art.  2  del  t.u.  n.
 223, ha sostituito la dizione "commercianti falliti" con l'altra piu'
 generica  "coloro  che sono dichiarati falliti"; mentre il successivo
 art. 9 della legge n. 15/1992, sostituito dal n. 3 dell'art.  32  del
 t.u.  n.  223,  ha  eliminato il riferimento alla definitivita' delle
 sentenze  e  degli  altri  provvedimenti  dell'a.g.  Sembra  che   il
 legislatore  abbia  voluto  raccordare la disciplina elettorale dello
 status di  fallito,  al  sistema  processuale  previsto  dalle  norme
 fallimentari   in   base  alle  quali  la  sentenza  dichiarativa  di
 fallimento e' "provvisoriamente secutiva" (art. 16, terzo  comma  del
 r.d.  16 marzo 1942, n. 267) e l'opposizione avverso la stessa non ne
 sospende l'esecuzione (art. 18, quarto comma, del r.d. n.  267/1942).
 Potrebbe  cosi' trarsi il convincimento che sia la non iscrizione dei
 falliti nelle liste elettorali e  sia  la  loro  cancellazione  dalle
 stesse,  dovrebbe  aver luogo in presenza di sentenza dichiarativa di
 fallimento,  a  prescindere  dall'esperimento  di  mezzi  di  gravame
 avverso   tale   sentenza   e,   a  maggior  ragione,  a  prescindere
 dall'irrevocabilita' di essa.
   Lamenta il  ricorrente  che  le  nuove  disposizioni  non  potevano
 trovare  applicazione nei suoi confronti per essere entrate in vigore
 in epica successiva alla dichiarazione  di  fallimento  avvenuta  con
 sentenza  del  tribunale  di Taranto del 3 aprile 1992. In verita' la
 legge n. 15/1992 e' stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del  22
 gennaio  1992  (serie  generale  n.  17);  pertanto, tenuto conto del
 periodo di vacatio di cui all'art. 10 delle "preleggi", e' entrata in
 vigore il 6 febbraio 1992. L'art. 11 della "preleggi" prevede che "la
 legge  non  dispone  che  per  l'avvenire;  essa   non   ha   effetto
 retroattivo".
    Non  sembra,  pero', che tale principio (salvo diversa valutazione
 in sede di pronuncia sul merito della questione da parte dell'odierno
 giudicante o  di  altro  giudice)  possa  trovare  applicazione  alla
 fattispecie in esame. Il problema da risolvere nel caso che ci occupa
 potrebbe essere quello relativo all'individuazione dell'oggetto della
 retroattivita' delle leggi.
    A  tal  proposito  si  e'  posta  particolare attenzione tra fatto
 produttivo di conseguenze e conseguenze stesse.
    Viene ritenuto che "in tema  di  retroattivita'  delle  leggi,  la
 legge  sopravvenuta deve essere comunque applicata quando il rapporto
 giuridico disciplinato, sebbene sorto anteriormente, non abbia ancora
 esaurito i suoi effetti  e  purche'  la  norma  innovatrice  non  sia
 diretta  a regolare il fatto o l'atto generatore del rapporto, ma gli
 effetti di esso" (v. Cass. 3 marzo 1979, n.  1350,  in  r.f.i.  1979,
 voce  Legge, decreto e regolamento, c. 1667, n. 32; 27 febbraio 1987,
 n.  2118,  ivi 1987, voce Assicurazione (contratto), c. 225, n. 184).
 Il principio di irretroattivita' sta a significare che la  disciplina
 di  ciascun  fatto  e  di  ciascuno stato di fatto va ricercata nella
 normativa del tempo in cui si verifica (tempus regit factum). Mentre,
 quindi, un fatto e cioe' un accadimento (es. la nomina ad un impiego,
 come anche la dichiarazione di fallimento), e' esposto soltanto  alle
 norme  vigenti al tempo del suo venire in essere, uno stato di fatto,
 e cioe' una situazione che si protrae nel tempo  (es.:  lo  stato  di
 impiegato, come anche lo stato di fallito) e' esposto a tutte le suc-
 cessive  discipline  giuridiche  entrate  in  vigore  nel corso della
 esistenza.
    In realta' in tale ultima  ipotesi  lo  ius  superveniens  sarebbe
 privo di effetto retroattivo in quanto verrebbe applicato ad uno sta-
 tus  e  cioe' ad una situazione esistente alla data della sua entrata
 in vigore ancorche' "generato" da un fatto disciplinato  dalla  legge
 precedente  (v.  Cass.  29 aprile 1982, n. 2705, in r.f.i. 1982, voce
 legge decreto e regolamento c. 1829, n. 391; Cass. 20 marzo 1969,  n.
 858, ivi voce cit., c. 1561, n. 23).
    Appare  evidente,  come, a questo punto, le disposizioni di cui e'
 stata denunciata l'illegittimita' costituzionale  trovino  necessaria
 applicazione  nel  presente giudizio nel senso che essa rappresentano
 il referente normativo cui fare riferimento per  definire  (in  senso
 favorevole  o sfavorevole) il procedimento introdotto dal ricorrente.
 Occorre, quindi, verificare se detto procedimento possa o meno essere
 definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
 legittimita' costituzionale.
    Le  limitazioni  al  diritto  di  voto previste dall'art. 48 della
 Costituzione riguardano tre categorie di cittadini:
       a) coloro che si trovano in situazione di incapacita' civile;
       b) i condannati con sentenza penale irrevocabile;
       c) coloro che sono colpiti da indegnita' morale.
    E' indubbio, poi, che tale norma "abbia  lasciato  al  legislatore
 piena  facolta'  di  stabilire  limitazioni  di  voto  per  categorie
 generali" (v. Cass. n. 4430/1979 in Resp. G. it. 79,  voce  Elezioni,
 n.  106),  una  volta  individuate in linea di massima le limitazioni
 stesse,  e  cio'  perche'  "solo  il   legislatore   ordinario   puo'
 trasfondere  in norma le valutazioni etico-politiche del dato momento
 storico". E' da escludere che l'incapacita'  elettorale  del  fallito
 derivi  dalla  sua incapacita' civile (come sostenuto dal procuratore
 del resistente in sede di discussione orale). Tale  incapacita',  per
 poter  giustificare  l'esclusione del diritto elettorale, deve essere
 "piena", mentre quella del fallito e' "relativa" perche'  si  estende
 solo  alle  attivita' il cui esercizio potrebbe riuscire lesivo per i
 diritti della massa dei creditori. Peraltro con l'art. 11 della legge
 n. 180/1978 il legislatore, abrogando l'art. 2, n. 1  del  d.P.R.  n.
 223/1967,   ha   eliminato   ogni  ostacolo  per  gli  interdetti  ed
 inabilitati per infermita' mentale che oggi possono partecipare  alla
 volonta' del corpo elettorale, pur non potendo esprimere alcunche' di
 giuridicamente valido quanto alla sfera dei loro personali interessi.
    Quindi  si  potrebbe  affermare  che la categoria dell'incapacita'
 civile cui la costituzione fa riferimento non ha piu'  valore,  posto
 che  essa  prendeva  in  considerazione  solo  gli  interdetti  e gli
 inabilitati per infermita' mentale, non trovando invece  applicazione
 per  i  prodighi,  per chi abusava di bevande alcoliche o di sostanze
 stupefacenti,  ne'  per gli affetti da cecita' o sordomutismo che non
 avessero ricevuto un'educazione sufficiente.
    Si  e'  detto  che  i  falliti  rientrerebbero   nella   categoria
 dell'indegnita' morale.
    A  tale  soluzione  si  e'  giunti facendo valere, oltre ad alcune
 disposzioni della legge fallimentare (come per es. la  riabilitazione
 civile  del  fallito  di  cui all'art. 142 del r.d. 16 marzo 1942, n.
 267), la considerazione che  la  minorazione  stabilita  dalle  leggi
 civili  a  carico  del  fallito  e' disposta quale sanzione del danno
 recato  alla  fede  pubblica  ed  alla  sicurezza  dei  traffici,  in
 conseguenza  della deficienza di attitudini dimostrata nell'esercizio
 dell'attivita' commerciale esplicata (v. in merito  Cass.  10  maggio
 1958, n. 1547, in giur. Cost., 1959, pag.  507). Peraltro vi e' stato
 chi  ha dubitato dell'appartenenza dei falliti a tale categoria e chi
 e' arrivato a dire che la norma che li riguarda  sarebbe  addirittura
 incostituzionale.   Cio'  sulla  base  della  considerazione  che  il
 fallito,  alcune  volte,  puo'  essere  esente  da  ogni   colpa   (e
 l'incremento  del numero dei fallimenti in periodi di crisi economica
 comprova l'esattezza del  rilievo)  e  che,  altresi',  il  reato  di
 bancarotta   semplice   non  e'  incluso  fra  quelli  che  importano
 privazione del diritto di voto. In passato, quindi, molto si e'  dis-
 cusso  circa  l'opportunita' della disposizione riguardante i falliti
 sino  alla  pronuncia  della  Corte  costituzionale  n.  43/1970  che
 dichiaro'  infondata  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
 sollevata a  proposito  dell'art.  2,  n.  2,  t.u.  n.  223/1967  in
 relazione  agli  artt. 3 e 48 della Costituzione (v. tale sentenza in
 G. Cost. 70,493 e segg.). Ma in passato  era  espressamente  previsto
 che  "l'indegnita' morale" e, quindi, l'incapacita' elettorale attiva
 di tale categoria di cittadini si verificassero solo al passaggio  in
 giudicato  della  sentenza  dichiarativa  di  fallimento (v. art. 32,
 comma primo, n. 3 del t.u.  n.  223/1967).  Per  altra  categoria  di
 cittadini,  resisi responsabili di fatti obbiettivamente piu' gravi e
 connotati da maggiore  disvalore  sociale  rispetto  alla  situazione
 determinata   dal   fallito,  la  precedente  disciplina  e'  rimasta
 inalterata nel senso che la perdita da parte di  tali  persone  della
 capacita'   in  questione  puo'  derivare  solo  da  sentenza  penale
 irrevocabile ovvero da provvedimento definitivo  dell'a.g.  (art.  48
 della  Costituzione  e  1,  primo  comma,  lett. b), c), d), ed e), e
 secondo comma della  legge  16  gennaio  1992,  n.  15).  Se  dovesse
 risultare  esatta  l'interpretazione  data  all'art. 9 della legge n.
 15/1992  come  innanzi  esposta,  sembra  che  il  legislatore,   nel
 formulare  tale  norma,  sia  incorso in una vera e propria "svista".
 Comunque non si puo'  non  esprimere  quanto  meno,  un  giudizio  di
 "omogeneita'"  tra  le  due situazioni raffrontate dal punto di vista
 della  gravita'  dei  comportamenti  e,  quindi,  tale   da   rendere
 difficilmente  giustificabile  (se  non irrazionale) la diversita' di
 trattamento riservata dall'ordinamento alle predette  due  situazioni
 (v. in merito Corte costituzionale n. 81/1979 e n. 209/1988 che parla
 di  "minimo  di  omogeneita'  necessario  per  l'instaurazione  di un
 giudizio  di  ragionevolezza").  Il   non   avere   il   Legislatore,
 quantomeno,  equiparato  il  "criminale  incallito" che ha perpetrato
 gravissimi delitti cui consegue l'interdizione perpetua dai  pubblici
 uffici  al "fallito" appare scelta che merita il controllo ex art. 3,
 primo comma, della Costituzione da parte del giudice delle leggi.
    Non  potrebbe  obbiettarsi,  (cosi' come ha dedotto il procuratore
 del  resistente  sempre  in  sede  di  discussione  orale),  che   la
 previsione  della  sentenza penale irrevocabile trova giustificazione
 anche nel principio contenuto nell'art. 27  cpv.  della  Costituzione
 (oltre  che  nell'art. 48 della Costituzione) atteso che il principio
 in parola, sotto il profilo oggettivo, concerne le sole garanzie rel-
 ative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato e, come tale,
 non puo' ricevere applicazione analogica in campi diversi (v.   Cass.
 n. 5481/1985).
    Peraltro  anche  per  coloro  che  sono  colpiti  dalle  misure di
 prevenzione di cui all'art. 3 della legge 27 dicembre 1956, n.  1423,
 come  da  ultimo modificato dall'art. 4 della legge 3 agosto 1988, n.
 327,  (cioe'  mafiosi  e  persone  abitualmente  dediti  a   traffici
 delittuosi  o  che  vivono  abitualmente  con i proventi di attivita'
 delittuosa), la perdita della  capacita'  elettorale  e'  subordinata
 alla   definitivita'   del   provvedimento   che  irroga  la  misura,
 contrariamente a quanto disposto per i falliti. Non sembra che  possa
 dubitarsi  del  fatto  che  la  situazione  in  cui  viene a trovarsi
 siffatta categoria di persone (socialmente  pericolose  dei  falliti)
 non confligge con il principio costituzionale di non colpevolezza (v.
 Corte costituzionale n. 6/1962, n. 23/1964 e n. 79/1969).
    Ultimo    problema    da    affrontare    e'    quello    relativo
 all'ammissibilita' della  cautela  d'urgenza  nella  materia  che  ci
 occupa.  E' chiaro che se il ricorso proposto dal Faniglulo non fosse
 ammissibile, sarebbe del tutto superfluo investire l'alta Corte della
 questione  surriferita.  Il  giudizio   elettorale   e'   attualmente
 disciplinato dall'art. 82 del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570.
    L'impugnativa    avverso   la   delibera   di   decadenza   o   di
 rineleggibilita' si propone con ricorso  al  tribunale,  ricevuto  il
 quale,  il  presidente fissa l'udienza di discussione della causa "in
 via d'urgenza" e provvede alla nomina  del  relatore.  Sono  previsti
 brevi termini perentori per la notifica e il deposito degli atti e la
 costituzione  delle parti. All'udienza, dopo la discussione, l'organo
 giudicante decide in camera di consiglio. E'  prevista,  inoltre,  la
 possibilita'  di  disporre mezzi istruttori con delega al relatore e,
 quindi, di differire la decisione all'esito  dell'espletamento  degli
 stessi.  Infine ai sensi dell'art. 82/3 del t.u. n. 570 "l'esecuzione
 delle sentenze emesse dal tribunale resta  sospesa  in  pendenza  del
 ricorso alla corte d'appello". Pertanto il procedimento in questione,
 anche  se  connotato  dal requisito dell'urgenza, non appresta alcuna
 cautela tipica in materia di sospensione degli effetti delle delibere
 di ineleggibilita'  o  di  decadenza.  Ma  quando  anche  si  volesse
 ravvisare  siffatta  cautela nella "rapidita" del procedimento (cosi'
 come sostenuto dal resistente), tuttavia essa  non  sarebbe  completa
 perche'  non  coprirebbe  gli eventuali pregiudizi che possono aversi
 anteriomente alla  costituzione  del  giudizio  di  merito  che,  fra
 l'altro,  potrebbe  durare  in maniera considerevole. Alla luce delle
 suesposte considerazioni, non sembra  che  il  ricorso  proposto  dal
 Fanigliulo  possa  incontrare  ostacoli  in ordine alla sua ipotetica
 ammissibilita'.