Ricorso  della  regione Lombardia, in persona del presidente della
 giunta regionale ing. Giuseppe Giovenzana, autorizzato  con  delibera
 della  giunta regionale n. 27339 del 10 settembre 1992, rappresentato
 e difeso dagli avv.ti prof.  Valerio  Onida  e  Gualtiero  Rueca,  ed
 elettivamente  domiciliato  presso  quest'ultimo in Roma, largo della
 Gancia 1, come  da  delega  in  calce  al  presente  atto  contro  il
 Presidente   del   Consiglio   dei   Ministri   pro-tempore,  per  la
 dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 1,  terzo  e
 quarto  comma,  del  d.-l.  11  luglio  1992, n. 333, recante "misure
 urgenti per il risanamento della  finanza  pubblica",  convertito  in
 legge,  con  modificazioni,  dalla  legge  8  agosto  1992,  n.  359,
 pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  n.  190  del  13  agosto  1992,
 nonche'  della  medesima legge di conversione n. 359/1992 nella parte
 in cui dispone la conversione in legge del predetto art. 1,  terzo  e
 quarto comma, del d.-l. n. 333/1992.
    Con  ricorso  notificato il 5 agosto 1992 e iscritto al n. 31/1992
 reg. ricorsi, la deducente regione  ha  impugnato  davanti  a  questa
 Corte i commi terzo e quarto dell'art. 1, del d.-l. 11 luglio 1992 n.
 333, concernenti rispettivamente la riduzione del fondo comune di cui
 all'art.  8  della  legge  n. 281/1970 e misure nel campo della spesa
 sanitaria.
    Si trascrive di seguito il testo del ricorso:
    1. - Sul fondo comune per le regioni.
    L'art. 1 della legge 14 giugno 1990, n. 158,  fissa  il  principio
 secondo  cui  "l'autonomia finanziaria delle Regioni e' garantita da:
 'fra l'altro' a) tributi propri e quote di tributi erariali accorpati
 in  un  fondo  comune  che  assicuri  il  finanziamento  delle  spese
 necessarie  ad  adempiere  a  tutte  le  funzioni  normali compresi i
 servizi di rilevanza nazionale ..". Detto fondo comune e' quello gia'
 previsto dall'art. 8 della legge 16 maggio 1970, n. 281,  commisurato
 a quote stabilite del gettito annuale di alcuni tributi erariali: fra
 questi l'imposta di fabbricazione sugli oli minerali, loro derivati e
 prodotti  analoghi,  per  la quale la quota di gettito confluente nel
 fondo  comune  era  fissata nel 15 per cento (art. 8, lett. a), della
 legge n. 281/1970).
    E' ben noto  come  negli  anni  recenti  il  legislatore  statale,
 contraddicendo   la   lettera   e  lo  spirito  dell'art.  119  della
 Costituzione, e  sostanzialmente  snaturando  lo  stesso  sistema  di
 finanziamento  delle regioni adottato con la legge n. 281/1970, e pur
 solennemente confermato con il citato art. 1 della legge n. 158/1990,
 abbia fatto ricorso all'espediente di fissare annualmente, in sede di
 legge finanziaria o di leggi di  accompagnamento  o  di  legislazione
 speciale,  la  quota  del gettito dell'imposta di fabbricazione sugli
 oli minerali, confluente nel fondo comune. A partire dal  1989  viene
 fissato  direttamente  dalla legge addirittura l'ammontare del fondo,
 "aggiustando" la quota del gettito devoluto in  modo  tale  che  essa
 venga a coincidere con la cifra fissata dallo stesso legislatore.
    Il  prospetto  che  segue  espone  le  quote di gettito devolute e
 l'importo del fondo per ciascuno degli anni dal 1982 (il  primo  dopo
 la  scadenza  della  disposizione  di  cui  all'art. 1 della legge 10
 maggio 1976, n. 356) al 1992:
 Anno   Quota    Importo fondo                  Fonti
       gettito
      devoluto
   -     -           -                            -
 1982  49,90%        -         art. 8, comma primo, legge 26 aprile
                                 1982, n. 181
 1983  49,93%        -         art. 4, comma primo, legge 26 aprile
                                 1983, n. 130
 1984  43,82%        -         art. 7, comma primo, legge 27 dicembre
                                 1983, n. 730
 1985  31,88%        -         art. 3, comma primo, legge 22 dicembre
                                 1984, n. 887
 1986  30,45%        -         art. 5, comma primo, legge 28 febbraio
                                 1986, n. 41
 1987  30,64%        -         art. 8, comma 21, legge 22 dicembre
                                 1983, n. 910
 1988  20,66%        -         art. 1, d.-l. 28 novembre 1988, n. 511,
                                 convertito in legge 27 gennaio 1989,
                                 n. 20
 1989  23,906%    6.401 md.    art. 1, legge 1 febbraio 1989, n. 40
 1990  13,18%     6.000 md.    art. 17, d.-l. 28 dicembre 1989, n.
                                 415, convertito in legge 28 febbraio
                                 1990, n. 38
 1991 12,42%      6.300 md.    art. 10, legge 29 dicembre 1990, n. 407
 1992 11,678%     6.957 md.    art. 5, legge 31 dicembre 1991, n. 415
   L'importo del fondo del 1992 e' comprensivo, ai sensi  dell'art.  5
 della legge n. 415/1991, di 374 miliardi destinati a fronteggiate gli
 oneri del rinnovo contrattuale, di cui all'art. 2, lett. b), del d-l.
 13  novembre 1990, n. 326, convertito in legge 12 gennaio 1991, n. 4.
 Nel 1992, dunque, al netto delle somme trasferite per fronteggiare  i
 nuovi  oneri  contrattuali, il fondo comune ammontava a 6583 miliardi
 (6957-374), cioe' ad un importo appena superiore in termini  nominali
 (per  l'esattezza  del  2,85%)  a  quello del 1989, cioe' di tre anni
 prima.  Cio', si badi, mentre il gettito complessivo dell'imposta  di
 fabbricazione  aumentava  considerevolmente,  anche  per  effetto  di
 aumenti di aliquote (cfr. ad es. art. 1 del d.P.R. 30 aprile 1986, n.
 137;  art.  1 del d.-l. 2 settembre 1987, n. 365, convertito in legge
 29 ottobre 1987, n. 446; art. 1 del d.-l. 19 settembre 1987, n.  383,
 convertito  in  legge  29  ottobre  1987, n. 451; art. 1 del d.-l. 13
 giugno 1989, n. 228, convertito in legge 28 luglio 1989, n. 277; art.
 7 del d.-l. 15  settembre  1990,  n.  261,  convertito  in  legge  12
 novembre  1990, n. 331; art. 8 della legge 29 dicembre 1990, n. 405).
 La conclusione che se ne trae e' che  lo  Stato  ha  progressivamente
 spostato  a  proprio  favore, e a danno delle Regioni, il riparto del
 gettito delle imposte in questione, riducendo in  10  anni  di  quasi
 l'80   la   quota   devoluta;   e   mediante   tali  "correzioni"  ha
 considerevolmente ridotto, in  termini  reali,  l'entita'  del  fondo
 comune  destinato  al  finanziamento  delle  funzioni  normali  delle
 regioni.   Le regioni hanno  subi'to  tali  riduzioni,  per  lo  piu'
 accettandole  nello  spirito  di  massima  collaborazione ai fini del
 contenimento del deficit del  bilancio  statale:  e  tuttavia  sempre
 hanno   rivendicato   un  ordinamento  della  finanza  regionale  che
 garantisca loro "autonomia finanziaria fondata su certezza di risorse
 proprie e trasferite", come solennemente si esprime, con disposizione
 riferita ai comuni e alle  province  ma  valida  a  fortiori  per  le
 regioni,  l'art.  54, secondo comma, della legge 8 giugno 1990 n. 142
 sull'ordinamento delle autonomie locali.
    Questa  Corte  non  ha  mancato,   anche   recentissimamente,   di
 "sottolineare  l'urgenza  di  una  compiuta razionalizzazione di tale
 sistema, al fine di assicurare adeguati punti di riferimento  per  la
 programmazione   di   bilancio   delle   Regioni",  e  l'obbligo  del
 legislatore  di  "ottemperare  al  principio  ..   della   necessaria
 corrispondenza tra bisogni regionali e mezzi finanziari" (sentenza n.
 369/1992).    Ma  la nuova disciplina della finanza regionale, ancora
 una volta "promessa" dall'art. 2, primo comma, della legge 14  giugno
 1990,  n.    158, non e' venuta alla luce: al suo posto - in perfetto
 contrasto con i principi che dovrebbero ispirare  tale  disciplina  -
 l'art.  1,  secondo comma, del d.-l. n. 333/1992 dispone ora nel modo
 seguente "Nel comma 2 dell'art. 5 della legge 31  dicembre  1991,  n.
 415,  le parole " .. e' ridotta all'11,678 per cento" sono sostituite
 dalle parole " .. e' ridotta al 10,50 per cento"  e  al  terzo  comma
 dello  stesso  articolo  le  parole  "  .. e' stabilito in lire 6.957
 miliardi .." sono sostituite con le parole " .. e' stabilito in  lire
 6.632 miliardi ..".
    Modificando  formalmente  la  disposizione che aveva fissato quota
 devoluta e importo del fondo per il 1992, si riducono nuovamente, per
 l'esercizio in corso, l'una e l'altro.  La riduzione di  piu'  di  un
 punto percentuale del gettito devoluto e di 325 miliardi dell'importo
 del  fondo  incide  dunque  sul  fondo  per  l'esercizio  1992,  gia'
 definitivamente fissato nel suo ammontare dalla legge finanziaria,  e
 gia'  ripartito fra le regioni.  Si tratta, si noti, del fondo comune
 il quale costituisce la piu' importante fonte di finanziamento  delle
 spese  necessarie  per  lo svolgimento delle "funzioni normali" delle
 regioni, ai sensi dell'art. 119, secondo comma,  della  Costituzione.
 Non  quindi  di  un qualsiasi finanziamento statale discrezionale o a
 destinazione   vincolata,   bensi'   della   principale   fonte    di
 alimentazione  di  quella  parte  del  bilancio  regionale  in cui si
 esprime la residua autonomia di spesa delle regioni.
    Orbene,  siffatta  riduzione  del  fondo,  per un importo cospicuo
 (circa il  5%),  disposta  quando  l'esercizio  finanziario  e'  gia'
 largamente inoltrato, quando i bilanci regionali sono stati approvati
 e assestati, quando le destinazioni di spesa e la ripartizione fra di
 esse  delle risorse disponibili sono gia' state stabilite - riduzione
 non accompagnata da alcuna indicazione di nuove entrate sostitutive -
 e' palesemente illegittima e lesiva dell'autonomia finanziaria  e  di
 spesa della regione.
    Questa   Corte,  nella  sentenza  n.  382/1990,  ha  ritenuto  non
 illegittimo l'art. 17 del d.-l. n. 415/1989, che fissava per il  1990
 la nuova quota di gettito confluente nel fondo comune e l'importo del
 fondo medesimo, affermando che esso "non svincola la composizione del
 fondo  comune  regionale  dalle  quote  di  tributi  erariali,  ma ne
 mantiene salvo, nella  sostanza,  l'ancoraggio".  Sia  consentito  di
 osservare  che  tale  ancoraggio  rappresentava  gia' allora piu' che
 altro una fictio, dato che  la  quota  del  gettito  devoluto  veniva
 ridotta  proprio  al  fine  di  attribuire  al  fondo  la  dimensione
 finanziaria che il legislatore statale aveva deciso di conferirgli (e
 questa, come si e' visto, e' ormai la prassi costante da molti anni).
    Ma in ogni caso e' evidente, quanto  meno,  che  l'ancoraggio  del
 fondo  al gettito di determinati tributi preclude operazioni legisla-
 tive che, in corso di esercizio, e senza alcun nesso con  l'effettivo
 andamento  del  gettito di quegli stessi tributi, riducono nuovamente
 la quota di devoluzione al solo fine di ridurre di un importo dato  e
 prestabilito  l'ammontare del fondo.  Come si fa a dire ancora che si
 devolvono alle regioni "quote di tributi erariali"? A questa stregua,
 qualsiasi finanziamento discrezionale, e discrezionalmente  disposto,
 dello   Stato   ad   altri  enti  potrebbe  essere  configurato  come
 devoluzione parziale del gettito di un tributo, dato che  ogni  somma
 trasferita   potrebbe  essere  agevolmente  espressa  in  termini  di
 percentuale del gettito (ormai conosciuto o  largamente  stimato,  ad
 esercizio  avanzato)  di  un  qualsiasi  tributo;  e  ogni  riduzione
 discrezionalmente disposta del trasferimento potrebbe essere espressa
 - verbalmente - in termini di  riduzione  della  quota  devoluta  del
 gettito di quel determinato tributo.
    Se  la  devoluzione di quote del gettito non ha da essere una mera
 lustra, un espediente verbale del legislatore,  e'  evidente,  quanto
 meno,  che  una  volta determinata la quota di riparto, l'entita' del
 gettito devoluto non puo' che essere, e  restare,  quella  risultante
 dall'applicazione   al   gettito   effettivo   della  percentuale  di
 devoluzione stabilita.  Ne' si dica che,  come  il  legislatore  puo'
 stabilire  la  quota devoluta prima dell'inizio dell'esercizio, cosi'
 la potrebbe  modificare  in  corso  di  esercizio.  L'ultimo  residuo
 significato dell'espressione costituzionale "sono attribuite .. quote
 di  tributi  erariali" e' almeno quello per cui l'entita' delle somme
 devolute   dipende   soltanto   dall'originaria   fissazione    della
 percentuale  di  devoluzione,  e  per  il  resto  dal  dato  fattuale
 dell'andamento del gettito, senza possibilita' di variazione in corso
 d'anno  per   discrezionale   decisione   dello   Stato.   Se   anche
 quest'ultimo,  residuo  significato  venisse vanificato attraverso la
 pretesa di modificare ad nutum, in corso di esercizio, la percentuale
 di devoluzione e conseguentemente l'entita' del gettito devoluto,  la
 previsione  costituzionale  diverrebbe  -  lo ripetiamo - mero flatus
 vocis.
    E'  tempo  dunque  che  la  Corte dica una parola chiara su questo
 punto  essenziale.  Le  regioni   debbono   sapere   se   l'autonomia
 finanziaria  di cui godono si fonda "su certezza di risorse proprie e
 trasferite", oppure sulla  volonta'  del  tutto  libera  -  e  dunque
 arbitraria  -  del  legislatore  statale,  il quale, senza vincoli di
 sorta, stabilisce e modifica in corso d'anno, come  e  quando  vuole,
 l'entita'  dei  trasferimenti.    Se le cose stessero in quest'ultimo
 modo, non si potrebbe parlare di autonomia  finanziaria:  le  regioni
 diverrebbero  definitivamente e in toto meri centri di spesa statale,
 attraverso i quali passano solo quei flussi di spesa che momento  per
 momento  gli  organi centrali intendono farvi passare. L'autonomia di
 cui parla l'art. 119 della Costituzione e' pero' un'altra cosa.
    Questa Corte si e' trovata altra volta  a  decidere  questioni  di
 legittimita'  di  disposizioni  legislative  statali che operavano in
 modo  analogo  a  quella  qui  in  esame:  e   ne   ha   riconosciuto
 l'illegittimita'.
    La  sentenza  n.  116/1991,  nel  dichiarare l'incostituzionalita'
 dell'art. 8, primo comma, lett. a, della legge 9 aprile 1990,  n.  87
 (interventi urgenti per la zootecnia), il quale sottraeva 140 milioni
 dal  finanziamento  gia'  previsto per le regioni, al fine di coprire
 una nuova spesa statale, rilevo  che,  sebbene  la  Costituzione  non
 vieti   "che   nuove  leggi  statali  intervengano  a  modificare  la
 legislazione preesistente,  anche  per  quanto  riguarda  i  proventi
 attribuiti  dallo  Stato  alle  regioni",  tuttavia  in quel caso "la
 lesione dell'autonomia finanziaria rappresentava la conseguenza della
 riduzione, operata nel corso dell'esercizio annuale, di una somma  da
 tempo  stanziata,  in relazione allo stesso esercizio, a favore delle
 Regioni  e  delle  province  autonome,  per  interventi  connessi   a
 competenze  rimaste invariate". "Una riduzione di risorse disposta in
 questi termini -  proseguiva  la  Corte  -  non  puo',  infatti,  non
 determinare    uno    squilibrio    nella    sfera    di    autonomia
 costituzionalmente garantita alle Regioni e alle  Province  autonome,
 stante  la  sua  possibile  incidenza su programmi di intervento e di
 spesa gia'  adottati  e  in  corso  di  svolgimento"  (sottolineature
 nostre).
    Orbene,  i  richiami della Corte si attagliano perfettamente anche
 alla disposizione qui impugnata. Anche qui vi e' riduzione, nel corso
 dell'esercizio, di una somma da tempo  stanziata  in  relazione  allo
 stesso  esercizio,  a  favore delle regioni per interventi connessi a
 competenze rimaste invariate: infatti il fondo comune  e'  inteso  ad
 assicurare  il  finanziamento  delle  spese  "necessarie ad adempiere
 tutte le funzioni normali" delle regioni  (art.  119,  secondo  comma
 della  Costituzione,  e  art.  1,  lett. a, della legge n. 158/1990).
 Anche qui si ha uno squilibrio nella  sfera  di  autonomia  garantita
 alle  regioni,  stante  l'incidenza  della riduzione sui programmi di
 intervento gia' adottati e in corso di svolgimento: infatti l'entita'
 del fondo come risultante dall'art. 5, secondo comma, della legge  n.
 415/1991  e'  stata  tenuta  a  base  nella  formazione  del bilancio
 regionale ed e' stata utilizzata  per  intero  per  il  finanziamento
 delle spese per le funzioni normali della regione.
    Anche in questo caso, dunque, e' violata, ed anzi piu' gravemente,
 per  l'entita'  della  riduzione  e  per la sua incidenza sulle spese
 normali  e  fondamentali  delle  regioni,   l'autonomia   finanziaria
 regionale.
    Non  varrebbe  certo,  a  giustificare  la  misura  in  questione,
 invocare l'esigenza per lo Stato di contenere la spesa e  di  ridurre
 il  deficit.    Nessuno contesta questi obiettivi: ma e' evidente che
 essi  non  possono  essere  perseguiti  alterando  le  regole  e  gli
 equilibri fondamentali della finanza autonoma delle regioni.
    Quando,  per indicare i settori di possibile riduzione della spesa
 pubblica, ci  si  riferisce  indiscriminatamente,  da  un  lato  alla
 sanita' o alla previdenza, dall'altro lato alla spesa delle regioni e
 degli  enti  locali,  si incorre in un vero e proprio errore logico e
 concettuale.  Mentre  infatti  sanita'  e  previdenza   rappresentano
 altrettanti   comparti   di   spesa   corrispondenti   a  determinate
 prestazioni a favore dei  cittadini,  regioni  ed  enti  locali  sono
 istituzioni  di  autonomia  chiamate  ad  adempiere alle piu' diverse
 funzioni ed ad assicurare ai cittadini i piu' diversi servizi.  Onde,
 mentre  per  sanita'  e  previdenza  e'  possibile  rendere  concreto
 l'obiettivo di contenimento della spesa stabilendo quali  prestazioni
 si  intendono ridurre o eliminare, quali azioni si intendono svolgere
 per eliminare sprechi o sacche di evasione contributiva, quali  forme
 di  nuova  o  maggiore  partecipazione dei cittadini al finanziamento
 dell'onere (attraverso aumenti contributivi, partecipazione al  costo
 dei servizi, ecc.) si intendono realizzare, al contrario quando ci si
 riferisce  alle spese delle regioni e degli enti locali, l'intento di
 contenimento e' solo un'astratta indicazione priva di senso,  poiche'
 non si sa in quali comparti di spesa si intende che siano operati dei
 tagli  o  attraverso  quali  strumenti possono essere acquisite nuove
 entrate sostitutive.
    In  realta',  regioni  ed  enti  locali  sono  da  un  lato   enti
 beneficiari di trasferimenti da parte dello Stato, ma dall'altro lato
 sono  soggetti  attuatori di spese rispondenti ad interessi generali.
 Non  ha  percio'  senso  predicare  in  astratto  una  riduzione   di
 trasferimenti  statali  (che allevia, certo, il bilancio dello Stato,
 ma crea automaticamente un corrispondente fabbisogno non coperto  nei
 bilanci regionali e locali), senza dire dove e come si ritiene che si
 possa  risparmiare  nelle  spese  per prestazioni a cittadini o per i
 servizi o per gli investimenti, demandate alle regioni  e  agli  enti
 locali.
    E'  allora  evidente  che  una  misura  "grezza"  come la semplice
 riduzione del fondo comune  a  esercizio  inoltrato,  si  palesa  per
 quello  che  e':  non  una  misura  di contenimento reale delle spesa
 pubblica, la' dove questo sia possibile e conveniente, ma un semplice
 "passare  la  palla"  alle  regioni,  addossando  loro   l'onere   di
 fronteggiare  quello  squilibrio  finanziario  che  si  e' preteso di
 sanare (sulla carta, cioe' sulle sole cifre del bilancio dello Stato)
 attraverso la riduzione dei trasferimenti.
    A questa puo' conseguire, a seconda dei casi, una riduzione  della
 spesa  (peraltro  largamente incomprimibile) o piu' plausibilmente un
 aumento del ricorso ad  altre  entrate,  tributarie  (se  vi  fossero
 margini  di autonomia impositiva) o da mutui (con conseguente aumento
 dell'indebitamento complessivo del settore pubblico).
    E' dunque evidente come la riduzione  del  trasferimento,  di  per
 se',  non  sia  significativa  ai  fini  degli  stessi  obiettivi del
 risanamento finanziario.   La riduzione  del  fondo  comune,  d'altra
 parte,  si traduce immediatamente e necessariamente nell'addossamento
 di un nuovo onere ai bilanci regionali.
    Dovrebbe   dunque   trovare   piena   applicazione   il  principio
 costituzionale secondo cui ogni legge,  la  quale  comporti  nuovi  o
 maggiori  oneri  per  i  bilanci  pubblici, deve indicare i mezzi per
 farvi fronte (art. 81, quarto comma  della  Costituzione).  Che  tale
 principio  valga  anche  nei  riguardi  delle  leggi  che  importano,
 anziche' aumento di spesa, diminuzione di entrate, e' pacifico, ed e'
 del resto testualmente affermato dall'art. 27 della  legge  5  agosto
 1978,  n.  468,  ai  cui  sensi "le leggi che comportano oneri, anche
 sotto forma di minori entrate, a carico dei bilanci degli  enti"  del
 settore pubblico allargato "devono contenere la previsione dell'onere
 stesso  nonche' l'indicazione della copertura finanziaria riferita ai
 relativi bilanci annuali e pluriennali".
    La disposizione impugnata, riducendo il  fondo  comune,  determina
 una  riduzione di entrate per le regioni: ma non indica in alcun modo
 la copertura finanziaria, violando  cosi'  l'art.  81,  quarto  comma
 della Costituzione e l'art. 27 della legge n. 468/1978.
    2. Sulla spesa sanitaria.
    L'art.  4, quinto comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, nel
 quadro delle misure di  contenimento  e  di  razionalizzazione  della
 spesa  sanitaria  disposte  con  detto articolo, ha stabilito che "in
 caso di spesa sanitaria superiore a quella parametrica  correlata  ai
 livelli  obbligatori uniformi di cui al primo comma non compensata da
 minori spese in altri settori, le regioni decidono  il  ricorso  alla
 propria   e   autonoma   capacita'  impositiva  ovvero  adottano,  in
 condizioni di uniformita' all'interno delle regioni, le altre  misure
 previste  dall'art.  29  della  legge  28 febbraio 1986, n. 41" (tale
 articolo riguarda la facolta' delle regioni di erogare prestazioni in
 forma indiretta "con partecipazione alle  spese  anche  differenziata
 per  reddito";  di  maggiorare le vigenti quote di partecipazione dei
 cittadini al costo delle prestazioni;  di  eliminare  temporaneamente
 dalle  prestazioni erogate a carico del servizio sanitario nazionale,
 o di configurare come prestazioni aggiuntive  erogate  a  carico  del
 bilancio  regionale,  una  o  piu'  categorie di prestazioni, fra cui
 quelle specialistiche  e  di  diagnostica  strumentale  a  domicilio,
 quelle  fisioterapiche,  quelle di ricovero ospedaliero in assistenza
 indiretta).
    In sostanza, si prevede che una parte della spesa sanitaria  gravi
 esclusivamente,  anziche'  sul  fondo  nazionale,  sui  bilanci delle
 regioni.  Tale previsione era strettamente collegata, peraltro,  alla
 fissazione  da parte del Governo dei "livelli di assistenza sanitaria
 da assicurare in condizioni di uniformita' sul territorio  nazionale"
 nonche'  degli  "standard  organizzativi e di attivita' da utilizzare
 per il calcolo del parametro capitario di  finanziamento  di  ciascun
 livello  assistenziale  per  l'anno  1992".  Lo  stesso art. 4, primo
 comma, prosegue precisando fra l'altro che  "il  parametro  capitario
 per  ciasucn  livello  di  assistenza  e' finanziato in rapporto alla
 popolazione residente" (lett. c), e che "per favorire la  manovra  di
 rientro  e'  istituito,  nell'ambito  delle  dispobilita'  del  Fondo
 sanitario nazionale, un  fondo  di  riequilibrio  da  utilizzare  per
 sostenere le regioni con dotazione di servizi eccedenti gli standards
 di riferimento" (lett. d).
    L'addossamento  dell'onere  alle  regioni  era dunque strettamente
 collegato e conseguente alla  fissazione  della  spesa  "parametrica"
 correlata  ai  livelli  obbligatori uniformi stabiliti dal Governo, e
 finanziata dal fondo nazionale:  solo  per  l'eccedenza  della  spesa
 rispetto  a  quella  "parametrica"  si  contemplava  l'obbligo  delle
 regioni di farvi fronte con i propri mezzi.   Lo  stretto  nesso  fra
 parametri  fissati  dallo  Stato (e conseguente finanziamento statale
 dei livelli di assistenza  uniformi)  e  responsabilita'  finanziaria
 delle   regioni   per   la  spesa  eccedente  e'  stato  sottolineato
 esplicitamente  da  questa  Corte  nella  recentissima  sentenza   n.
 356/1992,  che dichiara non fondate le questioni di costituzionalita'
 sollevate proprio nei riguardi di  alcune  disposizioni  dell'art.  4
 della legge n. 412/1991.
    In  essa  la  Corte rileva che le misure finanziarie (di riduzione
 delle quote del fondo sanitario a favore  di  alcune  regioni)  "sono
 dettate  in previsione dell'emanazione del decreto del Presidente del
 Consiglio dei Ministri che dovra' indicare i  livelli  assistenziali,
 gli  standards  organizzativi  ed  i  criteri  di  riparto  del fondo
 nazionale"; sottolinea che l'autonomia finanziaria ed  amministrativa
 delle  regioni  non  puo' dirsi violata da una norma che autorizza le
 regioni a contrarre mutui "qualora  esse  intendano  discostarsi  dai
 livelli di assistenza assicurati con criteri uniformi dallo Stato"; e
 ancora  ribadisce  che  "lo  Stato .. trasferisce alle regioni e alle
 province  autonome,  in  modo  da  garantire  livelli   uniformi   di
 assistenza,  i  mezzi  finanziari di cui e' in grado di disporre", il
 che non esclude che "sia ciascuna delle regioni  medesime  a  colmare
 alcune   lacune"   provvedendo   con   risorse  proprie  "qualora  si
 manifestino specifici bisogni nei rispettivi territori".
    Dunque, nella logica della pronuncia di questa Corte, in tanto  e'
 lecito  addossare nuovi oneri alle regioni per le spese sanitarie, in
 quanto lo Stato abbia provveduto a fissare e a finanziare  i  livelli
 uniformi  di  prestazioni  (la  spesa "parametrica"), onde la regione
 possa valutare se e come provvedere con mezzi propri a  sovvenire  ad
 esigenze ulteriori.
    Ora  l'art.  1, quarto comma, del d.-l. n. 333/1992 dispone invece
 che "le misure previste dall'art. 4, quinto  comma,  della  legge  30
 dicembre  1991,  n.  412,  si  applicano,  per  l'anno 1992, anche in
 assenza di livelli obbligatori uniformi di assistenza di cui al comma
 1 dello stesso articolo".
    La disposizione e' di significato alquanto oscuro. Le  "misure"  a
 cui  si  fa  riferimento sono, come si e' detto, previste dalla norma
 richiamata "in caso di spesa sanitaria superiore a quella parametrica
 correlata ai livelli obbligatori uniformi": si concretano percio' nel
 finanziamento regionale delle spese eccedenti quella parametrica.  Se
 dette  misure "si applicano" "anche in assenza di livelli obbligatori
 uniformi di assistenza", non e'  chiaro  in  che  cosa  esse  possano
 concretarsi, se non nel finanziamento a carico del bilancio regionale
 di una quota della spesa sanitaria del tutto indeterminata, in quanto
 non piu' commisurata al superamento dei parametri.
    Ma  porre  a  carico  della regione un onere indeterminato, per il
 finanziamento della spesa non eccedente i parametri corrispondenti ai
 livelli obbligatori uniformi (non stabiliti), equivale  ad  addossare
 "ai  bilanci  regionali oneri di spesa che non dipendono da decisioni
 imputabili alle  regioni":  il  che,  come  da  ultimo  ribadisce  la
 sentenza n. 369/1992 di questa Corte, richiamando anche la precedente
 giurisprudenza,  non  e'  legittimo, e contrasta con il "principio ..
 della  necessaria  corrispondenza  tra  bisogni  regionali  e   mezzi
 finanziari".
    Ne risulta violata dunque l'autonomia finanziaria della regione, e
 risulta  violato altresi' l'art. 81, quarto comma, della Costituzione
 (nonche' l'art. 27 della legge n. 468/1978 e l'art. 3,  sesto  comma,
 della legge n. 158/1990), in quanto si verrebbe ad addossare un nuovo
 onere   ai   bilanci  regionali  senza  l'indicazione  dei  mezzi  di
 copertura.