LA CORTE D'APPELLO ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale contro Dolazza Riccardo, nato a Milano il 22 marzo 1959, residente ivi Foro Buonaparte n. 59, elettivamente domiciliato presso il difensore di fiducia avv. Giuseppe Prisco in Milano via Podgora n. 15 e Kamenetzki Michele nato a Mosca il 3 dicembre 1919, domiciliato in Milano c/o la direzione del quotidiano "Corriere della Sera", via Solferino n. 28 difeso di fiducia dall'avv. Corso Bovio con studio in Milano, via Podgora n. 13, imputati; Dolazza: A) del delitto di cui agli articoli 595 del c.p., 13 (aggravante di aver attribuito fatti determinati) e 21 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 perche' quale autore della lettera che qui si intende interamente riportata dal titolo "In Foro Buonaparte l'ambiente non e' rispettato" apparsa sul periodico "Corriere della Sera" pubblicato in Milano l'8 aprile 1990, offendeva la reputazione di Vimercati Gianni Piero in proprio e quale rappresentante della "De Sanctis Self Services" affermando tra l'altro che la "Birreria Uno", gestita dalla De Sanctis, avrebbe ottenuto l'autorizzazione comunale per occupare una vasta area, solo per dare un esempio di indecenza al servizio di interessi economici personali, creando una situazione di degrado e dando luogo ad una sorta di immondezzaio nel centro storico di Milano, a causa della "scarsa o quasi totale assenza di manutenzione", lettera nella quale l'autore asseriva inoltre che la struttura costituiva il "ricettacolo per rifiuti di ogni genere (dalle siringhe ai cocci di bottiglia a indumenti smessi da barboni di passaggio)"; e nella quale insinuava che tale situazione veniva ignorata dalle autorita' comunali "per un particolare interesse che sfugge all'ingenuo cittadino"; Kamenetzki: B) del delitto di cui all'art. 57 del c.p., in relazione agli artt. 595 del c.p. 13 e 21 della legge 3 febbraio 1948, n. 47, perche', quale direttore responsabile del periodico "Corriere della Sera" pubblicato in Milano l'8 aprile 1990, ometteva di esercitare sul contenuto della lettera intitolata "In Foro Buonaparte l'ambiente non e' rispettato" il controllo necessario ad impedire che con essa venisse offesa la reputazione di Vimercati Gianni Piero in proprio e quale rappresentante della "De Santis Self Services", cui venivano attribuiti i fatti di cui al precedente capo A) FATTO E DIRITTO Con atto presentato in data 5 luglio 1990 Vimercati Gianni propose querela nei confronti dell'autore dell'articolo "In Foro Buonaparte l'ambiente non e' rispettato" apparso sul quotidiano "Corriere della Sera" pubblicato in Milano l'8 aprile 1990 e del direttore del medesimo giornale ritenendosi leso nella sua reputazione dal contenuto dello scritto. Le diffuse ragioni allegate dal querelante potevano riassuntivamente compendiarsi nel fatto che l'autore dello scritto incriminato, avvalendosi oltretutto dell'ampia risonanza legata alla diffusione del quotidiano, aveva gettato ampio discredito sulla ditta che gestiva il locale "Birreria uno" e su lui stesso che ne era il legale rappresentante, falsamente affermando che la presenza di tavole e panche sul marciapiede antistante Foro Buonaparte e via Ricasoli ad uso della locale "Birreria Uno", dava adito ad intrattenimenti notturni piu' volte sfociati in veri e propri schiamazzi, che lo stato di abbandono nel quale veniva lasciato detto spazio dalla chiusura del locale (ore 2,30) sino alla sera successiva era causa dell'accumularsi di rifiuti di vario genere lasciati tanto dagli avventori del locale che da drogati e dai vagabondi che vi trovavano rifugio nelle ore di chiusura dell'esercizio e che le istanze, gli esposti e le denunce all'autorita' comunale erano cadute nel vuoto o per un totale disinteresse del problema oppure per un particolare interesse che sfuggiva all'ingenuo cittadino. Espletate le indagini volte all'accertamento dell'identita' dell'autore della lettera pubblicata e del direttore responsabilita' del quotidiano, il p.m. presso il tribunale di Milano, con atto depositato in data 8 giugno 1991, formulo' richiesta di rinvio a giudizio del tribunale di Milano nei confronti di Dolazza Riccardo e Kamenetzky Michele per i reati in epigrafe. All'esito dell'udienza fissata ai sensi dell'art. 418 del c.p.p. e nel corso della quale la parte lesa chiese di essere ammessa alla prova per testi sui tempi e le modalita' di esecuzione delle operazioni di pulizia, pronuncio' sentenza nei confronti di entrambi gli imputati ravvisando per il Dolazza la ricorrenza dell'esinente di cui all'art. 51 del c.p. e per il Kamenetzky l'insussistenza del fatto allo stesso ascritto. Avverso tale pronuncia proposero appello il p.m., il p.g. e la parte lesa ciascuno ritenendola viziata sotto uno specifico profilo. Se, infatti, le censure del p.m. e della parte lesa si appuntarono sull'inidoneita' per vari motivi della documentazione fotografica ad attestare la veridicita' della situazione rappresentata nell'articolo, e sul rilievo che il primo giudice aveva acriticamente accettato la tesi difensiva sostenuta dagli imputati immotivatamente rifiutando sia l'analisi della particolare prova raccolta che l'esperimento degli atti istruttori proposti al fine della dimostrazione della tendenzionsita' dei criteri di acquisizione utilizzati, quelle del p.g. si soffermarono sulla constatazione che il tenore della norma di cui all'art. 425 del c.p.p., salvo a voler seguire un'interpretazione che avrebbe dovuto condurre alla denuncia di incostituzionalita' dell'articolo sotto il profilo di un eccesso di delega, induce ad escludere che al requisito dell'evidenza possa essere attribuito un contenuo diverso da quello perfettamente aderente al significato letterale del termine. All'odierna udienza camerale le parti hanno non solo ribadito le opinioni precedentemente espresse ma anche sollevato dubbi sulla legittimita' costituzionale delle norme di rito applicabili alla fattispecie opinando il p.g. che la previsione della possibilita' della pronuncia da parte del g.u.p. di sentenze di proscioglimento diverse da quelle di merito sarebbe riferibile ad un eccesso di delega, non essendo contenuta nella direttiva n. 52 della legge delega, la parte lesa che l'interpretazione letterale della norma di cui all'art. 577 del c.p.p. sarebbe in contrasto con il disposto di cui all'art. 24 della Costituzione e gli imputati che la norma di cui all'art. 577 del c.p.p. sarebbe in contrasto con i principi di cui agli artt. 3 e 112 della legge fondamentale dello Stato in ragione dell'evidente ed ingiustificata disparita' di trattamento riservata alle parti lese dei reati di ingiuria e diffamazione rispetto alle parti lese di altri reati anche piu' gravi e dell'innegabile sovversione del principio della titolarita' dell'azione penale. Tutte e tre le questioni di illegittimita' proposte appaiono rilevanti al fine della formazione della decisione ma solo per due di esse appare ricorrente anche l'ulteriore presupposto cui deve ritenersi condizionato l'obbligo di rimessione degli atti alla Corte costituzionale. Venendo ad esaminare partitamente i profili di illegittimita' sollevati si rileva che la parte lesa ha contrastato le eccezioni formulate dagli imputati quanto all'ammissibilita' del gravame autonomamente proposto assumendo che ove dovesse accogliersi l'interpretazione letterale sulla quale riposa la difesa sul punto dispiegata dagli imputati e la conseguente convinzione della limitazione del suo potere di impugnativa alle sole sentenze di assoluzione rese nella fase dibattimentale, dovrebbe necessariamente disporsi la sospensione del procedimento e la rimessione degli atti alla Corte costituzionale per il giudizio di legittimita' della predetta norma con riferimento ai precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 della legge fondamentale della Repubblica in ragione dell'ingiustificata disparita' di trattamento riservata alla parte lesa nelle varie fasi del procedimento e, soprattutto, a causa della violazione del diritto di difesa sancito dall'art. 24, secondo comma. Siffatte argomentazioni non appaiono convincenti soprattutto ove si tenga nel debito conto che la diversita' di regolamentazione del potere di intervento della parte lesa nel processo ha carattere sistematico e trova sostanziale corrispondenza nella diversa posizione che la stessa occupa nell'ambito delle varie fasi del processo e che in ogni caso la dedotta limitazione non lede l'essenziale diritto tutelato dal secondo comma dell'art. 24 della Costituzione. Dall'esame del combinato disposto di cui agli artt. 568 del c.p.p. che generalmente sancisce che il diritto di impugnativa e' riconosciuto a coloro ai quali la legge espressamente conferisce tale potere e di quelle di cui agli artt. 428 e 469 del c.p.p., si evince che alla persona offesa del reato, cui pure e' riservata dall'art. 576 del c.p.p. la facolta' di appello contro i capi della sentenza dibattimentale di assoluzione che riguardano l'azione civile, e' riservata, nella fase predibattimentale, la sola facolta' del ricorso per Cassazione limitata ai casi di nullita' ex art. 419 del c.p.p. ed addirittura negata alcuna partecipazione per il caso di proscioglimento prima del dibattimento. Le ragioni di siffatta diversita', del resto, sono ben note ed infatti a differenza di quel che accade per le sentenze penali irrevocabili di condanna o di assoluzione pronunciate a seguito di dibattimento e che hanno efficacia di giudicato nei giudizi civili o amministrativi per le restituzioni e il risarcimento del danno promossi nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero che sia intervenuto nel processo e nei confronti dei danneggati dal reato che si siano costituiti in parte civile o siano stati posti in condizione di costituirsi parte civile nel processo penale le sentenze pronunciate dal giudice per le indagini preliminari a norma dell'art. 425 del c.p.p. non sono di ostacolo all'esercizio dell'azione in sede civile ed il danneggiato dal reato puo' sempre esercitare l'azione in sede civile ancorche' si sia costituito in parte civile nel procedimento conclusosi con la pronuncia di proscioglimento ai sensi dell'art. 425 del c.p.p.. Appare quindi immediatamente evidente che il problema non puo' sorgere con riferimento alla pretesa disparita' di trattamento ma, semmai solo in relazione al fatto che la particolarita' della norma di cui all'art. 577 del c.p.p. e cioe' il fatto che alla parte offesa sia riconosciuta la facolta' di proporre appello anche ai fini penali, possa far dubitare della idoneita' della limitazione dell'esperibilita' dell'appello nei soli confronti delle sentenze dibattimentali ad operare la denunciata violazione del diritto di difesa. La soluzione del problema, ad avviso della Corte non puo' che passare per l'individuazione di quello che deve ritenersi essere il contenuto del diritto di difesa. Tale diritto, ad avviso della stessa Corte costituzionale, deve essere inteso come la potesta' di tutelare in giudizio le proprie ragioni onde e' evidente che anche nella fattispecie in esame la facolta' di autonomo appello anche agli effetti penali ha natura meramente strumentale rispetto all'esercizio del diritto della parte offesa all'esercizio del proprio diritto. E' fuor di ogni dubbio, infatti, che la persona offesa sia titolare solo del diritto alla restituzione e al risarcimento del danno ma non anche di quello volto alla punizione del reo spettando la pretesa punitiva unicamente allo Stato. Ne consegue che il diritto alla difesa della parte lesa dei delitti di ingiuria e diffamazione costituita in parte civile non e' in alcun modo violato dalla norma di cui all'art. 577 del c.p.p. la dove tale norma non attribuisce alla medesima parte la facolta' di impugnare la sentenza del g.u.p. perche' il diritto sostanziale puo' essere tutelato senza alcun pregiudizio in sede civile. Ne' puo' da ultimo trascurarsi il rilievo, piu' volte operato dalla stessa Corte costituzionale, che il diritto di difesa puo' essere diversamente regolamentato dal legislatore ed adattato alle varie esigenze purche' non ne siano pregiudicati lo scopo e le funzioni. Soluzione positiva deve invece darsi al problema della non manifesta infondatezza dell'eccezione di incostituzionalita' degli artt. 425 e 577 del c.p.p. prospettato dal p.g. e dagli imputati. Questa stessa Corte si e' gia' pronunciata in tal senso disponendo la rimessione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione della questione della legittimita' costituzionale degli artt. 425 del c.p.p. e 577 del c.p.p., rispettivamente in riferimento alla direttiva n. 52 dell'art. 2 della legge delega e 3, 77 e 112 della Costituzione. La ricorrenza di tale circostanza, la mancata prospettazione di considerazioni ed argomenti che possano far modificare il giudizio al proposito in precedenza espresso e l'intuitiva rilevanza della soluzione di tali questioni al fine della decisione del gravame all'esame della Corte, impongono la sospensione del giudizio sino alla pronuncia della Corte costituzionale ma non anche la trasmissione degli atti che appare ultronea attesa la sostanziale identita' tra le questioni all'attuale esame della Corte e quelle che hanno fondato oggetto dei provvedimenti di trasmissione dei quali s'e' appena detto.