LA PRETURA Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 3029/1992 rg. pretura Clusone, a carico di Bonadei Giuseppe (nato il 10 marzo 1963 a Clusone, res. Rovetta, via Tomasoni, 6, difeso da dott. proc. L. Valsecchi di fiducia); OSSERVA IL PRETORE Bonadei Giuseppe e' stato citato a giudizio per rispondere del furto aggravato di energia elettrica in danno di Zamboni Gemma, asseritamente commesso mediante allacciamento abusivo al contatore del bar di questa gestito, sino al 14 gennaio 1991. All'udienza del 27 marzo 1992, esaurita la fase degli atti preliminari, iniziava l'escussione dei testi, anzitutto la parte offesa Zamboni. Ad un certo punto, la Zamboni ha iniziato a riferire di dichiarazioni fattale dal Bonadei prima della denuncia. La difesa del Bonadei si e' strenuamente opposta alla verbalizzazione di tali dichiarazioni riferite dalla teste-parte offesa, facendo riferimento ad imprecisata giurisprudenza della sezione I della s.c. Par di comprendere che tale opposizione della difesa si ricolleghi al fatto che tale risposta, la quale potrebbe (eventualmente) consentire alla teste di fornire dichiarazioni rese da uno degli imputati (evidentemente prima dell'iscrizione nel registro delle notizie di reato del fatto per cui oggi si procede), non possa non ritenersi resa nel corso del procedimento, sicche', ai sensi dell'art. 62 del c.p.p. 1988, la testimonianza in parte qua sarebbe inammissibile. Non ignora, il pretore, che la suprema Corte, con l'unica pronuncia nota in materia - ossia la sentenza n. 3084 emessa dalla prima sezione (presidente C. Carnevale) in data 12 novembre 1990, alla quale par riferirsi la difesa - ha gia' avuto modo di statuire che le dichiarazioni, alle quali unicamente puo' riferirsi il divieto di cui all'art. 62 del c.p.p. sono quelle rese nel corso del procedimento, e dunque non in pendenza di esso. Ora, a prescindere che la distinzione suddetta non pare del tutto nitida, sfugge comunque, a questo giudice del merito, quale sostanziale differenza vi sia fra le dichiarazioni rese dall'indagato (non solo alla polizia giudiziaria ex art. 357 del c.p.p., ma anche semplicemente ad un quivis e populo, stante la assoluta generalita' del divieto di cui all'art. 62 del c.p.p.), durante le indagini preliminari successive alla formazione del fascicolo del pubblico ministero da un lato, e, dall'altro lato, le dichiarazioni rese a chicchessia magari ancor prima che pubblico ministero o polizia giudiziaria abbiano avuto sentore della pur remota configurabilita' di un reato. Ed infatti, quel divieto di riferire al giudice sulle dichiarazioni comunque rese dall'imputato, se si interpreta come esclusivamente riferito alle dichiarazioni rese dall'imputato durante il procedimento, appare affatto irragionevole, posto che potrebbe essere agevolmente aggirato con il riportare, le dichiarazioni indizianti, ad epoca anteriore all'iscrizione della notizia di reato (salvo forse alcune ipotesi di scuola nelle quali tale retrodatazione sarebbe problematica). Se invece si ipotizzasse l'assoluta inutilizzabilita' di qualunque dichiarazione comunque resa dall'indagato, come gia' stabilito dalla declaratoria di illegittimita' costituzionale parziale di cui alla sentenza n. 259/1991 di codesta Corte (ma in relazione alle sole dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria), e anzi, l'inutilizzabilita' di ogni dichiarazione, resa anche solo dall'indagaturo a persona che non appartenga alla p.g., si perverrebbe, a parere di questo pretore, ad un risultato del tutto irragionevole, giacche' si finirebbe per attribuire alla letterale locuzione impiegata dal legislatore delegato nell'art. 62 del c.p.p. (ma espressamente prevista dal legislatore delegante in alcuna delle direttive di cui alla legge n. 81/1987), la efficacia di impedire l'ingresso nel dibattimento di qualunque teste indiretto sul punto, senza che ve ne sia alcuna seria necessita'. A prescindere dunque dall'altro caso (ossia le dichiarazioni rese, durante il processo, alla p.g., per le quali vige l'assoluto divieto di cui all'art. 357 del c.p.p.), si pone quindi e comunque, in forza del generalissimo divieto di cui all'art. 62 del c.p.p., anche il problema delle dichiarazioni rese a chi non sia, come nella specie non e' ne' era la Zamboni, ne' ufficiale ne' agente di p.g. La ammissibilita' solo parziale delle testimonianze de relato sulle dichiarazioni rese dall'indagaturo, consentita appunto dall'art. 62 del c.p.p. (anche alla luce dell'interpretazione che di tale norma ha fatto il giudice di legittimita'), appare quindi del tutto irragionevole perche' tale norma, nel tentativo di escludere l'ammissibilita' delle dichiarazioni rese durante il processo, col riferimento alla persona sottoposta alle indagini preclude, in effetti, l'ammissione di qualunque testimonianza de relato comunque resa dall'indagato anche prima che egli fosse indagato. La violazione del principio di ragionevolezza appare quindi in contrasto coll'art. 3 della Costituzione. Inoltre, ponendo un argine invalicabile al giudice anche alla semplice assunzione della deposizione de relato, senza consentirgli invece di utilizzare criticamente tale dichiarazione indiretta, viola l'art. 111/1 della Costituzione, dacche' sostanzialmente impedisce al giudice di motivare adeguatamente la sua valutazione, la quale dovrebbe essere necessariamente libera non risultando eliminato il principio del libero convincimento in materia, delle complessive emergenze processuali. Insomma, sarebbe certo piu' ragionevole almeno consentire al giudice di far proseguire l'esame del teste anche in ordine dichiarazioni rese dall'imputato o indagato o indagaturo, indifferentemente rese prima o durante o nel corso del processo, per attenersi alla tassonomia adottata dalla suprema Corte, atteso che, comunque, il giudice dovra' in sentenza render conto dei criteri utilizzati per la valutazione della prova e quindi, se necessario, potrebbe in quella sede decidere che e' dubbio se le dichiarazioni furono rese dall'indagato che era gia' tale o dall'indagato in fieri. Ancora, poiche' nella legge di delegazione n. 87/1989 non vi e' alcuna direttiva idonea a giustificare il radicale divieto posto dalla norma denunciata, vi e' un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale, e precisamente la violazione dell'art. 76 della Costituzione per eccesso di delega. D'altro canto, il sistema costituzionale consente di ravvisare nell'esercizio dell'azione penale, non solo la finalita' di punizione dei responsabili di reati, ma anche quella di accertamento della verita'. E poiche', per l'accertamento della verita', non pare ragionevole prescindere apoditticamente ed apriooristicamente da quanto testimoni possono riferire di aver udito dall'imputato o indagato o indagaturo, si deve nuovamente prospettare la violazione del principio di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione. In forza di tutti gli argomenti svolti, considerata la non manifesta infondatezza della questione, e la sua rilevanza al fine del decidere, in questa fase dunque, unico potere legittimamente esercitabile dal giudicante, dopo la prospettazione della questione di legittimita' costituzionale, e' quello di sospendere il processo. Gli atti vanno percio' trasmessi alla Corte costituzionale per la relativa decisione, previ i necessari adempimenti di cancelleria; il presente processo deve essere sospeso.