IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha  pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 777/1991 r.g.,
 proposto da Raffaele Luca, rappresentanto e difeso dall'avv. Giuseppe
 Scillia, elettivamente domiciliato in Lamezia Terme, viale dei Mille,
 76,  contro  il  prefetto  di  Catanzaro  e,  per   esso,   Ministero
 dell'interno,  in  persona  del Ministro pro-tempore, rappresentato e
 difeso dall'Avvocatura distretturale dello Stato in Catanzaro, presso
 la cui sede domicilia per  legge,  per  ottenere  l'annullamento  del
 decreto  12  marzo  1991,  con  il  quale il prefetto di Catanzaro ha
 respinto l'istanza per il rilascio di licenza  di  porto  di  pistola
 avanzata dal ricorrente;
    Visto il ricorso con i relativi allegati;
    Visto  l'atto  di  costituzione  in  giudizio dell'amministrazione
 intimata;
    Viste le memorie prodotte dalle  parti  e  gli  atti  tutti  della
 causa;
    Uditi  alla  pubblica  udienza  del  19  giugno 1992 - relatore il
 giudice dott. Antonio Vinciguerra - l'avv. Giuseppe  Scillia  per  il
 ricorrente   e   l'avvocato   dello   Stato   Giuseppe   Malena   per
 l'amministrazioneresistente;
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue;
                               F A T T O
    Il   sig.  Raffaele  Luca  ha  adito  questo  tribunale  chiedendo
 l'accoglimento delle conclusioni in epigrafe sintetizzate.
    Il tribunale, esaminati i motivi di  ricorso  e  le  eccezioni  di
 parte  avversa,  ha  rilevato,  in sentenza, la conformita' dell'atto
 impugnato all'art. 11, secondo  comma,  ultima  parte,  del  r.d.  18
 giugno  1931,  n. 773, secondo cui "le autorizzazioni di polizia sono
 negate. . . . a chi non puo' provare la sua buona condotta".  Difatti
 a  fronte  di  un'accertata  querela  per  lesioni personali proposta
 contro l'interessato alla chiesta licenza di porto d'armi, costui non
 da' alcuna prova certa della insussistenza del  fatto  contestatogli,
 ovvero  della  non  incidenza di questo sulla sua buona condotta; non
 potendo valere, in proposito, per le ragioni esposte in sentenza,  il
 certificato  del  sindaco  del  comune  di residenza e l'estratto del
 casellario giudiziario esibiti agli atti di causa.
                             D I R I T T O
    Ritiene il  tribunale  che  l'applicazione  del  citato  art.  11,
 secondo  comma, ultima parte, del r.d. n. 773/1931 sostanzi contrasto
 con gli artt. 3, 24 e  97,  primo  comma,  della  Costituzione  e  ne
 derivi,  pertanto,  una  questione  d'illegittimita'  della  norma da
 sottoporre  al  giudizio  della  Corte  costituzionale,   in   quanto
 rilevante e non manifestamente infondata.
    Rilevante perche', per quanto evidenziato in separata sentenza, il
 riferimento  implicito all'art. 11 cit. sembra essere la sola ragione
 di legittimita' del provvedimento  impugnato,  determinante,  dunque,
 all'esame  nel  merito  dell'impugnativa,  la soccombenza della parte
 ricorrente.
    La questione, poi, si presenta  non  manifestamente  infondata  in
 primo  luogo  in ordine all'art. 3 della Costituzione. La garanzia di
 pari dignita' riconosciuta dalla norma a tutti i  cittadini  dovrebbe
 consentire  agli interessati, quale necessaria conseguenza, l'accesso
 ad attivita' subordinate ad assenso della pubblica autorita',  previo
 accertamento  dei  requisiti  di  legge.  Tuttavia l'art. 11, secondo
 comma, cit., nell'esigere da coloro che richiedono autorizzazioni  di
 polizia  una  generica  prova  di  buona  condotta, solo in apparenza
 rispettta la logica  costituzionale,  mentre  grava,  in  realta',  i
 soggetti  richiedenti  di una presunzione di cattiva condotta che non
 trova riscontro in diversi e analoghi  procedimenti  autorizzatori  o
 concessori,  nei quali la preventiva specificazione delle circostanze
 ostative al rilascio dei provvedimenti domandati o al prosieguo delle
 attivita' gia' permesse esclude che l'amministrato venga fatto carico
 dell'onere di provare una qualita' soggettiva che, proprio in ragione
 del principio di pari dignita' di tutti consociati,  dovrebbe  invece
 essere ritenuta sussistente fino a prova contraria.
    La  difformita' del precetto dell'art. 3 della Costituzione rileva
 anche qualora - rifuggendo dalla pura letteralita'  della  norma  che
 giustificherebbe  il  diniego  del  provvedimento  richiesto  anche a
 fronte della sola inerzia dell'amministrato in ordine alla  prova  di
 buona  condotta  -  si interpreti l'art. 11, secondo comma, cit., nel
 senso che l'onere probatorio del requisito di buona  condotta  ricada
 sull'interessato  solo  in  presenza  di  indizi contrari riscontrati
 dall'amministrazione si sicurezza pubblica (come la semplice denuncia
 o  querela  per  fatti  costituenti reato, ancorche' non abbiano dato
 luogo ad un processo  penale  o  non  siano,  comunque,  diversamente
 accertati).
    L'evidente  contraddittorieta'  tra  la  predetta  presunzione  di
 cattiva condotta - nascente dall'applicazione dell'art. 11 cit.  -  e
 il  riconoscimento  di pari dignita' per tutti i consociati impedisce
 che la norma del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza  venga
 giustificata  dal  peculiare  interesse pubblico connesso, rafforzato
 dalla necessita' di evitare abusi  delle  attivita'  da  autorizzare;
 altresi'  considerando  che questo potrebbe essere comunque garantito
 conservando   all'autorita'    deliberante    ampia    potesta'    di
 determinazione,  pur  entro limiti predefiniti, e consentendo le pre-
 ventive e necessarie indagini sulla condotta dei richiedenti.
    Un ulteriore profilo d'incostituzionalita' della norma e' dato dal
 contrasto tra essa e l'art. 24 della Costituzione.  Come  il  giudice
 costituzionale ha avuto occasione di rilevare (Corte costituzionale 9
 luglio  1974,  n.  214;  22  dicembre  1989, n. 568) il principio del
 diritto alla difesa e' violato da leggi che  ne  rendano  l'esercizio
 impossibile  o  estremamente  difficile.  In  specie  e'  l'eccessiva
 genericita' del contenuto precettivo  dell'art.  11,  secondo  comma,
 ultima  parte,  cit.  a  vanificare  o  comunque  rendere  ardua, nel
 giudizio  avverso  il  provvedimento  che  nega  l'autorizzazione  di
 polizia  richiesta,  la  prova  della propria buona condotta da parte
 dell'interessato, in quanto spesso rende necessari  all'uopo  -  come
 nel  caso,  a  fronte  di  querele  o  denunce  di  reato riscontrate
 dall'autorita' di pubblica sicurezza - poteri d'indagine che non sono
 pertinenti al contenzioso instauro.
    In ultima  ma  non  deteriore  analisi  deve  osservarsi  che  non
 potrebbe  sfuggire  a rilievi d'incostituzionalita' anche una lettura
 della norma in argomento che sia la piu' favorevole  all'amministrato
 -   per   quanto   contraria   al  testo  -  e  che  ponga  a  carico
 dell'amministrazione la prova  della  buona  condotta  necessaria  al
 rilascio  delle  autorizzazioni  di  polizia.  Infatti, non avendo il
 legislatore provveduto a delimitare la  clausola  generale  di  buona
 condotta  espressa  dall'art.  11  cit.,  la  ricerca  ad opera della
 pubblica autorita' dei comportamenti difformi  resterebbe  libera  di
 addentrarsi  nel  metagiuridico  e  di riflettere, in conseguenza, le
 opinioni personali e l'esperienza sociale dei titolari della potestas
 decidendi, dando cosi' spazio alla elusione dei principi di legalita'
 e d'imparzialita' cui, ai sensi  dell'art.  97,  primo  comma,  della
 Costituzione    -    poiche'    non   sembra   esaustiva   e   logica
 l'interpretazione che  ne  riferisca  il  precetto  al  solo  momento
 organizzativo  dell'apparato  pubblico  -,  deve  ispirarsi  l'azione
 amministrativa a garanzia di obiettivita'.