IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 1377 del 1992 proposto da Tursi Prato Giuseppe, rappresentato e difeso dall'avv. Mauro Leporace, unitamente al quale e' elettivamente domiciliato in Catanzaro, alla via Citriniti n. 5, presso l'avv. Antonio Pallone; contro: la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del presidente in carica; il Ministero dell'interno, in persona del Ministro pro-tempore; il Ministero per le riforme istituzionali e gli affari generali, in persona del Ministro pro-tempore; rappresentati e difesi dall'avvocatura distrettuale dello Stato di Catanzaro, per l'annullamento - previa sospensione - del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 10 giugno 1992, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 12 giugno 1992, con il quale e' stata disposta la sospensione del ricorrente dalla carica di consigliere della regione Calabria, nonche' per l'annullamento degli atti presupposti, connessi e conseguenti; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio delle amministrazioni in- timate; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti delle causa; Relatore alla camera di consiglio del 14 luglio 1992 il dott. Roberto Politi; uditi, altresi', l'avv. Leporace per il ricorrente e l'avv. dello Stato Malena per le amministrazioni resistenti; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue; F A T T O Espone il ricorrente di essere stato eletto consigliere della regione Calabria a seguito delle consultazioni tenutesi nel giugno 1990. Condannato con sentenza del tribunale di Cosenza alla pena di anni due e mesi otto di reclusione per il reato di tentata concussione, il medesimo interponeva appello avverso tale pronunzia con atto del 5 marzo 1992: il relativo procedimento risulta tuttora pendente. Avverso l'impugnato provvedimento - che ne ha disposto la sospensione dalla ricoperta carica elettiva in applicazione dell'art. 15, commi 1, lett. b), 4- bis e 4- ter della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificata ed integrata dalla legge 18 gennaio 1992, n. 16 - deduce i profili di illegittimita' di seguito esposti: Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 15, commi 1, lett. b), 4- bis e 4- ter della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificata ed integrata dall'art. 1 dalla legge 18 gennaio 1992, n. 16. Le norme richiamate consentono al Presidente del Consiglio dei Ministri di disporre la sospensione dalla carica di consigliere regionale di coloro che abbiano riportato una condanna, anche non definitiva, per determinati delitti (tra i quali, la concussione). Da tale fattispecie differirebbe pero' il tentativo di concussione che, risultando dalla combinazione delle ipotesi normative di cui agli artt. 56 e 317 del c.p. non puo' essere assimilato al reato consumato: dalla mancata previsione dei casi di reato tentato in seno all'applicabile (e richiamato) testo di legge il ricorrente deducendo conseguentemente l'inapplicabilita' della ricordata sospensione dalla rivestita carica pubblica elettiva. Sotto il profilo giuridico, la dedotta affermazione viene asservata affermandosi che il tentativo di concussione ( ex artt. 56 e 317 del c.p.) integra figura diversa ed autonoma rispetto alla concussione consumata ( ex art. 317 del c.p.): per l'effetto denunziandosi l'illegittimita' di un provvedimento - quale quello impugnato - che ha applicato una misura di indubbio carattere afflittivo al di fuori delle ipotesi da esso espressamente recate, con conseguente violazione del principio di tassativita'. Il ricorrente conclude per l'accoglimento del ricorso ed il conseguente annullamento dell'atto impugnato, del quale viene altresi' chiesta in via incidentale la sospensione dell'esecuzione. Costituitasi in giudizio per le intimate amministrazioni, l'avvocatura dello Stato eccepisce l'inammissibilita' dell'impugnativa (in quanto rivolta contro un atto asseritamente politico), comunque deducendone l'infondatezza nel merito. Delibata alla camera di consiglio del 14 luglio 1992 la proposta istanza cautelare, il collegio ha disposto la sospensione dell'esecuzione dell'impugnato decreto - giusta ordinanza n. 716/1992 in pari data - fino alla camera di consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte della Corte costituzionale, a seguito della decisione dell'incidente di costituzionalita' sollevato con la presente ordinanza. D I R I T T O Dubita il collegio della legittimita' costituzionale delle norme, applicabili al giudizio in esame, di cui all'art. 1, commi 1, lett. b) e 4-bis, della legge 18 gennaio 1992, n. 16, che ha sostituito le previsioni di cui all'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, per l'effetto determinando di rimettere d'ufficio all'esame della Corte costituzionale, in applicazione degli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la valutazione della relativa questione. 1. - L'art. 1 della legge n. 16/1992 sancisce al primo comma l'impossibilita' di essere candidati alle elezioni amministrative - e comunque di ricoprire talune cariche elettive, fra le quali quella di consigliere regionale, rilevante nel caso di specie - per coloro che abbiano riportato condanna penale, anche non definitiva, per delitti fra i quali e' ricompresa la fattispecie di cui all'art. 317 del c.p. (concussione); statuendosi al successivo comma 4- bis che, ove alcuna delle condizioni di cui al primo comma intervenga dopo l'elezione o la nomina, essa "comporta l'immediata sospensione dalle cariche sopra indicate". Tale misura - nella fattispecie applicata nei confronti del ricorrente con l'impugnato decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 10 giugno 1992 - appare rivestire carattere interinale e cautelare, anche alla luce del disposto del successivo comma 4-quinquies, che consente la pronunzia di decadenza del pubblico amministratore dalla data di passaggio in giudicato della sentenza di condanna (o da quella in cui divenga definitivo il provvedimento di applicazione di una misura di prevenzione). 2. - Premesso il quadro normativo di riferimento, va rammentato come nella fattispecie in esame il potere di sospensione riconosciuto dalla legge sia stato applicato a fronte di una condanna (resa in primo grado) per il reato di tentata concussione o, all'uopo svolgendosi le censure dedotte dalla parte ricorrente circa l'asserita illegittimita' dell'operata equiparazione tra l'espressa ipotesi, risultante dalla norma ex art. 1 cit., della concussione ( ex art. 317 del c.p.) e quella del tentativo di concussione configurabile alla stregua del combinato disposto di cui agli artt. 56 e 317 del c.p.): per la quale ultima si assume la non assimilabilita' alla prima sotto il profilo giuridico ed ontologico, con conseguente lamentata violazione del principio di tassativita', che presidierebbe la concreta operativita' delle prescrizioni sanzionatorie, quale appunto quella in esame. Riveste dunque il carattere di fondamentale snodo logico-giuridico la comprensione dell'esatta portata applicativa della norma dall'amministrazione invocata a sostegno dell'adottata determinazione, con particolare riferimento alla problematica della interpretabilita' - o meno - delle fattispecie criminose previste dal legislatore non soltanto con riguardo alle ipotesi di reato consumeto, bensi' anche a quelle di tentativo. 3. - Un primo dato dal quale il collegio non ritiene possa prescindersi in sede di interpretazione normativa e' rappresentato dal tenore letterale della norma de qua: al riguardo rilevandosi come alla elencazione dei riferimenti codicistici recanti l'individuazione delle figurae criminis per le quali il legislatore ha ritenuto applicabile, anche al ricorrere di una sentenza penale di condanna non definitiva, la misura sospensiva sopra ricordata sub. 1 (indicazione della cui tassativita' non e' lecito dubitare, atteso il chiaro carattere di illegittimita' costituzionale di una previsione, indubbiamente afflittiva, che si rivelasse "aperta" ad operazioni ermeneutiche di carattere estensivo o, ancor peggio, analogico), sia del tutto estranea la esplicitazione del "tentativo" (e della relativa coordinata normativa, rappresentata dall'art. 56 del c.p.). Il collegio e', al riguardo, ben consapevole della intrinseca fragilita' argomentativa rappresentata da un iter logico unicamente svolgentesi attorno al rilevato dato testuale della mancata previsione, fra le ipotesi "sanzionabili" con la sospensione dalla (ricoperta) carica elettiva, del tentativo (accanto alla menzionata consumazione), relativamente ai reati elencati alla lett. b) del primo comma dell'art. 1 della legge n. 16/1992: il relativo percorso potendo condurre, peraltro, alla (sola) eventuale declaratoria di illegittimita' del decreto presidenziale all'esame e giammai al dubbio di legittimita' costituzionale che il tribunale remittente intende invece sollevare. Al contrario, e' proprio la letterale non riscontrabilita', accanto alle figure che rappresentano lo stadio consumativo del reato, anche delle fattispecie di tentativo, a far ritenere possibile (e, nel caso in esame, a valutare come positivamente realizzatasi) un'operazione di "apertura" del contenuto della norma, idonea a ricomprendervi anche le fattispecie criminose non perfezionatesi: con conseguente omogenea irrogabilita' della misura afflittiva (sospensione dalla carica elettiva) a fronte di presupposti penali (sia pur di accertata consistenza, ma pur sempre) di diversa gravita' (non necessita certo, al riguardo il riferimento all'attenuata sanzionabilita' del tentativo di reato, giusta le indicazioni di cui all'art. 56 del c.p.), alla quale accederebbe la violazione del fontamentale principio di eguaglianza, sancito all'art. 3 della Costituzione. 4. - Nella delibazione dell'incidente di costituzionalita', che il tribunale intende proporre con la presente ordinanza, non si e' potuta pretermettere la dovuta considerazione per le argomentazioni svolte dalla adunanza plenaria del Consiglio di Stato nel rimettere alla Corte costituzionale (ordinanza n. 15 del 29 giugno 1984) la questione di legittimita' dell'art. 85, lett. A), parte seconda, del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, nella parte in cui era prevista la destituzione del pubblico dipendente a seguito di condanna in sede penale, senza distinguere a seconda che si fosse trattato di condanna per un delitto tentato o consumato. Pur nella consapevolezza, per altro gia' manifestata dall'adunanza plenaria, circa un rilevabile orientamento della magistratura amministrativa volto a svalutare, nella sostanza, la differenziazione - pure codicisticamente sancita - tra reato consumato e tentativo, in relazione al disvalore sociale comunque configurato da un iter criminis non compiutamente svolto e dalla compromissione in ogni caso rappresentata per i principi di imparzialita' e buon andamento della p.a. dalla prosecuzione del rapporto di impiego con un soggetto resosi responsabile penalmente, vanno ribadite le perplessita' a suo tempo manifestate dal giudice remittente, che nella fattispecie ancor piu' risaltano alla luce delle ricadute applicative della norma - ex legge n. 16/1992 - all'esame. 4.1. - Nel richiamare l'accenno, di cui supra ( sub 3), alla diminuita pena per il reato tentato prevista rispetto al delitto consumato, va in questa sede ribadita la configurazione del (tentativo) in termini di alterita' rispetto alle fattispecie criminose (ordinariamente previste in una logica di necessario perfezionamento della figura penalmente rilevante) rispetto alle quali, di volta in volta "aderendo" la norma ex art. 56 del c.p. (e per l'effetto venendosi a delineare un'ipotesi complessa, risultante dalla combinazione di distinte previsioni, dalla quale il reato, originariamente previsto come "perfetto" viene ad essere "diminuito" in relazione a piu' o meno accentuati stadi di mancata realizzazione di almeno taluno degli elementi configurati dal legislatore), viene appunto ad assurgere giuridico rilievo - e concreta attitudine sanzionatoria - la fattispecie del delitto tentato. Pur senza voler richiamare l'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale - ben nota peraltro a codesta Corte - che ha reiteramente avvalorato la "novita'" ed "autonomia" rappresentate dal reato "tentato" rispetto al reato "perfetto" (sia in relazione alla diversa, e minore pena applicabile al primo, che al necessario concorso normativo per la stessa giuridica configurabilita' delle ipotesi di "tentativo"), va comunque soggiunto come la punibilita' stessa del delitto tentato non possa comprendersi disgiuntamente dalla volonta' del legislatore di reprimere comportamenti che, lungi dal rappresentare una fattispecie direttamente lesiva per l'ordinamento (in quanto il relativo perfezionamento si sostanzi nella vulnerazione di interessi protetti), si configurano invece quali evidenze di mero pericolo (e, quindi, di sola accentuata probabilita' di attitudine lesiva), senza che si sia ritenuta necessaria (ai fini della irrogazione di una pur attenuata pena) la ricorrenza di quell'evento (trasformazione della realta' conseguente a comportamenti penalmente rilevante) che pienamente integra la consumazione del reato. Tale ragionamento - e, con esso, la evidente distinguibilita' a livello stesso di allarme o danno sociale riveniente dalla commissione di fattispecie delittuose - necessariamente induce l'esigenza di differenziazione del reato consumato da quello (semplicemente) tentato: laddove tale necessita' e' stata evidentemente ritenuta dal legislatore penale (che ha, appunto disciplinato una norma di carattere generale, quale l'art. 56 richiamato, onde pervenire alla configurazione del tentativo), irragionevole si manifesterebbe la reductio ad unum operabile attraverso l'omogeneizzazione di condotte che, diversificandosi quanto alla percorrenza dell'iter consumativo (o di perfezionamento della fattispecie) risultino egualmente idonee a condurre a medesime conseguenze afflittive. Tali ricadute appunto appaiono al collegio riconducibili al censurato disposto ex art. 1 della legge n. 16/1992 sospettandosi la illegittimita' costituzionale della applicazione delle misure di sospensione adottabili a carico delle categorie di soggetti ivi indi- cate non soltanto per le espresse ipotesi di reato consumato, ma anche per condanne che, come nel caso del ricorrente, abbiano inflitto la pena per il solo tentativo delittuoso. 4.2. - Brevi considerazioni vanno altresi' condotte in relazione alla peculiarita' afflittiva recata dalle disposizioni in esame. Con esse, infatti, viene ad operarsi una pratica "sterilizzazione (ancorche' non necessariamente definitiva) del mandato elettivo dai cittadini conferito mediante lo svolgimento di libere elezioni, nell'esercizio di quel diritto-dovere di voto che costituisce indefettibile principio di concorso a partecipazione alla vita democratica della Nazione". La sostanziale "ablazione" delle conseguenze di tale esercizio (consistenti nella nomina dei rappresentanti popolari in seno alle assemblee elettive regionali), se puo' essere giustificata in relazione alle potenzialita' lesive indotte sulla libera determinazione degli organismi collegiali dalla presenza di membri condannati per reati di particolare gravita' o comunque inducenti allarme sociale e/o pericolo per un regolare svolgimento delle funzioni costituzionalmente connesse agli organi di primario rilievo nell'ordinamentodelle regioni, non altrimenti puo' essere apprezzata in un ambito di necessaria legalita', qualora si svolga al di fuori del rigoroso rispetto (e della puntuale osservanza) delle ipotesi che una tale deroga eccezionalmente consentono. Si vuole, in altri termini, affermare che la gravita' dell'atto che determina la sospensione dalla carica di un rappresentante elettivo della collettivita', da questa democraticamente e liberamente designato in seno al consiglio regionale, non puo' trovare conforto che nel ristretto e tassativo ambito discrezionalmente disegnato dal legislatore a presidio di superiori pubblici interessi che appunto consentono di disporre la misura della temporanea (in quanto la revoca del mandato viene determinata solo a seguito di condanna definitiva) inibizione allo svolgimento della funzione pubblica elettiva. Se infatti l'assimilabilita' di conseguenze sanzionatorie si dimostra, secondo quanto da questo tribunale affermato, irragionevole e lesiva del principio di trattamento paritario ove conseguente ed accertate responsabilita' penali per reati consumati o (solamente) tentati, rincarata valenza di opinabilita', sotto il profilo della legittimita' costituzionale, riveste una siffatta (consentita) applicazione afflittiva ove con esse si vengano ad incidere, in maniera cosi' accentuata e pervasiva, i diritti di elettorato attivo e passivo, la cui diretta protezione a livello di fondamenti dell'ordinamento repubblicano evidentemente postula che vengano elise quelle previsioni legislative inducenti una distorta attuazione provvedimentale di carattere indistintamente penalizzante. 5. - Le considerazioni sopra svolte inducono pertanto il tribunale a rimettere all'esame della Corte costituzionale la questione di legittimita' della norma di cui all'art. 15 della legge n. 55/1990, cosi' come modificato dall'art. 1, commi 1, lett. b), e 4- bis della legge 18 gennaio 1992, n. 16, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto la prevista sospensione dalla carica di consigliere regionale, a seguito di condanna penale non definitiva, possa essere comminata senza distinguere a seconda che si tratti di delitto consumato e di delitto tentato. Alla non manifesta infondatezza della questione, come sopra illustrata, va altresi' soggiunta, a termini di legge, la rilevanza del dubbio di costituzionalita' della ricordata norma, conseguente alla considerazione che, nell'ipotesi in cui il giudizio rimesso alla Corte dovesse concludersi con una pronunzia di illegittimita' costituzionale, nei termini sopra illustrati, il provvedimento impugnato si rivelerebbe illegittimo, con riveniente effetto di piena reintegrazione del ricorrente nella carica elettiva dalla quale e' stato sospeso in applicazione delle disposizioni qui censurate. Va pertanto disposta la sospensione del presente giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione della prospettata questione di legittimita' costituzionale.