LA CORTE D'APPELLO
    Ha   pronunciato   la   seguente  ordinanza  nel  procedimento  di
 esecuzione promosso dal  procuratore  generale  presso  questa  Corte
 d'assise  d'appello  in data 21 febbraio 1991 per ottenere il rigetto
 dell'istanza in data 14 febbraio  1991  con  cui  il  condannato  Isa
 Giuliano  aveva  chiesto,  fra  l'altro,  di  voler procedere a nuovo
 provvedimento di unificazione delle pene inflitte  dando  atto  della
 ordinanza 23 novembre 1990 della Corte d'assise d'appello di Milano.
    Con  ordinanza  24  maggio  1990,  la  Corte d'assise d'appello di
 Cagliari, in esito al procedimento  di  esecuzione  promosso  da  Isa
 Giuliano, ai sensi dell'art. 671 del c.p.p., rigetto' la richiesta di
 applicazione della disciplina della continuazione ai reati oggetto di
 undici   sentenze   di  condanna,  dieci  delle  quali  comprese  nel
 provvedimento di cumulo emesso dal  procuratore  generale  presso  la
 Corte d'assise d'appello di Milano il 20 maggio 1987, poi rettificato
 il 17 gennaio 1990, e l'ultima (l'undicesima) pronunciata dalla Corte
 d'assise  d'appello  di  Cagliari  il  14  febbraio  1989,  diventata
 irrevocabile il 29 gennaio 1990.
    Contro tale ordinanza l'Isa propose  ricorso  che  venne  respinto
 dalla  Corte di cassazione con sentenza in camera di consiglio n. 534
 del 5 febbraio 1991.
    Mentre prendeva il suddetto ricorso, il  condannato,  con  istanza
 del  10  e  del 17 luglio 1990 ripropose la richiesta di applicazione
 della disciplina del reato continuato alla Corte  d'assise  d'appello
 di  Milano,  limitandola  ai  reati di cui al provvedimento di cumulo
 emesso dalla procura generale di Milano il 20 maggio 1987  e  tacendo
 non  solo che nel frattempo era divenuta esecutiva una nuova condanna
 di altro giudice ma  anche  che  analoga  richiesta  era  gia'  stata
 respinta  dal  giudice  competente in quel momento per l'esecuzione e
 cioe'  dalla  Corte  d'assise  d'appello  di   Cagliari   che   aveva
 pronunciato  la sentenza di condanna divenuta irrevocabile per ultima
 (art. 665 del c.p.p.).
    La Corte d'assise d'appello di Milano accolse, con  ordinanza  del
 23  novembre  1990,  la  richiesta  dell'Isa,  determinando  la  pena
 complessiva per il reato continuato in  nove  anni  di  reclusione  e
 sulla  base  di  quest'ultima ordinanza, non impugnata, il condannato
 chiese al procuratore generale di Cagliari un nuovo provvedimento  di
 unificazione  della  pena,  affinche'  la  carcerazione  sofferta  in
 eccedenza rispetto ai  nove  anni  di  reclusione  (corrispondente  a
 quattro  anni,  otto mesi e tredici giorni) fosse detratta dalla pena
 (pari ad anni 5 e mesi 6 di  reclusione)  irrogata  con  la  sentenza
 della Corte d'assise d'appello di Cagliari.
    Quest'ultima   Corte,   investita  della  questione  dal  pubblico
 ministero, quale giudice dell'esecuzione, dichiaro'  non  applicabile
 l'ordinanza  della  Corte d'assise d'appello di Milano nella presente
 esecuzione a  carico  dell'Isa  (nel  frattempo  raggiunto  da  altro
 giudicato  di  condanna  sempre  della  Corte  d'assise  d'appello di
 Cagliari), ritenendola  improduttiva  di  effetti  giuridici  perche'
 manifestamente illegittima ed in contrasto con gli schemi del vigente
 ordinamento processuale.
    Contro   tale  ordinanza  l'Isa  propose  ricorso  per  Cassazione
 deducendo la violazione dell'art. 669 del c.p.p. e la suprema  Corte,
 accogliendo  il  ricorso,  con  sentenza  del  26 marzo 1992 annullo'
 l'ordinanza impugnata e rinvio' per una nuova deliberazione a  questa
 Corte,  sul  rilievo  che  si  trattava  di  un  caso di contrasto di
 giudicati per cui, allo  stato  attuale  della  legislazione,  doveva
 darsi  concreta  attuazione  a  quello piu' favorevole al condannato,
 "sebbene ne  risultasse  suggerito,  agevolato  e  reso  praticamente
 efficace  l'espediente  della  richiesta plurima ai sensi degli artt.
 666 e 671 del c.p.p.
    All'odierna udienza, fissata per la trattazione  del  procedimento
 di  esecuzione in sede di rinvio, il procuratore generale ha eccepito
 la illegittimita' costituzionale  dell'art.  669,  primo  comma,  del
 c.p.p.,  in relazione agli artt. 25 e 3 Cost., nella parte in cui non
 prevede che, nel  caso  di  contrasto  fra  giudicati,  debba  essere
 eseguito quello emesso dal giudice naturale, anche se meno favorevole
 al reo.
    La questione sollevata non appare manifestamente infondata.
    Il   principio  stabilito  dal  primo  comma  dell'art.  25  della
 Costituzione prevede che nessuno puo'  essere  distolto  dal  giudice
 naturale precostituito per legge.
    Giudice  naturale  e'  quello che secondo la legge e' competente a
 conoscere il fatto. La ratio della norma e' di  assicurare  il  retto
 ordinamento della funzione giurisdizionale garantendo al cittadino la
 certezza  circa  il giudice che dovra' giudicarlo, ma anche impedendo
 che sia lo stesso  giudice  a  creare  discrezionalmente  ipotesi  di
 spostamento   della   competenza   (sentenza   n.   122/1963)  e  che
 l'accertamento dei presupposti legali relativi dipenda da valutazioni
 non suscettibili di sindacato ad iniziativa ed a tutela  delle  parti
 (sentenza n. 130/1963).
    Tale    principio,   secondo   la   giurisprudenza   della   Corte
 costituzionale, di applica a tutte le  fasi  del  processo,  compresa
 quindi  anche  quella  esecutiva  che  e'  assistita  dalle  garanzie
 giurisdizionali ed in cui sono previsti precisi e dettagliati criteri
 per la precostituzione del giudice competente (art. 665 del c.p.p.).
    E' stato ritenuto che il principio costituzionale di cui si tratta
 non risulta violato nei casi in cui la legge preveda la  possibilita'
 di  spostamenti  di  competenza  da  un  giudice ad un altro, purche'
 anch'esso  precostituito,  allorche'   siano   resi   necessari   per
 assicurare  il rispetto di altri principi costituzionali, come quello
 dell'indipendenza ed imparzialita', o l'altro dell'ordine e  coerenza
 nella  decisione  di  causa  fra loro connesse. La nozione di giudice
 naturale non si cristallizza infatti nella determinazione legislativa
 di una competenza  generale,  ma  si  forma  anche  di  tutte  quelle
 disposizioni  le  quali  derogano  a  tale competenza sulla basee' di
 criteri che razionalmente valutino i disparati interessi in gioco nel
 processo.
    Al  principio  costituzionale indicato sono collegate le norme del
 codice di procedura penale che dettano gravi sanzioni di  nullita'  e
 di  annullabilita'  per  il  mancato  rispetto,  nel  processo, delle
 condizioni di capacita' del  giudice  o  dei  criteri  di  competenza
 predeterminati  dalla  legge  processuale  penale.  Nessun rimedio e'
 ovviamente  piu'  possibile  qualora  il   provvedimento   passi   in
 giudicato,  peraltro  il  problema  puo' riproporsi quando - come nel
 caso in esame - si abbia la formazione di due giudicati  contrastanti
 derivanti  proprio  dal  mancato  rispetto,  da  parte di uno dei due
 giudici, delle norme sulla competenza.  Tali  norme  sono  dirette  a
 rendere   concreto  il  precetto  costituzionale  di  cui  si  tratta
 attraverso una serie di garanzie  che  dovrebbero  impedire  che  due
 giudici  si  trovino legittimamente investiti della stessa questione.
 Qualora peraltro cio' accada e si arrivi addirittura alla  formazione
 di  due  giudici diversi, a causa del mancato funzionamento anche del
 rimedio previsto dall'art.  649  del  c.p.p.,  la  legge  processuale
 penale  (art.  669  del  c.p.p.)  prevede  che  si  debba eseguire il
 provvedimento piu' favorevole al condannato, previa revoca di  quello
 meno  favorevole,  in  applicazione  del  principio  del  favor  rei.
 Quest'ultimo non e' pero' un principio costituzionale, mentre  lo  e'
 quello della precostituzione del giudice naturale.
    Il legislatore attraverso la disciplina del contrasto di giudicati
 contenuta   nell'art.   669  del  c.p.p.  ha  quindi  sacrificato  la
 applicazione di un principio costituzionale per applicare un altro di
 rilievo non costituzionale. Il che non pare consentito.
    Chiaramente se invece che in un caso di contrasto di giudicati  si
 fosse in presenza di un solo giudicato, pur se proveniente da giudice
 incompetente,  la  questione  non  si  porrebbe poiche' il sistema di
 preclusione insito nel giudicato impedisce che si possa ulteriormente
 dedurre la  incompetenza  del  giudice  e  cio'  appare  giustificato
 dovendosi  pur  porre un punto fermo alla possibilita' di eccepire la
 incompetenza. Ma  il  sacrificio  della  applicazione  del  principio
 costituzionale   del   giudice   naturale   non  appare  invece  piu'
 giustificato quando i giudicati siano due ed uno provenga dal giudice
 competente. In questo caso il ricorso, per dirimere il  contrasto,  a
 criterio diverso da quello della prevalenza del giudicato proveniente
 dal giudice naturale appare in tutta la sua incongruenza, specie se -
 come  si  e'  verificato  nella  fattispecie  in esame - sia stato lo
 stesso  condannato  a  provocare  volontariamente  il  contrasto   di
 giudicati,   facendo   ricorso,   dopo  avere  ottenuto  un  giudizio
 sfavorevole dal giudice competente, ad altro giudice incompetente, al
 fine di potere poi scegliere a suo piacimento quale giudicato mettere
 in esecuzione.
    La applicazione, in una fattispecie  sifatta,  del  principio  non
 costituzionale del favor rei porterebbe ad una applicazione aberrante
 di  una  disposizione  favorevole  del  reo  poiche'  consentirebbe a
 quest'ultimo di trarre vantaggio dall'uso  di  un  espediente  contra
 legem  quale  quello  di  adire,  dopo  una pronuncia sfavorevole del
 giudice  competente,  altri  giudici,  prospettando  a   questi   una
 situazione   diversa   dalla   realta'  ed  idonea  astrattamente  ad
 incardinare la loro competenza.
    Tale ultima considerazione rende poi evidente anche  il  contrasto
 fra  l'art.  669  del c.p.p. ed il principio di ragionevolezza insito
 nell'art. 3 della Costituzione.
    Appare  pure  violato  il  principio  di cui all'art. 101' secondo
 comma, della Costituzione.
    Il principio dell'indipendenza del giudice esprime l'esigenza  che
 questi  riceva  soltanto  dalla  legge  le regole da applicare quando
 armonizza la sua decisione alle valutazioni  che  la  legge  da'  dei
 rapporti,  degli atti e dei fatti. Esigenza che non appare rispettata
 quando sia imposto al giudice di conformare il suo convincimento alla
 pronuncia di  un  giudice  incompetente  pur  in  presenza  di  altra
 pronuncia   proveniente   dal   giudice  legalmente  investito  della
 questione.
    La questione e'  altresi'  rilevante  nel  procedimento  in  esame
 poiche' la Corte di cassazione, con la sentenza 26 marzo 1992 con cui
 ha  rinviato  la  procedura  esecutiva  davanti a questa Corte per un
 nuovo esame, ha gia' stabilito che si verte in un caso  in  cui  deve
 trovare  applicazione  l'art. 669 del c.p.p., stante la contemporanea
 sussistenza di due provvedimenti con  cui  si  e'  deciso,  in  senso
 contrastante,   sulla   applicazione   della   disciplina  del  reato
 continuato, non interessando a tal fine la coincindenza solo parziale
 dell'oggetto dei  plurisi  provvedimenti.  Si  tratta  d'altronde  di
 principi  ormai  consolidati  in  dottrina  ed in giurisprudenza, che
 trovano la base normativa anche nel sesto  comma  dell'art.  669  del
 c.p.p.  e che, allo stato attuale della legislazione, comporterebbero
 la applicazione del giudicato piu' favorevole a reo  e  cioe'  quello
 emesso  dalla  Corte  d'assise  d'appello  di  Milano,  nonostante la
 mnifesta   ed   oggettiva   illegalita'   dello   stesso    affermata
 esplicitamente anche dalla Corte di cassazione con la sentenza del 26
 marzo 1992.