All'udienza dibattimentale del 23 ottobre 1992, ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento iscritto al n. 4066/92 r.g. (n. 1598/90 r.g.n.r.) nei confronti di De Benedetto Silvana, nata a Scalea il 21 dicembre 1970: Mazzei Matteo, nato a Scalea il 2 dicembre 1956: De Benedetto Mario, nato a Scalea il 10 giugno 1941, imputati tutti: a) della contravvenzione prevista e punita dall'art. 20, lett. c), della lege 28 febbraio 1985, n. 47, in relazione all'art. 1-sexies della legge n. 431/1985 per avere realizzato lavori edilizi consistenti in ampliamento al confine di fabbricato esistente con un locale di mq. 40 ca. con copertura in lamiera ubicato nel centro storico senza il prescritto nulla osta regionale e ministeriale; b) della contravvenzione p. e p. dagli artt. 3, 17, 18 e 20 della legge 2 febbraio 1974, n. 64, per avere eseguito lavori di costruzione senza il preavviso scritto ed il progetto imposto dalla normativa per le zone sismiche, per avere iniziato i lavori di cui sopra senza la preventiva autorizzazione scritta dell'ufficio del genio civile ed in violazione della normativa tecnica per le sone sismiche; la prima: c) del reato p. e p. dall'art. 20, lett. c), della legge n. 47/85 per avere realizzato il manufatto di cui al capo a) senza la concessione edilizia in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ambientale. Accertato in Scalea il 19 maggio 1990 PREMESSO IN FATTO Con decreto del 19 dicembre 1991 De Benedetto Silvana, Mazzei Matteo e De Benedetto Mario venivano tratti a giudizio davanti a questo pretore per rispondere dei reati di cui ai capi a) e b) in epigrafe. Prima dell'apertura del dibattimento De Benedetto Silvana e De Benedetto Mario chiedevano l'applicazione della pena di giorni 7 di arresto e L. 14.000.000 di ammenda ciascuno per i reati suddetti, unificati nella continuazione, previo riconoscimento delle attenuanti generiche. Il p.m. negava il consenso "perche' allo stato degli atti non risulta la violazione di cui all'art. 20, lett. c) della legge n. 47/1985". Nel corso del dibattimento il p.m. ai sensi dell'art. 517 del c.p.p., contestava alla sola De Benedetto Silvana il reato concorrente di cui al capo c) in epigrafe. Richiesto ed ottenuto il termine a difesa, la De Benedetto, all'odierna udienza, ha richiesto l'applicazione della pena di giorni 8 di arresto a L. 15.000.000 di ammenda per i tre reati ad essa ascritti unificati nella continuazione, previa concessione delle attenuanti generiche. Il p.m., pur concordando sulla pena, ha negato il consenso rilevando l'inammissibilita' del rito essendo decorso il termine di cui all'art. 446, primo comma del c.p.p. La difesa, a questo punto, ha eccepito l'illegittimita' costituzionale di tale ultima norma e degli artt. 517 e 519 del c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione. CONSIDERATO IN DIRITTO Ritiene il pretore che il dubbio di legittimita' costituzionale prospettato dalla difesa vada condiviso. Non c'e' dubbio, come rilevato dal p.m., che la procedura di cui agli artt. 444 ss. non e' applicabile ai reati contestati ai sensi degli artt. 516 e 517 del c.p.p. L'art. 446 del c.p.p., infatti, nel fissare il limite dell'apertura del dibattimento, funzionale all'esigenza diflattiva del rito, non prevede deroghe ne' lascia spazi interpretativi in senso diverso. Tenuto conto che, per il resto, la richiesta formulata e' formalmente corretta. La questione prospettata e' quindi certamente rilevante nel presente giudizio. L'imputato che subisce la contestazione suppletiva si viene a trovare, per effetto della disposizione suddetta, in posizione deteriore rispetto a chi della stessa imputazione sia chiamato a rispondere fin dall'atto introduttivo del giudizio. Allo stesso modo viene inciso il diritto di difesa in quanto, nel sistema processualmente disegnato dal legislatore del 1988, la facolta' di provocare la definizione anticipata del processo rappresenta una delle legittime opzioni dell'imputato al fine di salvaguardare il proprio interesse di fronte alla protesta punitiva statuale. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 593/1990 e, successivamente, con l'ordinanza n. 213/1992 e con la sentenza n. 316/1992, ha affermato la legittimita' della preclusione all'adozione dei riti speciali nelle ipotesi di contestazioni suppletive. Ha osservato la Corte che "l'interesse dell'imputato trova cioe' tutela solo in quanto la sua condotta consenta l'effettiva adozione di una sequenza procedimentale che, evitando il dibattimento e contraendo le possibilita' di appello, permette di raggiungere quell'obiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore ha inteso perseguire con l'introduzione del giudizio abbreviato e piu' in generale dei riti speciali" (cosi' sentenza n. 593/1990). Nel caso in esame, a parere di questo pretore, il principio suddetto non vale a conferire ragionevolezza al vulnus della posizione dell'imputato conseguente all'applicazione della normativa vigente. La De Benedetto, in realta', aveva tempestivamente richiesto l'applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 del c.c.p. Il p.m. ha dissentito, non contestando la determinazione della pena, ma l'imputazione da egli stesso formulata, che non intendeva modificare il limine litis. Dalla prova testimoniale raccolta nel corso del dibattimento, peraltro, tale dissenso appare ingiustificato in quanto l'area ove l'imputata avrebbe realizzato l'ampliamento oggetto della contestazione risulta sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi delle leggi nn. 1947/1939 e 431/1985. La De Benedetto, pertanto, vede preclusa la possibilita' dell'adozione del rito speciale con riferimento al reato oggetto della contestazione suppletiva, non dalla propria libera determinazione in ordine al rito da adottare, ma dalla condotta dell'organo di accusa, il quale, dapprima ha negato il consenso al patteggiamento sui reati originariamente contestati, paventando un proscioglimento ex art. 129 del c.p.p., evidentemente sulla base della valutazione degli atti contenuti nel proprio fascicolo, successivamente, preso atto delle emergenze dibattimentali, ha da una parte trovato conforto all'originario assunto accusatorio, dall'altra ha proceduto alla contestazione del nuovo reato. A fronte di un dissenzo formulato nei termini suddetti, la rigorosa applicazione della logica premiale che informa la disciplina dei riti semplificati, posta a fondamento delle pronunce della Corte costituzionale sopra richiamate, non sembra potersi giustificare. L'imputato, di fronte al sissenso del p.m. motivato da ragioni estranee alla determinazione della pena, si trova nell'impossibilita' di evitare il dibattimento e di sottrarsi alla contestazione suppletiva. Cio' a meno di voler condurre alle estreme conseguenze la logica suddetta, cosi' da imporre all'imputato di autoaccusarsi di un reato concorrente per prevenire l'eventuale contestazione nel corso del dibattimento. Sembra sussistere, pertanto, sia la violazione del principio di uguaglianza, essendo una valutazione discrezionale ed insindacabile del p.m. a condizionare il rito da appliare ed a privare l'interessato dei benefici connessi al procedimenti speciali, sia la violazione del diritto di difesa, in quanto tale determinazione unilaterale dell'organo di accusa priva l'imputato di una delle possibili opzioni processuali. Tali violazioni, peraltro, appaiono processuali. Tali violazioni, peraltro, appaiono vieppiu' aggravate quando, come nel caso in esame, il dissenso del p.m. appare ingiustificato all'esito del dibattimento. In tale ultima ipotesi, sotto altro profilo, non vale a salvaguardare la posizione dell'imputato, l'eventuale applicazione dell'art. 448, primo comma, del c.p.p., in quanto riferibile alla sola imputazione originaria, con conseguente impossibilita' di applicare, stante l'intangibilita' della richiesta dell'imputato, a parte le ipotesi in cui la pena patteggiata sia superiore a quella da applicare per l'altro reato, la continuazione tra i reati originari e quello contestato in udienza. In ogni caso, poi, l'art. 448 non garantisce all'imputato i benefici di cui agli artt. 444 ss. del c.p.p. con riferimento al nuovo reato.