IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    Per deliberare in merito all'istanza di affidamento  in  prova  al
 servizio  sociale,  presentata dal condannato Mandolesi Remo, nato il
 26 settembre 1955 a Porto San Giorgio (Ascoli Piceno), domiciliato in
 Porto S. Elpidio (Ascoli Piceno), via Ungaretti  n.  26,  attualmente
 ristretto presso la casa circondariale di Pesaro, in espiazione della
 pena  detentiva  di  anni tre, mesi sei e giorni venti di reclusione,
 siccome comminata, oltre alla pena pecuniaria  di  L.  22.222.223  di
 multa, dalla sentenza pronunziata in data 9 dicembre 1991 dalla corte
 di  appello  di  L'Aquila  la  quale, in esito a giudizio abbreviato,
 riconosceva la penale  responsabilita'  del  prevenuto  in  ordine  a
 fattispecie di concorso di detenzione di sostanze stupefacenti (f.p.:
 10  luglio  1995)  (Organo  dell'esecuzione:  procura  generale della
 Repubblica presso la  corte  di  appello  di  L'Aquila  -  Ordine  di
 esecuzione n. 45/92 r.es. emesso in data 30 giugno 1992);
    A  scioglimento  della  riserva  espressa nell'udienza svoltasi in
 data 8 ottobre 1992;
    Verificata la regolarita' degli atti sotto il profilo processuale;
    Sentiti il p.g. ed il difensore fiduciario  dell'interessato,  che
 concludevano come in atti;
    Rilevato  che  Mandolesi  Remo, meglio qualificato in epigrafe, e'
 stato condannato dalla vorte di  appello  di  l'Aquila  con  sentenza
 pubblica  in  data  9  dicembre 1991 alla pena detentiva di anni tre,
 mesi sei e giorni venti di reclusione, nonche' a quella pecuniaria di
 L. 22.222.223 di  multa,  per  concorso  in  detenzione  di  sostanze
 stupefacenti  e  che il condannato ha sofferto custodia cautelare per
 la durata di mesi sei e giorni ventitre (dal giorno 19 maggio 1991 al
 giorno 12 dicembre 1991), si' che la pena che  residuava  al  momento
 del  passaggio  in  giudicato  della  sentenza di condanna (15 giugno
 1992) ammontava ad anni due,  mesi  undici  e  giorni  ventisette  di
 reclusione;
    Preso  atto  che  in  data  13  luglio  1992  il  Mandolesi veniva
 arrestato in esecuzione di orine  di  carcerazione  n.  45/92  r.es.,
 emesso in data 30 giugno 1992 dalla procura generale della Repubblica
 presso  la  corte di appello di L'Aquila e che in data 27 luglio 1992
 pervenuta,  presso  la  cancelleria   dell'intestato   tribunale   di
 sorveglianza,   apposita   domanda   di   ammissione  alla  fruizione
 dell'affidamento in prova  al  servizio  sociale,  si'  che  la  pena
 espianda  al  momento di presentazione dell'istanza ammontava ad anni
 due, mesi undici e giorni dodici di reclusione;
                         CONSIDERA IN DIRITTO
    Sciogliendo la riserva  formulata  in  esito  all'odierna  udienza
 camerale,  questo  collegio  ritiene  pregiudiziale  alla definizione
 della  presente  procedura,  in   adesione   all'apposita   richiesta
 formulata dal difensore fiduciario del Mandolesi, sollevare eccezione
 di   illegittimita'  costituzionale  del  disposto  del  prima  comma
 dell'art. 47 della  legge  26  luglio  1975,  n.  354,  e  successive
 modificazioni, nel senso in cui risulta interpretato dalla recenzione
 giurisprudenza di legittimita'.
    Occorre,   a  tal  proposito,  spendere  alcune  parole  circa  il
 travaglio interpretativo, cui il summenzionato primo comma  dell'art.
 47  dell'o.p.  ha  dato  luogo,  sia da parte della giurisprudenza di
 legittimita', che di quella  della  Corte  costituzionale,  circa  il
 significato da attribuire all'espressione "pena detentiva inflitta".
    Infatti,  l'art.  47, primo comma, dell'o.p., nel testo sostituito
 dall'art. 11 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, stabilisce  che  il
 condannato  puo'  essere  ammesso  a  fruire  del  regime alternativo
 dell'affidamento in prova al servizio sociale se  la  pena  detentiva
 inflitta  non  supera i tre anni. Le sezioni unite penali della Corte
 di cassazione, intervenute con sentenza resa in data 26  aprile  1989
 (v.  Cass.,  sez. un. pen., 26 aprile 1989, Russo, in Foro it., 1989,
 II, c. 401) per dirimere il contrasto giurisprudenziale  sorto  circa
 la  detraibilita' di pene estinte (rectius: di parti di pena estinte)
 in virtu' di applicazione dell'indulto sulla pena  inflitta,  avevano
 affermato   che   le   cause   estintive   influiscono   solo   sulla
 determinazione della pena da eseguire in concreto  e  non  di  quella
 inflitta,  escludendo,  pertanto, la possibilita' che chi fosse stato
 condannato a pena superiore a tre anni potesse  essere  ammesso  alla
 misura  alternativa se l'intervento di un condono avesse riportato la
 pena entro il limite richiesto.
    Poco tempo dopo, la Corte costituzionale, con sentenza  11  luglio
 1989, n. 386 (Pres. Saja, est. Gallo, Fassi; v. in Foro it., 1989, I,
 c. 3340 e segg.), ignorando la decisione delle sezioni unite poc'anzi
 richiamata,  effettuava  un'equiparazione  tra  pena  espiata  e pena
 condonata, partendo dal  presupposto  che  quest'ultima,  secondo  la
 giurisprudenza  sino  ad  allora  (in  realta', prima della pronunzia
 delle sezioni unite) prevalente, gia'  potesse  incidere  sulla  pena
 inflitta  superiore  ai  tre  anni  e  giungendo,  pertanto,  ad  una
 dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  del  primo   comma
 dell'art.  47  dell'o.p.  nella  parte  in  cui non prevedeva che nel
 computo della pena non si  dovesse  tenere  conto  anche  delle  pene
 espiate. Un secondo intervento delle sezioni unite penali della Corte
 di  cassazione  (v.  Cass.,  sez.  un. pen., 16 novembre 1989, n. 20,
 pres. Boschi, rel. La Cava, Turelli), pur nella  convinzione  che  la
 pronunzia  della  Corte  costituzionale  muovesse  da  un presupposto
 errato circa il c.d. "diritto vivente", tuttavia prendeva atto  della
 nuova  interpretazione  e  concludeva  nel  senso  che sia delle pene
 condonate, che di quelle espiate non si dovesse tenere conto ai  fini
 de quibus agitur.
    Successivamente  la giurisprudenza della Cassazione si consolidava
 nel senso che per stabilire se il limite di pena dei tre anni, di cui
 all'art. 47 dell'o.p., fosse o meno superato, occorresse detrarre  la
 pena  gia'  espiata  o  gia'  estinta, con il risultato che qualunque
 fosse stata la pena (o le pene) inflitta  originariamente,  cio'  che
 rilevava  ai  fini dell'ammissibilita' dell'istanza di affidamento in
 prova al servizio sociale era che il residuo di pena non superasse  i
 tre  anni  (v. Cass., sezione prima penale, 25 febbraio 1991, n. 960,
 pres. Carnevale, rel.  Sibilia,  ric.  Puoti;  Cass.,  sezione  prima
 penale, 25 gennaio 1991, n. 331, pres. Molinari, rel. Savoi Colombis,
 ric.  Maifredi; Cass., sezione prima penale, 28 gennaio 1991, n. 349,
 pres. Carnevale, rel.  Sibilia,  ric.  Bata';  Cass.,  sezione  prima
 penale,  1½  marzo  1991,  n. 1083, pres. Sibilia, rel. Tricomi, ric.
 proc. gen. rep. Ancona, cond. Amadori).
    La Corte costituzionale, peraltro gia' intervenuta  con  ordinanza
 n. 509/1990 (v. Corte costituzionale ord. 15-26 ottobre 1990, n. 509,
 pres. Conso, rel. Gallo, Trimboli, in Gazzetta Ufficiale, prima serie
 speciale, 1990, n. 44, pag. 25 e segg.) a precisare che il precedente
 pronunziamento  del 1989, pur risolvendo una questione concernente un
 cumulo di pene derivanti da piu' sentenze di  condanna,  si  riferiva
 anche  ai  casi di pene inflitte per piu' reati con un'unica sentenza
 di condanna, ridisegna, con la recente sentenza 24 gennaio  1992,  n.
 17  (v.  Corte costituzionale, sent. 22-24 gennaio 1992, n. 17, pres.
 Corasaniti, rel. Granata, Abbate ed  altri,  in  Gazzetta  Ufficiale,
 prima  serie  speciale,  1992, n. 6, pag. 9 e segg.) i limiti entro i
 quali il beneficio de quo agitur puo' essere concesso.
    Con tale ultima pronunzia  la  Consulta  ha  voluto  ulteriormente
 precisare  che  la  sentenza  n.  386/1989  non  aveva  affrontato ex
 professo la questione dell'applicabilita'  dell'affidamento  anche  a
 soggetti,  ai  quali  fosse  stata  inizialmente  irrogata  una  pena
 superiore al limite di tre  anni  per  un  unico  reato,  provocando,
 nuovamente, incertezze giurisprudenziali. Da ultimo, le sezioni unite
 penali   della  Corte  di  cassazione,  nuovamente  chiamata  a  fare
 chiarezza, con sentenza del giorno 1½ luglio 1992 (v. Cass., sez. un.
 pen., 1½  luglio-10  settembre  1992,  n.  13,  pres.  Zucconi  Galli
 Fonseca,  real.  Lattanzi,  Filippone, inedita) hanno statuito che la
 sentenza n. 386/1989 deve essere letta come se avesse dichiarato  che
 l'art.  47,  primo comma, dell'o.p. e' costituzionalmente illegittimo
 nella parte in cui non prevede che, nel caso di cumulo, ai fini della
 determinazione del limite di tre anni, non si deve tenere conto anche
 delle  pene  intieramente  espiate, oltre che di quelle estinte. Tale
 interpretazione si desumerebbe dalla circostanza che la Consulta  non
 parla  di  "pena espiata", bensi', al plurale, di "pene espiate" (con
 riferimento, quindi, alle pene cumulate) nel dispositivo  della  gia'
 piu' voltre menzionata sentenza n. 386/1989.
    L'art.  47,  primo  comma, dell'o.p., in relazione a pene inflitte
 per un singolo reato, andrebbe, quindi, letto nel senso che, in  caso
 di unica condanna relativa ad un'unica fattispecie criminosa, occorre
 fare  riferimento  alla  pena  comminata  nel provvedimento stesso di
 condanna e che, pertanto, il limite  di  tre  anni  non  puo'  essere
 costituito  dalla  pena  residua  da  espiare  nel  momento in cui e'
 formulata la richiesta dell'affidamento in prova al servizio sociale.
 D'altra parte, secondo le sezioni unite,  quando  il  legislatore  ha
 voluto  collegare una misura alternativa alla sola entita' della pena
 ancora da espiare, lo  ha  detto  espressamente,  come  ha  fatto  in
 materia  di  detenzione domiciliare, misura per la cui concessione la
 pena inflitta non deve essere superiore a due anni,  anche  se  parte
 residua di pena maggiore.
    Le  sezioni  unite  hanno,  quindi,  concluso  nel  senso  che per
 determinare se la pena inflitta  per  un  singolo  reato  e'  o  meno
 superiore  a  tre anni non puo' operarsi la detrazione della parte di
 pena espiata, mentre in caso di cumulo una pena superiore ai tre anni
 cessa di essere ostativa solo quando risulta interamente coperta  dal
 periodo di pena espiata, tanto che la pena residua possa riferirsi ad
 uno  o  piu'  reati  che  di per se' non impedirebbero l'applicazione
 della misura alternativa de qua agitur.
   Evolutasi a tale punto la situazione interpretativa, caratterizzata
 da un frenetico cambiamento di  giurisprudenza,  e'  intervenuto,  da
 ultimo,  il  legislatore, che, con l'art. 14-bis della legge 7 agosto
 1992, n. 356, fornente un'interpretazione autentica del  primo  comma
 dell'art. 47 dell'o.p., non ha certo contribuito ad eliminare i dubbi
 formatisi  al  riguardo; infatti, con lo stabilire che il primo comma
 dell'art. 47 dell'o.p. va interpretato "nel senso che deve  trattarsi
 della   pena   da   espiare   in   concreto,   tenuto   conto   anche
 dell'applicazione di eventuali cause estintive"  non  ha  risolto  il
 problema  della  configurabilita' o meno della parziale espiazione di
 pena tra le cause estintive di questa. Detta formulazione ambigua non
 innova, quindi,  rispetto  alla  recenzione  interpretazione  fornita
 delle  sezioni  unite  della  Corte  di cassazione: per pena inflitta
 deve, pertanto, intendersi quella irrogata dal giudice e  non  quella
 residua  (quanto  meno  relativamente ai casi di pena unica comminata
 per un unico reato da un'unica sentenza di condanna).
    A complicare ulteriormente le cose  ha  nuovamente  provveduto  il
 legislatore con il testo normativo contenuto nell'art. 8 del d.l. 11
 settembre  1992, n. 374, il quale, pur essendo possibile di decadenza
 ove non tempestivamente convertito, e', al momento, legge dello Stato
 a tutti gli effetti.
    Detto articolo va a modificare il primo  comma  dell'art.  94  del
 t.u.  delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti (d.P.R.
 9 ottobre 1990, n. 309), il quale, a sua  volta,  aveva  gia'  inciso
 sulla   formulazione   dell'art.   47-bis   dell'o.p.,   che   regola
 l'affidamento in prova al servizio sociale nei confronti dei soggetti
 tossicodipendenti od alcooldipendenti. Stabilisce, quindi,  il  nuovo
 testo  dell'art.  94, cosi' come modificato dal citato decreto-legge,
 che  l'affidamento  in  prova  al  servizio  sociale  ex  art. 47-bis
 dell'o.p. puo' essere richiesto  dei  soggetti  sopra  indicati,  che
 abbiano  in  corso  (ovvero  intendano sottoporsi ad) un programma di
 recupero,  "se   la   pena   detentiva   inflitta   (resti,   corsivo
 dell'estensore del presente provvedimento) nel limite di quattro anni
 o  (sia, corsivo dell'estensore del presente provvedimento) ancora da
 scontare nella stessa misura.
    Occorre subito precisare che l'innalzamento del limite  da  tre  a
 quattro  anni  previsto  per  i  casi  di  affidamento ex art. 47-bis
 dell'o.p. non ccostituisce oggetto della  richiesta  di  verifica  di
 legittimita'  costituzionale  da  parte  di  questo  collegio,  nella
 convinzione  che  detta  differenziazione  ben  possa   giustificarsi
 nell'ambito  di  un  corretto  esercizio  della  discrezionalita' del
 legislatore  nella  selezione  tra  diverse   opzione   di   politica
 criminale;  cio'  che  invece si vuole condurre al vaglio della Corte
 costituzionale, per ritenuta  violazione  del  disposto  del  secondo
 comma  dell'art.  3  della  Costituzione,  e'  proprio  la disciplina
 dettata dal primo comma dell'art. 47 dell'o.p.,  nell'interpretazione
 che  sembra ormai essere stata fornita sia dalla Corte di cassazione,
 che dal legislatore,  nel  senso  di  intendere  l'espressione  "pena
 detentiva  inflitta"  solo  come  pena  originariamente  irrogata dal
 giudice e non come pena residua (lo si ripete, in  caso  di  condanna
 inflita da un'unica sentenza in relazione ad un unico reato).
    Tale  contrasto del dettato dell'art. 47, primo comma, della legge
 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni  con  il  disposto
 del secondo comma dell'art. 3 della Costituzione e' proprio originato
 dal  nuovo  testo  dell'art.  47-bis  dell'o.p., cosi' come novellato
 dall'art. 8 del d.l. n. 374-1992, che, oltre ad innalzare il  limite
 di  pena  per  la  fruibilita'  della misura alternativa che da tre a
 quattro anni, stabilisce, questa volta in modo chiaro ed univoco, che
 al "beneficio" possono accedere non solo coloro ai  quali  sia  stata
 inflitta  originariamente  una  pena  unica  contenuta nel limite dei
 quattro anni,  bensi'  anche  tutti  coloro  che  abbiano  ancora  da
 scontare  una  pena  detentiva  contenuta  nel  suddetto  limite ed a
 prescindere,  pertanto,  dell'entita'   di   quella   originariamente
 comminata.
    Si  e'  per  tal  via  venuta  a  determinare  una  diversita'  di
 trattamento tra chi intenda beneficiare dell'affidamento ordinario  e
 chi, tossicodipendente o alcooldipendente, puo' essere ammesso al re-
 gime   alternativo,  di  cui  all'art.  47-bis;  infatti,  mentre  il
 beneficio "ordinario" e' inevitabilmente precluso ogni qualvolta  sia
 stata  comminata,  per un unico reato, una pena superiore ai tre anni
 (costituisce il limite disposto dal  legislatore  per  la  frubilita'
 della  misura  alternativa  de qua agitur), l'affidamento in prova in
 casi particolari e' fruibile a prescindere  dall'entita'  della  pena
 originariamente   inflitta,  anche  per  un  unico  reato,  allorche'
 (rectius: purche') il residuo di pena rientri nel limite previsto per
 legge. Mentre, cioe', secondo l'odierno dorit vivant,  il  limite  di
 pena  di  cui  al  primo  comma  dell'art.  47  dell'o.p. costituisce
 parametro cui commisurare l'entita' della pena comminata dal  giudice
 della  cognizione,  allorche'  mediante  la  sentenza di condanna sia
 stato un unico reato, il tetto fissato dal primo comma  dell'art.  94
 del   d.P.R.   n.  309/1990  (id  est,  dell'art.  47-bis  dell'o.p.)
 costituisce parametro al quale commisurare non tanto e  non  soltanto
 l'entita'  della  pena  irrogata  dal giudice della cognizione, bensi
 anche, per espresso disposto di legge, l'entita' della pena detentiva
 espianda (anche se frazione di maggiore pena comminata a sanzione  di
 un  unico  reato).  Ooccorre,  a  questo  punto,  domandarsi  se tale
 disparita'   di   trattamento   possa   essere   giustificata   dalla
 particolarita'  dell'istituto  previsto  dall'art.  47-bis dell'o.p.,
 tenuto conto della finalita' che con questo il legislatore ha  inteso
 riproporsi.  In  generale,  l'istituto  dell'affidamento  in prova al
 servizio sociale (ordinario ed in casi  particolari)  si  pone  anche
 come  strumento  finalizzato  ad  alleggerire  il  sovrannumero della
 popolazione carceraria (finalita' di  deflazione  carceraria)  ed  e'
 destinato  a  condannati che, per aver riportato delle pene contenute
 entro  determinati  limiti  (ma  qui  si  riapre  subito  il  dilemma
 interpretativo  tra  "pena  inflitta"  e  "pena  residua") dovrebbero
 essere connotati da una presunzione di minore pericolosita'  sociale.
 In  particolare,  l'istituto  dell'affidamento  in  prova al servizio
 sociale in casi particolari, rivolto appunto ai tossicodipendenti  ed
 agli  alcooldipendenti,  ha, tra le sue finalita' precipue, quella di
 evitare che a determinati soggetti (che  gia'  si  trovano,  a  causa
 della loro dipendenza, in una situazione di emarginazione), venendo a
 contatto  con  l'ambiente del carcere, caratterizzato da possibilita'
 di instaurarsi di sindromi da prisonizzazione e  da  possibilita'  di
 contagio   criminogeno,  possa  essere  definitivamente  precluso  il
 reinserimento sociale; si e'  cercato,  quindi,  di  facilitare  quel
 recupero attraverso un programma terapeudico gia' in atto od al quale
 ci si intenda sottoporre, evitando, per quanto possibile, il contatto
 con  l'ambiente  penitenziario,  che,  nei  confronti di soggetti non
 particolarmente strutturati, risulterebbe non solo  rieducativo,  ma,
 addirittura, ulteriormente emarginante. Cio' detto, occorre chiedersi
 se  tali  peculiarita'  possano  giustificare  quelle  diversita'  di
 trattamento  cui  si  faceva   riferimento;   come   gia'   accennato
 precedentemente,  non  e' in relazione al diverso limite di pena (tre
 anni per l'affidamento ordinario, quattro  anni  per  quello  di  cui
 all'art.  47-bis  dell'o.p.) che questo collegio intende investire la
 Corte costituzionale, ma sulla ritenuta violazione del  principio  di
 eguaglianza  sostanziale,  di  cui al secondo comma dell'art. 3 della
 Costituzione, che deriva dal dover considerare  tale  limite  di  tre
 anni  come  pena  inflitta  (rectius:  comminata  dal  giudice  della
 cognizione, in caso di condanna unica per un unico reato) e quello di
 quattro anni anche come parte residua  di  pena  maggiore,  sia  pure
 irrogata  da  un'unica  sentenza di condanna in relazione ad una sola
 fattispecie criminosa.
    Infatti, se, come  e'  stato  ripetutamente  asserito,  l'istituto
 dell'affidamento  in  prova  al  servizio  sociale, in generale, deve
 essere destinato a quei soggetti che, per essere stati  condannati  a
 "pene  brevi"  (tale  le genesi storica dell'istituto) possono essere
 ammessi ad espiare la  sanzione  irrogata  in  regime  alternativo  a
 quello  detentivo  ordinario (en milieu ouvert), nella presunzione di
 una minore pericolosita'  sociale,  connessa  alla  contenutezza  del
 limite  di  pena  inflitta,  allora  non  si  capisce perche' chi, al
 momento dell'istanza di affidamento, sia tossicodipendente  e  voglia
 intraprendere un programma di recupero, possa essere ammesso a fruire
 della   misura   alternativa   che   si   tenga   conto   della  pena
 originariamente inflitta e, quindi, anche  della  sua  pericolosita',
 laddove nei confronti di soggetti non tossicodipendenti, che aspirino
 ad  usufruire  del regime alternativo "ordinario" dell'affidamento in
 prova al servizio sociale, venga frapposto lo sbarramento della  pena
 originariamente  inflitta, contenuta entro il limite legislativamente
 fissato. E', infatti,  evidente  come,  poiche'  la  misura  prevista
 dall'art.   47-bis  dell'o.p.,  si  rivolge  al  condannato  che  sia
 tossicodipendente al momento di esecuzione della pena (fatto salvo il
 necessario  giudizio   di   non   preordinazione   dello   stato   di
 tossicodipendenza  all'ottenimento  della  misura  alternativa) e non
 esclusivamente al tossicodipendente condannato per reati connessi  al
 suo stato, ma gia' riabilitato, la previsione di una terapia, se pure
 puo'    risultare    utile    per    superare   una   situazione   di
 tossicodipendenza, si  rivela  del  tutto  inidonea  a  rimuovere  la
 pericolosita'  del condannato, desumibile dalla mera consumazione del
 reato   (anche,   si   rammenti,   indipendente   dallo   stato    di
 tossicodipendenza)  e, peraltro, ragionevolmente sussistente in tutti
 i casi di condanna a pene elevate.
    Tale violazione del principio di eguaglianza sostanziale, inoltre,
 e'  ravvisabile  non  solo  nel  diverso  trattamento   riservato   a
 condannati  non tossicodipendenti, che vogliano usufruire del regime,
 di cui all'art. 47 dell'o.p., ed a quelli intenzionati a  beneficiare
 della  misura  particolare,  di  cui  all'art. 47-bis dell'o.p. A ben
 vedere, infatti, e' possibile riscontrare detta violazione anche  nei
 confronti  dei  soggetti  tossicodipendenti  tutte  quelle  volte che
 costoro,  pur  consapevoli  della  propria  dipendenza  da   sostanze
 stupefacenti  od  alcooliche, volessero intraprendere un programma di
 recupero attraverso il semplice reiserimento lavorativo, evitando  il
 ricorso  all'ausilio  e  delle  unita' sanitarie locali e delle varie
 comunita' terapeutiche e degli altri enti indicati  dall'art.  47-bis
 dell'o.p.;  ebbene,  in una situazione come quella sopra prospettata,
 un tossicodipendente condannato, ad esempio, ad una pena di sei  anni
 di  reclusione,  di cui tre espiati, potrebbe essere ammesso a fruire
 del regime di cui all'art. 47-bis dell'o.p., ma non  anche  a  quello
 ordinario  di  cui  all'art.  47  dell'o.p.  (il disconrso si intende
 riferito soltanto all'ammissibilita' connessa al limite di pena), con
 la conseguenza di dover rinunziare ad un  trattamento,  che,  per  le
 eventuali  peculiarita'  del caso di specie, risulti non in astratto,
 ma concretamente piu' efficace  ed  idoneo  al  proprio  reiserimento
 sociale  e  con  l'inevitabile effetto di strumentalizzare l'istituto
 previsto dall'art. 47-bis, circostanza, quest'ultima,  che  impedisce
 una  libera  adesione  al  trattamento cui e' subordinata la riuscita
 della terapia. Appare di tutta evidenza la lesione del  principio  di
 eguaglianza  sostanziale, nonche' la stessa limitazione dello spettro
 di strumentazione rieducativa, operante nei  confronti  degli  stessi
 tossicodipendenti od alcooldipendenti.
    Si  potrebbe  facilmente obiettare che il considerare il limite di
 tre anni come pena inflitta  a  quello  di  quattro  anni  come  pena
 residua  rientra  nell'attivita'  discrezionale  del  legislatore, al
 quale e' demandato operare scelte di politica criminale differenziata
 a seconda delle diverse situazioni oggetto di dette scelte. Tuttavia,
 il sistema di controlli reciproci, previsto dal  nostro  ordinamento,
 fa si' che si possa, anzi si debba, investire la Corte costituzionale
 ogni  qualvolta  esista  il  dubbio che la disparita' di trattamento,
 frutto della  surrichiamata  discrezionalita'  legislativa,  non  sia
 giustificata  da  una  diversita' sostanziale rilevante (principio di
 ragionevolezza).  Potrebbe,  ad  esempio,  essere   giustificata   la
 diversita' voluta dal legislatore tra il termine di due anni previsto
 dall'art.  47-ter dell'o.p.   (espressamente da indentersi come parte
 residua di una pena anche superiore) e quello  di  tre  anni  di  cui
 all'art.  47  dell'o.p.  (da  intendersi  come  pena  originariamente
 inflitta): tale diversita' trae, infatti, la propria ragion  d'essere
 dalle  differenti  situazioni disciplinate, che possono condurre alla
 concessione   della   detenzione   domiciliare    da    una    parte,
 dell'affidamento  in prova al servizio sociale dall'altra. Viceversa,
 questo collegio ritiene che, pur con le  loro  diverse  peculiarita',
 gli  istituti  previsti  dagli  artt.  47  e  47-bis dell'o.p., siano
 riconducibili, vuoi storicamente, vuoi sitematicamente,  allo  stesso
 genus  ed  abbiano,  pertanto,  la  medesima  finalita'  (una marcata
 connotazione verso il finalismo rieducativo);  che  il  reinserimento
 sociale   possa  essere  facilitato,  per  soggetti  con  particolari
 problemi, dal contatto con strutture  sanitarie  specifiche,  ma  che
 tale  ulteriore  facilitazione  debba essere un'opportunita' in piu',
 offerta a chi e' affetto da maggiori problematiche  di  reinserimento
 sociale   e   non   la  condizione  imprescindibile  per  beneficiare
 dell'affidamento in  prova  al  servizio  sociale;  che,  infine,  il
 diverso   trattamento   di   situazioni   sostanzialmente   analoghe,
 rappresentato dalla circostanza che il limite di tre anni, di cui  al
 primo  comma  dell'art. 47 dell'o.p., debba essere inteso (in caso di
 unica condanna per un unico reato) come  pena  irrogata  dal  giudice
 della  cognizione,  laddove  il  tetto  di quattro anni, previsto dal
 primo comma del novellato art. 47-bis dell'o.p.  (rectius:  dall'art.
 94  del  d.P.R. n. 309/1990), puo' essere identificato come parametro
 cui commisurare anche la semplice pena residua (pur  in  presenza  di
 unica  condanna  per  un  unico  reato),  comporti una violazione del
 principio  di  eguaglianza  sostanziale,  di  cui  al  secondo  comma
 dell'art.  3  della  Costituzione, eliminabile soltanto attraverso la
 reductio ad  unum  delle  fattispecie  sopra  richiamate,  in  virtu'
 dell'affermarsi di un'interpretazione che individui nel limite di cui
 al  primo  comma  dell'art.  47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e
 successive modificazioni il parametro cui commisurare anche  la  pena
 residua,  parte  di  pena  maggiore, irrogata da un'unica sentenza di
 condanna in relazione alla comprovata reita' del prevenuto in  ordine
 ad un'unica fattispecie criminosa.
    Cio'  detto  in  relazione  alla  non manifesta infondatezza della
 sollevata  questione  di  legittimita'  costituzionale,  non   appare
 opportuno  dilungarsi  oltre  misura  circa la rilevanza della stessa
 nell'ambito del presente giudizio, sembrando evidente che dalla  pre-
 via  risoluzione  della  stessa dipende in maniera conseguenzialmente
 logica l'esito del procedimento inerente all'istanza  di  affidamento
 in  prova  al  servizio  sociale  presentata  da  Mandolesi  Remo (si
 rammenti che il Mandolesi,  condannato  dalla  corte  di  appello  di
 L'Aquila  alla  pena  di  anni  tre,  mesi  sei  e  giorni  venti  di
 reclusione,   in   esito   all'apprezzamento   della    sua    penale
 responsabilita'  in  relazione  al reato di concorso in detenzione di
 sostanze stupefacenti, doveva espiare,  alla  data  di  passaggio  in
 giudicato del rammentato dictum di condanna, una pena residua di anni
 due,   mesi   undici  e  giorni  ventisette  di  reclusione,  siccome
 determinata in virtu' della detrazione della custodia cautelare, pari
 a mesi sei e giorni ventitre).