IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Per deliberare in merito all'istanza di affidamento in prova al servizio sociale, presentata dal condannato Mandolesi Remo, nato il 26 settembre 1955 a Porto San Giorgio (Ascoli Piceno), domiciliato in Porto S. Elpidio (Ascoli Piceno), via Ungaretti n. 26, attualmente ristretto presso la casa circondariale di Pesaro, in espiazione della pena detentiva di anni tre, mesi sei e giorni venti di reclusione, siccome comminata, oltre alla pena pecuniaria di L. 22.222.223 di multa, dalla sentenza pronunziata in data 9 dicembre 1991 dalla corte di appello di L'Aquila la quale, in esito a giudizio abbreviato, riconosceva la penale responsabilita' del prevenuto in ordine a fattispecie di concorso di detenzione di sostanze stupefacenti (f.p.: 10 luglio 1995) (Organo dell'esecuzione: procura generale della Repubblica presso la corte di appello di L'Aquila - Ordine di esecuzione n. 45/92 r.es. emesso in data 30 giugno 1992); A scioglimento della riserva espressa nell'udienza svoltasi in data 8 ottobre 1992; Verificata la regolarita' degli atti sotto il profilo processuale; Sentiti il p.g. ed il difensore fiduciario dell'interessato, che concludevano come in atti; Rilevato che Mandolesi Remo, meglio qualificato in epigrafe, e' stato condannato dalla vorte di appello di l'Aquila con sentenza pubblica in data 9 dicembre 1991 alla pena detentiva di anni tre, mesi sei e giorni venti di reclusione, nonche' a quella pecuniaria di L. 22.222.223 di multa, per concorso in detenzione di sostanze stupefacenti e che il condannato ha sofferto custodia cautelare per la durata di mesi sei e giorni ventitre (dal giorno 19 maggio 1991 al giorno 12 dicembre 1991), si' che la pena che residuava al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (15 giugno 1992) ammontava ad anni due, mesi undici e giorni ventisette di reclusione; Preso atto che in data 13 luglio 1992 il Mandolesi veniva arrestato in esecuzione di orine di carcerazione n. 45/92 r.es., emesso in data 30 giugno 1992 dalla procura generale della Repubblica presso la corte di appello di L'Aquila e che in data 27 luglio 1992 pervenuta, presso la cancelleria dell'intestato tribunale di sorveglianza, apposita domanda di ammissione alla fruizione dell'affidamento in prova al servizio sociale, si' che la pena espianda al momento di presentazione dell'istanza ammontava ad anni due, mesi undici e giorni dodici di reclusione; CONSIDERA IN DIRITTO Sciogliendo la riserva formulata in esito all'odierna udienza camerale, questo collegio ritiene pregiudiziale alla definizione della presente procedura, in adesione all'apposita richiesta formulata dal difensore fiduciario del Mandolesi, sollevare eccezione di illegittimita' costituzionale del disposto del prima comma dell'art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, nel senso in cui risulta interpretato dalla recenzione giurisprudenza di legittimita'. Occorre, a tal proposito, spendere alcune parole circa il travaglio interpretativo, cui il summenzionato primo comma dell'art. 47 dell'o.p. ha dato luogo, sia da parte della giurisprudenza di legittimita', che di quella della Corte costituzionale, circa il significato da attribuire all'espressione "pena detentiva inflitta". Infatti, l'art. 47, primo comma, dell'o.p., nel testo sostituito dall'art. 11 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, stabilisce che il condannato puo' essere ammesso a fruire del regime alternativo dell'affidamento in prova al servizio sociale se la pena detentiva inflitta non supera i tre anni. Le sezioni unite penali della Corte di cassazione, intervenute con sentenza resa in data 26 aprile 1989 (v. Cass., sez. un. pen., 26 aprile 1989, Russo, in Foro it., 1989, II, c. 401) per dirimere il contrasto giurisprudenziale sorto circa la detraibilita' di pene estinte (rectius: di parti di pena estinte) in virtu' di applicazione dell'indulto sulla pena inflitta, avevano affermato che le cause estintive influiscono solo sulla determinazione della pena da eseguire in concreto e non di quella inflitta, escludendo, pertanto, la possibilita' che chi fosse stato condannato a pena superiore a tre anni potesse essere ammesso alla misura alternativa se l'intervento di un condono avesse riportato la pena entro il limite richiesto. Poco tempo dopo, la Corte costituzionale, con sentenza 11 luglio 1989, n. 386 (Pres. Saja, est. Gallo, Fassi; v. in Foro it., 1989, I, c. 3340 e segg.), ignorando la decisione delle sezioni unite poc'anzi richiamata, effettuava un'equiparazione tra pena espiata e pena condonata, partendo dal presupposto che quest'ultima, secondo la giurisprudenza sino ad allora (in realta', prima della pronunzia delle sezioni unite) prevalente, gia' potesse incidere sulla pena inflitta superiore ai tre anni e giungendo, pertanto, ad una dichiarazione di illegittimita' costituzionale del primo comma dell'art. 47 dell'o.p. nella parte in cui non prevedeva che nel computo della pena non si dovesse tenere conto anche delle pene espiate. Un secondo intervento delle sezioni unite penali della Corte di cassazione (v. Cass., sez. un. pen., 16 novembre 1989, n. 20, pres. Boschi, rel. La Cava, Turelli), pur nella convinzione che la pronunzia della Corte costituzionale muovesse da un presupposto errato circa il c.d. "diritto vivente", tuttavia prendeva atto della nuova interpretazione e concludeva nel senso che sia delle pene condonate, che di quelle espiate non si dovesse tenere conto ai fini de quibus agitur. Successivamente la giurisprudenza della Cassazione si consolidava nel senso che per stabilire se il limite di pena dei tre anni, di cui all'art. 47 dell'o.p., fosse o meno superato, occorresse detrarre la pena gia' espiata o gia' estinta, con il risultato che qualunque fosse stata la pena (o le pene) inflitta originariamente, cio' che rilevava ai fini dell'ammissibilita' dell'istanza di affidamento in prova al servizio sociale era che il residuo di pena non superasse i tre anni (v. Cass., sezione prima penale, 25 febbraio 1991, n. 960, pres. Carnevale, rel. Sibilia, ric. Puoti; Cass., sezione prima penale, 25 gennaio 1991, n. 331, pres. Molinari, rel. Savoi Colombis, ric. Maifredi; Cass., sezione prima penale, 28 gennaio 1991, n. 349, pres. Carnevale, rel. Sibilia, ric. Bata'; Cass., sezione prima penale, 1½ marzo 1991, n. 1083, pres. Sibilia, rel. Tricomi, ric. proc. gen. rep. Ancona, cond. Amadori). La Corte costituzionale, peraltro gia' intervenuta con ordinanza n. 509/1990 (v. Corte costituzionale ord. 15-26 ottobre 1990, n. 509, pres. Conso, rel. Gallo, Trimboli, in Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, 1990, n. 44, pag. 25 e segg.) a precisare che il precedente pronunziamento del 1989, pur risolvendo una questione concernente un cumulo di pene derivanti da piu' sentenze di condanna, si riferiva anche ai casi di pene inflitte per piu' reati con un'unica sentenza di condanna, ridisegna, con la recente sentenza 24 gennaio 1992, n. 17 (v. Corte costituzionale, sent. 22-24 gennaio 1992, n. 17, pres. Corasaniti, rel. Granata, Abbate ed altri, in Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, 1992, n. 6, pag. 9 e segg.) i limiti entro i quali il beneficio de quo agitur puo' essere concesso. Con tale ultima pronunzia la Consulta ha voluto ulteriormente precisare che la sentenza n. 386/1989 non aveva affrontato ex professo la questione dell'applicabilita' dell'affidamento anche a soggetti, ai quali fosse stata inizialmente irrogata una pena superiore al limite di tre anni per un unico reato, provocando, nuovamente, incertezze giurisprudenziali. Da ultimo, le sezioni unite penali della Corte di cassazione, nuovamente chiamata a fare chiarezza, con sentenza del giorno 1½ luglio 1992 (v. Cass., sez. un. pen., 1½ luglio-10 settembre 1992, n. 13, pres. Zucconi Galli Fonseca, real. Lattanzi, Filippone, inedita) hanno statuito che la sentenza n. 386/1989 deve essere letta come se avesse dichiarato che l'art. 47, primo comma, dell'o.p. e' costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, nel caso di cumulo, ai fini della determinazione del limite di tre anni, non si deve tenere conto anche delle pene intieramente espiate, oltre che di quelle estinte. Tale interpretazione si desumerebbe dalla circostanza che la Consulta non parla di "pena espiata", bensi', al plurale, di "pene espiate" (con riferimento, quindi, alle pene cumulate) nel dispositivo della gia' piu' voltre menzionata sentenza n. 386/1989. L'art. 47, primo comma, dell'o.p., in relazione a pene inflitte per un singolo reato, andrebbe, quindi, letto nel senso che, in caso di unica condanna relativa ad un'unica fattispecie criminosa, occorre fare riferimento alla pena comminata nel provvedimento stesso di condanna e che, pertanto, il limite di tre anni non puo' essere costituito dalla pena residua da espiare nel momento in cui e' formulata la richiesta dell'affidamento in prova al servizio sociale. D'altra parte, secondo le sezioni unite, quando il legislatore ha voluto collegare una misura alternativa alla sola entita' della pena ancora da espiare, lo ha detto espressamente, come ha fatto in materia di detenzione domiciliare, misura per la cui concessione la pena inflitta non deve essere superiore a due anni, anche se parte residua di pena maggiore. Le sezioni unite hanno, quindi, concluso nel senso che per determinare se la pena inflitta per un singolo reato e' o meno superiore a tre anni non puo' operarsi la detrazione della parte di pena espiata, mentre in caso di cumulo una pena superiore ai tre anni cessa di essere ostativa solo quando risulta interamente coperta dal periodo di pena espiata, tanto che la pena residua possa riferirsi ad uno o piu' reati che di per se' non impedirebbero l'applicazione della misura alternativa de qua agitur. Evolutasi a tale punto la situazione interpretativa, caratterizzata da un frenetico cambiamento di giurisprudenza, e' intervenuto, da ultimo, il legislatore, che, con l'art. 14-bis della legge 7 agosto 1992, n. 356, fornente un'interpretazione autentica del primo comma dell'art. 47 dell'o.p., non ha certo contribuito ad eliminare i dubbi formatisi al riguardo; infatti, con lo stabilire che il primo comma dell'art. 47 dell'o.p. va interpretato "nel senso che deve trattarsi della pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell'applicazione di eventuali cause estintive" non ha risolto il problema della configurabilita' o meno della parziale espiazione di pena tra le cause estintive di questa. Detta formulazione ambigua non innova, quindi, rispetto alla recenzione interpretazione fornita delle sezioni unite della Corte di cassazione: per pena inflitta deve, pertanto, intendersi quella irrogata dal giudice e non quella residua (quanto meno relativamente ai casi di pena unica comminata per un unico reato da un'unica sentenza di condanna). A complicare ulteriormente le cose ha nuovamente provveduto il legislatore con il testo normativo contenuto nell'art. 8 del d.l. 11 settembre 1992, n. 374, il quale, pur essendo possibile di decadenza ove non tempestivamente convertito, e', al momento, legge dello Stato a tutti gli effetti. Detto articolo va a modificare il primo comma dell'art. 94 del t.u. delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti (d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), il quale, a sua volta, aveva gia' inciso sulla formulazione dell'art. 47-bis dell'o.p., che regola l'affidamento in prova al servizio sociale nei confronti dei soggetti tossicodipendenti od alcooldipendenti. Stabilisce, quindi, il nuovo testo dell'art. 94, cosi' come modificato dal citato decreto-legge, che l'affidamento in prova al servizio sociale ex art. 47-bis dell'o.p. puo' essere richiesto dei soggetti sopra indicati, che abbiano in corso (ovvero intendano sottoporsi ad) un programma di recupero, "se la pena detentiva inflitta (resti, corsivo dell'estensore del presente provvedimento) nel limite di quattro anni o (sia, corsivo dell'estensore del presente provvedimento) ancora da scontare nella stessa misura. Occorre subito precisare che l'innalzamento del limite da tre a quattro anni previsto per i casi di affidamento ex art. 47-bis dell'o.p. non ccostituisce oggetto della richiesta di verifica di legittimita' costituzionale da parte di questo collegio, nella convinzione che detta differenziazione ben possa giustificarsi nell'ambito di un corretto esercizio della discrezionalita' del legislatore nella selezione tra diverse opzione di politica criminale; cio' che invece si vuole condurre al vaglio della Corte costituzionale, per ritenuta violazione del disposto del secondo comma dell'art. 3 della Costituzione, e' proprio la disciplina dettata dal primo comma dell'art. 47 dell'o.p., nell'interpretazione che sembra ormai essere stata fornita sia dalla Corte di cassazione, che dal legislatore, nel senso di intendere l'espressione "pena detentiva inflitta" solo come pena originariamente irrogata dal giudice e non come pena residua (lo si ripete, in caso di condanna inflita da un'unica sentenza in relazione ad un unico reato). Tale contrasto del dettato dell'art. 47, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni con il disposto del secondo comma dell'art. 3 della Costituzione e' proprio originato dal nuovo testo dell'art. 47-bis dell'o.p., cosi' come novellato dall'art. 8 del d.l. n. 374-1992, che, oltre ad innalzare il limite di pena per la fruibilita' della misura alternativa che da tre a quattro anni, stabilisce, questa volta in modo chiaro ed univoco, che al "beneficio" possono accedere non solo coloro ai quali sia stata inflitta originariamente una pena unica contenuta nel limite dei quattro anni, bensi' anche tutti coloro che abbiano ancora da scontare una pena detentiva contenuta nel suddetto limite ed a prescindere, pertanto, dell'entita' di quella originariamente comminata. Si e' per tal via venuta a determinare una diversita' di trattamento tra chi intenda beneficiare dell'affidamento ordinario e chi, tossicodipendente o alcooldipendente, puo' essere ammesso al re- gime alternativo, di cui all'art. 47-bis; infatti, mentre il beneficio "ordinario" e' inevitabilmente precluso ogni qualvolta sia stata comminata, per un unico reato, una pena superiore ai tre anni (costituisce il limite disposto dal legislatore per la frubilita' della misura alternativa de qua agitur), l'affidamento in prova in casi particolari e' fruibile a prescindere dall'entita' della pena originariamente inflitta, anche per un unico reato, allorche' (rectius: purche') il residuo di pena rientri nel limite previsto per legge. Mentre, cioe', secondo l'odierno dorit vivant, il limite di pena di cui al primo comma dell'art. 47 dell'o.p. costituisce parametro cui commisurare l'entita' della pena comminata dal giudice della cognizione, allorche' mediante la sentenza di condanna sia stato un unico reato, il tetto fissato dal primo comma dell'art. 94 del d.P.R. n. 309/1990 (id est, dell'art. 47-bis dell'o.p.) costituisce parametro al quale commisurare non tanto e non soltanto l'entita' della pena irrogata dal giudice della cognizione, bensi anche, per espresso disposto di legge, l'entita' della pena detentiva espianda (anche se frazione di maggiore pena comminata a sanzione di un unico reato). Ooccorre, a questo punto, domandarsi se tale disparita' di trattamento possa essere giustificata dalla particolarita' dell'istituto previsto dall'art. 47-bis dell'o.p., tenuto conto della finalita' che con questo il legislatore ha inteso riproporsi. In generale, l'istituto dell'affidamento in prova al servizio sociale (ordinario ed in casi particolari) si pone anche come strumento finalizzato ad alleggerire il sovrannumero della popolazione carceraria (finalita' di deflazione carceraria) ed e' destinato a condannati che, per aver riportato delle pene contenute entro determinati limiti (ma qui si riapre subito il dilemma interpretativo tra "pena inflitta" e "pena residua") dovrebbero essere connotati da una presunzione di minore pericolosita' sociale. In particolare, l'istituto dell'affidamento in prova al servizio sociale in casi particolari, rivolto appunto ai tossicodipendenti ed agli alcooldipendenti, ha, tra le sue finalita' precipue, quella di evitare che a determinati soggetti (che gia' si trovano, a causa della loro dipendenza, in una situazione di emarginazione), venendo a contatto con l'ambiente del carcere, caratterizzato da possibilita' di instaurarsi di sindromi da prisonizzazione e da possibilita' di contagio criminogeno, possa essere definitivamente precluso il reinserimento sociale; si e' cercato, quindi, di facilitare quel recupero attraverso un programma terapeudico gia' in atto od al quale ci si intenda sottoporre, evitando, per quanto possibile, il contatto con l'ambiente penitenziario, che, nei confronti di soggetti non particolarmente strutturati, risulterebbe non solo rieducativo, ma, addirittura, ulteriormente emarginante. Cio' detto, occorre chiedersi se tali peculiarita' possano giustificare quelle diversita' di trattamento cui si faceva riferimento; come gia' accennato precedentemente, non e' in relazione al diverso limite di pena (tre anni per l'affidamento ordinario, quattro anni per quello di cui all'art. 47-bis dell'o.p.) che questo collegio intende investire la Corte costituzionale, ma sulla ritenuta violazione del principio di eguaglianza sostanziale, di cui al secondo comma dell'art. 3 della Costituzione, che deriva dal dover considerare tale limite di tre anni come pena inflitta (rectius: comminata dal giudice della cognizione, in caso di condanna unica per un unico reato) e quello di quattro anni anche come parte residua di pena maggiore, sia pure irrogata da un'unica sentenza di condanna in relazione ad una sola fattispecie criminosa. Infatti, se, come e' stato ripetutamente asserito, l'istituto dell'affidamento in prova al servizio sociale, in generale, deve essere destinato a quei soggetti che, per essere stati condannati a "pene brevi" (tale le genesi storica dell'istituto) possono essere ammessi ad espiare la sanzione irrogata in regime alternativo a quello detentivo ordinario (en milieu ouvert), nella presunzione di una minore pericolosita' sociale, connessa alla contenutezza del limite di pena inflitta, allora non si capisce perche' chi, al momento dell'istanza di affidamento, sia tossicodipendente e voglia intraprendere un programma di recupero, possa essere ammesso a fruire della misura alternativa che si tenga conto della pena originariamente inflitta e, quindi, anche della sua pericolosita', laddove nei confronti di soggetti non tossicodipendenti, che aspirino ad usufruire del regime alternativo "ordinario" dell'affidamento in prova al servizio sociale, venga frapposto lo sbarramento della pena originariamente inflitta, contenuta entro il limite legislativamente fissato. E', infatti, evidente come, poiche' la misura prevista dall'art. 47-bis dell'o.p., si rivolge al condannato che sia tossicodipendente al momento di esecuzione della pena (fatto salvo il necessario giudizio di non preordinazione dello stato di tossicodipendenza all'ottenimento della misura alternativa) e non esclusivamente al tossicodipendente condannato per reati connessi al suo stato, ma gia' riabilitato, la previsione di una terapia, se pure puo' risultare utile per superare una situazione di tossicodipendenza, si rivela del tutto inidonea a rimuovere la pericolosita' del condannato, desumibile dalla mera consumazione del reato (anche, si rammenti, indipendente dallo stato di tossicodipendenza) e, peraltro, ragionevolmente sussistente in tutti i casi di condanna a pene elevate. Tale violazione del principio di eguaglianza sostanziale, inoltre, e' ravvisabile non solo nel diverso trattamento riservato a condannati non tossicodipendenti, che vogliano usufruire del regime, di cui all'art. 47 dell'o.p., ed a quelli intenzionati a beneficiare della misura particolare, di cui all'art. 47-bis dell'o.p. A ben vedere, infatti, e' possibile riscontrare detta violazione anche nei confronti dei soggetti tossicodipendenti tutte quelle volte che costoro, pur consapevoli della propria dipendenza da sostanze stupefacenti od alcooliche, volessero intraprendere un programma di recupero attraverso il semplice reiserimento lavorativo, evitando il ricorso all'ausilio e delle unita' sanitarie locali e delle varie comunita' terapeutiche e degli altri enti indicati dall'art. 47-bis dell'o.p.; ebbene, in una situazione come quella sopra prospettata, un tossicodipendente condannato, ad esempio, ad una pena di sei anni di reclusione, di cui tre espiati, potrebbe essere ammesso a fruire del regime di cui all'art. 47-bis dell'o.p., ma non anche a quello ordinario di cui all'art. 47 dell'o.p. (il disconrso si intende riferito soltanto all'ammissibilita' connessa al limite di pena), con la conseguenza di dover rinunziare ad un trattamento, che, per le eventuali peculiarita' del caso di specie, risulti non in astratto, ma concretamente piu' efficace ed idoneo al proprio reiserimento sociale e con l'inevitabile effetto di strumentalizzare l'istituto previsto dall'art. 47-bis, circostanza, quest'ultima, che impedisce una libera adesione al trattamento cui e' subordinata la riuscita della terapia. Appare di tutta evidenza la lesione del principio di eguaglianza sostanziale, nonche' la stessa limitazione dello spettro di strumentazione rieducativa, operante nei confronti degli stessi tossicodipendenti od alcooldipendenti. Si potrebbe facilmente obiettare che il considerare il limite di tre anni come pena inflitta a quello di quattro anni come pena residua rientra nell'attivita' discrezionale del legislatore, al quale e' demandato operare scelte di politica criminale differenziata a seconda delle diverse situazioni oggetto di dette scelte. Tuttavia, il sistema di controlli reciproci, previsto dal nostro ordinamento, fa si' che si possa, anzi si debba, investire la Corte costituzionale ogni qualvolta esista il dubbio che la disparita' di trattamento, frutto della surrichiamata discrezionalita' legislativa, non sia giustificata da una diversita' sostanziale rilevante (principio di ragionevolezza). Potrebbe, ad esempio, essere giustificata la diversita' voluta dal legislatore tra il termine di due anni previsto dall'art. 47-ter dell'o.p. (espressamente da indentersi come parte residua di una pena anche superiore) e quello di tre anni di cui all'art. 47 dell'o.p. (da intendersi come pena originariamente inflitta): tale diversita' trae, infatti, la propria ragion d'essere dalle differenti situazioni disciplinate, che possono condurre alla concessione della detenzione domiciliare da una parte, dell'affidamento in prova al servizio sociale dall'altra. Viceversa, questo collegio ritiene che, pur con le loro diverse peculiarita', gli istituti previsti dagli artt. 47 e 47-bis dell'o.p., siano riconducibili, vuoi storicamente, vuoi sitematicamente, allo stesso genus ed abbiano, pertanto, la medesima finalita' (una marcata connotazione verso il finalismo rieducativo); che il reinserimento sociale possa essere facilitato, per soggetti con particolari problemi, dal contatto con strutture sanitarie specifiche, ma che tale ulteriore facilitazione debba essere un'opportunita' in piu', offerta a chi e' affetto da maggiori problematiche di reinserimento sociale e non la condizione imprescindibile per beneficiare dell'affidamento in prova al servizio sociale; che, infine, il diverso trattamento di situazioni sostanzialmente analoghe, rappresentato dalla circostanza che il limite di tre anni, di cui al primo comma dell'art. 47 dell'o.p., debba essere inteso (in caso di unica condanna per un unico reato) come pena irrogata dal giudice della cognizione, laddove il tetto di quattro anni, previsto dal primo comma del novellato art. 47-bis dell'o.p. (rectius: dall'art. 94 del d.P.R. n. 309/1990), puo' essere identificato come parametro cui commisurare anche la semplice pena residua (pur in presenza di unica condanna per un unico reato), comporti una violazione del principio di eguaglianza sostanziale, di cui al secondo comma dell'art. 3 della Costituzione, eliminabile soltanto attraverso la reductio ad unum delle fattispecie sopra richiamate, in virtu' dell'affermarsi di un'interpretazione che individui nel limite di cui al primo comma dell'art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni il parametro cui commisurare anche la pena residua, parte di pena maggiore, irrogata da un'unica sentenza di condanna in relazione alla comprovata reita' del prevenuto in ordine ad un'unica fattispecie criminosa. Cio' detto in relazione alla non manifesta infondatezza della sollevata questione di legittimita' costituzionale, non appare opportuno dilungarsi oltre misura circa la rilevanza della stessa nell'ambito del presente giudizio, sembrando evidente che dalla pre- via risoluzione della stessa dipende in maniera conseguenzialmente logica l'esito del procedimento inerente all'istanza di affidamento in prova al servizio sociale presentata da Mandolesi Remo (si rammenti che il Mandolesi, condannato dalla corte di appello di L'Aquila alla pena di anni tre, mesi sei e giorni venti di reclusione, in esito all'apprezzamento della sua penale responsabilita' in relazione al reato di concorso in detenzione di sostanze stupefacenti, doveva espiare, alla data di passaggio in giudicato del rammentato dictum di condanna, una pena residua di anni due, mesi undici e giorni ventisette di reclusione, siccome determinata in virtu' della detrazione della custodia cautelare, pari a mesi sei e giorni ventitre).