ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale degli artt. 468, primo
 comma e 507 del codice di procedura penale,  promossi  con  ordinanze
 emesse  l'8 novembre 1991 dal Pretore di Palermo (n. 2 ordinanze), il
 24 settembre 1991 dal Tribunale di Verona, il  28  ottobre  1991  dal
 Tribunale  di Torino, il 15 ottobre 1991 dal Pretore di Modena, il 29
 gennaio ed il 16 marzo 1992 dal Tribunale di Padova, il 9 giugno 1992
 dal Tribunale di Roma ed il 5 giugno 1992 dal Tribunale di Rimini (n.
 2 ordinanze), rispettivamente iscritte ai nn. 73, 74, 102, 110,  155,
 166,  293,  393,  488  e 489 del registro ordinanze 1992 e pubblicate
 nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 9, 10, 13, 14, 22, 35 e
 39, prima serie speciale, dell'anno 1992;
    Visti l'atto di costituzione di Azzari Alberto nonche' gli atti di
 intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  3  novembre  1992  il  Giudice
 relatore Ugo Spagnoli;
    Uditi  l'avv.  Piero  Longo  per Azzari Alberto e l'Avvocato dello
 Stato Oscar Fiumara per il Presidente del Consiglio dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
   1. - Nel corso di un procedimento penale nel quale aveva dichiarato
 inammissibile, per mancata osservanza del termine di deposito,  (art.
 468  cod.  proc. pen.) la lista dei testimoni presentata dal pubblico
 ministero, il Tribunale di Torino,  rilevato  che  costui  non  aveva
 dimostrato l'impossibilita' di rispettare il termine ne' disponeva di
 altre  prove - onde, in mancanza di assunzione di prove ex officio ai
 sensi dell'art. 507 cod. proc. pen., si  imponeva  l'assoluzione  del
 prevenuto  - ha sollevato, con ordinanza del 28 ottobre 1991 (r.o. n.
 110/1992), una questione di legittimita' costituzionale del combinato
 disposto dei predetti artt. 468, primo comma (nella parte in cui  non
 prevede ipotesi di sanabilita' della sanzione di inammissibilita' del
 deposito intempestivo della lista testimoniale) e 507, assumendone il
 contrasto con gli artt. 112, 76 e 3 della Costituzione.
    Il  criterio di disponibilita' della prova cui l'art. 468 risponde
 - osserva il Tribunale - incontra nel codice varie eccezioni, tra  le
 quali  spicca  quella  contenuta nell'art. 507, che stabilisce che il
 giudice, terminata l'acquisizione delle  prove,  puo',  nei  casi  di
 assoluta  necessita',  disporre l'assunzione di nuovi mezzi di prova.
 L'ampia portata  di  tale  norma  e',  secondo  autorevole  dottrina,
 coerente all'indisponibilita' dell'oggetto del giudizio e rappresenta
 un   correttivo   di   tipo   inquisitorio  all'eventuale  inerzia  o
 incompletezza nell'iniziativa delle  parti.  Ma  sul  punto  se  tale
 potere  d'integrazione  probatoria  d'ufficio possa essere esercitato
 per supplire alla tardivita' del deposito della  lista  testimoniale,
 la  Corte  di  cassazione  (sez.  III,  3  dicembre 1990, Ventura) ha
 condiviso  la  tesi  di  chi  ritiene  che  la   soluzione   positiva
 vanificherebbe  la  sanzione  di inammissibilita' di tali prove - che
 non potrebbe percio' ritenersi sanabile, in ossequio  al  divieto  di
 prove  a  sorpresa  -  e  contraddirebbe al principio informatore del
 nuovo  codice  che  affida  alle   parti   l'iniziativa   e   l'onere
 dell'indicazione  dei  mezzi di prova: sicche', prevedendo l'art. 507
 l'assunzione di "nuovi" mezzi di  prova,  esso  non  potrebbe  essere
 utilizzato in caso di inesistenza dell'istruttoria dibattimentale per
 inerzia delle parti.
    Cosi'  intesa,  la  norma confligge pero', ad avviso del Tribunale
 rimettente, con l'obbligatorieta' dell'azione penale (art. 112  della
 Costituzione),  che  sarebbe  in  concreto  vanificata se non fossero
 possibili rimedi endoprocessuali  -  quali  quelli  previsti  per  il
 controllo  sulle  archiviazioni  e sulla qualificazione giuridica del
 fatto - all'inerzia del pubblico ministero nel deposito  delle  liste
 testimoniali:  rimedi non surrogabili con l'eventuale responsabilita'
 disciplinare, che  non  ha  rilievo  processuale  e  puo'  anche  non
 sussistere   se   il   mancato   deposito   dipende   da  disfunzioni
 dell'ufficio. Se intesa restrittivamente,  la  norma  confliggerebbe,
 inoltre, con la direttiva n. 73 (art. 2) della legge delega n. 81 del
 1987,  dato  che  in  questa  il  "potere  del  giudice  di  disporre
 l'assunzione di mezzi di prova" non e' assoggettato  alla  condizione
 che  altri  ne  siano  stati  gia'  acquisiti  ed  assunti e dovrebbe
 consentire, in quanto e' finalizzato alla "ricerca della verita'", di
 supplire ad eventuali carenze o insufficienze delle parti.
    Sarebbe inoltre ipotizzabile - pur non rilevando nel caso di  spe-
 cie  -  una  violazione  dell'art. 24 della Costituzione, se la prova
 liberatoria  decisiva  non  potesse  essere  espletata  perche'   non
 tempestivamente  dedotta  nelle  liste  testimoniali. Ma soprattutto,
 sarebbero violati i principi di uguaglianza e di ragionevolezza (art.
 3 della Costituzione), non apparendo giustificabile la diversita'  di
 trattamento processuale e sanzionatorio che, in termini di condanna o
 assoluzione, verrebbe riservato a due imputati versanti in situazioni
 analoghe (ad es., coimputati dello stesso reato raggiunti da identici
 elementi  di  prova  testimoniale, nei confronti dei quali si proceda
 separatamente), a seconda che la lista sia depositata tempestivamente
 per   l'uno   e  per  l'altro  no.  Ne'  sarebbe  giustificabile  che
 l'acquisibilita' di altre prove  possa  farsi  dipendere  dall'essere
 stato  effettuato  solo nei confronti di uno di costoro un precedente
 atto processuale (ad es., sequestro del corpo  del  reato).  Piu'  in
 generale, non sarebbe ammissibile che l'accertamento della verita' ed
 il conseguente esito del procedimento possano variare a seconda della
 negligenza  o  meno  del  pubblico ministero nel deposito della lista
 testimoniale o a seconda del verificarsi  di  circostanze  del  tutto
 casuali,  senza  che  il  giudice  possa in qualche modo intervenire,
 esercitando il  potere  conferitogli  dal  legislatore  delegante  di
 disporre l'assunzione di mezzi di prova.
    2.  -  Della  legittimita' costituzionale dell'art. 507 cod. proc.
 pen., "nella parte in cui limita l'esercizio dei poteri istruttori di
 ufficio  da  parte  del  giudice  al  caso  in  cui  sia   "terminata
 l'acquisizione  delle prove" richieste dalle parti con esclusione del
 caso  in  cui  le  parti,  pur  potendolo,  non   abbiano   richiesto
 acquisizione  di  prova  alcuna", dubita anche il Tribunale di Verona
 con ordinanza del 24 settembre 1991 (r.o. n.  102/1992),  emessa  nel
 corso di un giudizio per sfruttamento della prostituzione (art. 3, n.
 8,  legge 20 febbraio 1958, n. 75) in cui il pubblico ministero, dopo
 aver indicato a testimoni, nelle liste depositate a  norma  dell'art.
 468 cod. proc. pen., la persona offesa ed il di lei marito, aveva poi
 dichiarato,  in  sede  di  richiesta  di prove ex art. 493 cod. proc.
 pen., di non volerne  assumere  alcuna  in  quanto  si  era  convinto
 dell'inattendibilita' dei predetti. Il Tribunale, dopo aver respinto,
 perche'  tardiva,  un'istanza  di  prova  tendente a corroborare tale
 ritenuta inattendibilita',  osserva  che  il  nuovo  codice,  pur  se
 incentrato  sul rito accusatorio, fa ampia applicazione di meccanismi
 tipici del rito inquisitorio e che, in questo quadro, la norma di cui
 all'art. 507, per la sua portata  generale,  riferibile  a  qualsiasi
 mezzo di prova, svolge un ruolo di clausola di chiusura del sistema e
 vale  a  definire  l'intervento  d'ufficio del giudice, non solo come
 eccezionale, ma anche come residuale  rispetto  all'iniziativa  delle
 parti.  Essa  e',  cioe',  destinata ad operare come "extrema ratio",
 quando il giudice rilevi che in concreto le prove gia'  acquisite  su
 richiesta   di   parte   richiedono   un'integrazione   assolutamente
 necessaria ad assicurare la funzione conoscitiva del  processo  ed  a
 garantire  quindi  che  esso  tenda effettivamente alla ricerca della
 verita'.
    Peraltro, data la sua formulazione letterale,  la  norma  dovrebbe
 essere intesa nel senso che il giudice non possa esercitare il potere
 di  disporre  d'ufficio  nuove prove se non quando sia stata conclusa
 l'acquisizione delle prove richieste dalle parti e non anche nel caso
 che prove le parti - non ostante  il  rinvio  a  giudizio  -  non  ne
 abbiano richieste affatto. Ed in ragione di tale limitazione essa, ad
 avviso  del  Tribunale rimettente, si pone in contrasto con una serie
 di  principi  costituzionali,  e  cioe':  a)  con  l'art.   3   della
 Costituzione, sia sotto il profilo della coerenza interna del sistema
 e  dunque  della  ragionevolezza  della  norma  stessa,  che sotto il
 profilo della disparita' di trattamento di situazioni  analoghe,  non
 essendovi alcun ragionevole motivo acche' non sia equiparata al fatto
 che  il  giudice ritenga incompleta la prova richiesta dalle parti la
 situazione in cui le parti,  totalmente  inerti,  non  consentano  al
 giudice  di  conoscere  alcunche'  della  vicenda sostanziale; b) con
 l'art.  112  della Costituzione, risolvendosi la situazione di stallo
 determinata dalla scelta processuale delle parti in un solo apparente
 esercizio  dell'azione  penale;  c)  con  gli  artt.  25  e  3  della
 Costituzione,  dati  i nessi tra l'obbligatorieta' dell'azione penale
 ed i principi di legalita' e  di  eguaglianza  posti  in  luce  nella
 sentenza  n.  88 del 1991 di questa Corte; d) con l'art. 101, secondo
 comma, della  Costituzione,  sia  perche'  ne  risulterebbe  lesa  la
 posizione  di  istituzionale indipendenza del pubblico ministero e la
 sua funzione di tutela dell'interesse generale  all'osservanza  della
 legge (cfr. sentenza cit.), sia perche' il giudice verrebbe ad essere
 vincolato,  in  ordine  alla  decisione nel merito della causa, delle
 scelte di carattere processuale, per ipotesi anche immotivate,  delle
 parti;  e) con l'art. 76 della Costituzione dato che il sistema della
 legge delega e' imperniato sul controllo esterno da parte del giudice
 sull'operato del pubblico ministero (direttive nn. 37,  42,  49,  50,
 51,  52)  e  sull'attribuzione  di  poteri  istruttori  di ufficio al
 giudice, ed esprime anche il criterio (direttiva n. 73) dell'utilita'
 ai fini della ricerca della verita', criterio del tutto vanificato in
 caso di scelte strategiche delle parti svincolate da qualsiasi potere
 d'intervento del giudice.
    3. - Nel corso di due procedimenti penali nei quali nessuna  delle
 parti   aveva   chiesto,   nel   termine   prescritto   a   pena   di
 inammissibilita'degli artt. 468 e 567 cod.  proc.  pen.,  l'esame  di
 testimoni  in  ordine  ai  fatti  storici oggetto delle contestazioni
 (concernenti, rispettivamente, i reati di cui agli artt.  570  e  641
 cod.  pen.),  il  Pretore di Palermo - nel presupposto interpretativo
 che non  fosse,  di  conseguenza,  ammissibile  neppure  l'esame,  in
 qualita'  di teste, della persona offesa (cfr. Cass., 12 luglio 1990,
 Malena) e che il potere di assunzione d'ufficio di "nuovi"  mezzi  di
 prova di cui all'art. 507 cod. proc. pen. non possa essere esercitato
 se le parti non abbiano richiesto alcuna prova (cfr. Cass., 3 gennaio
 1991,  Ventura)  - ha sollevato, con due ordinanze di identico tenore
 emesse l'8 novembre 1991 (r.o. nn. 73 e 74/1992),  una  questione  di
 legittimita'  costituzionale  del  medesimo  art. 507, assumendone il
 contrasto con gli artt. 76, 3, 101, 111 e 112 della Costituzione.
    Sarebbe violata, innanzitutto, la direttiva n. 73 (art.  2)  della
 legge  delega  -  e quindi l'art. 76 della Costituzione - dato che la
 sua formulazione letterale evidenzia, ad avviso del  rimettente,  che
 si  intendeva  attribuire  al  giudice  un  ampio  potere di disporre
 l'assunzione di mezzi di prova secondo le necessita' evidenziate  dal
 processo,  sicche'  sarebbe  arbitraria  la  sua  subordinazione alla
 preventiva acquisizione di prove  che  e'  in  facolta'  delle  parti
 offrire o meno, quale si evince dall'inciso "Terminata l'acquisizione
 delle  prove.." e dall'aggettivo "nuovi" (riferito ai mezzi di prova)
 contenuti nell'art. 507 cod. proc. pen.
    Sarebbe altresi' violato l'art. 3 della Costituzione,  in  quanto,
 nel  caso  di  due  imputati che si trovino nella medesima situazione
 giuridica ma siano giudicati separatamente,  l'esito  dei  rispettivi
 processi  resta  affidato  alla decisione discrezionale ed immotivata
 del pubblico ministero di chiedere  o  meno  l'ammissione  di  prove,
 senza  che il giudice possa recuperare la parita' processuale tra gli
 imputati  disponendo,  d'ufficio,  quelle  prove  che  si  appalesano
 necessarie per conoscere del fatto contestato.
    Sarebbero   violati,   inoltre,   gli   artt.   101  e  111  della
 Costituzione, dato  che  il  potere  del  giudice  viene  subordinato
 all'esercizio  meramente discrezionale di un potere di parte e che la
 decisione assolutoria basata sulla totale assenza  di  prove  sarebbe
 motivata solo formalmente.
    La  norma  violerebbe, infine, anche l'art. 112 della Costituzione
 dato  che  di  fatto  consente  al  pubblico  ministero  (che  ometta
 immotivatamente  di  richiedere  l'ammissione  di  prove)  l'elusione
 sostanziale dell'obbligo di esercitare l'azione penale.
    4. - Una questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  507
 cod.  proc.  pen.  e'  stata altresi' sollevata, con ordinanza del 29
 gennaio 1992 (r.o. n. 166/1992), dal Tribunale di  Padova  che,  dopo
 aver dichiarato l'inammissibilita' della prova testimoniale richiesta
 dal  pubblico  ministero, osserva che l'utilizzo dei poteri conferiti
 da tale norma (che nella specie avverrebbe in carenza di  ogni  altra
 prova  e  dovrebbe avere ad oggetto le medesime prove non ammesse) e'
 precluso dal fatto che essa dispone che le prove devono essere  nuove
 -  e  cioe' diverse da quelle che le parti hanno indicato o avrebbero
 potuto indicare in base agli atti a loro  disposizione  -  e  possono
 essere  ammesse  solo  dopo  l'acquisizione  delle  prove  assunte ad
 iniziativa delle parti. Di qui, la ritenuta violazione  dell'art.  76
 della  Costituzione,  dato  che  tali limiti non sarebbero desumibili
 dalla gia' citata direttiva n. 73 della legge delega.
    5.  -  In  un  procedimento  penale  nel  quale  aveva  dichiarato
 inammissibile,  per  la  sua  genericita', l'unica richiesta di prova
 testimoniale avanzata dal pubblico ministero, il Pretore  di  Modena,
 assumendo  di  non  poter  introdurre  d'ufficio  tale prova ai sensi
 dell'art. 507 cod. proc.  pen.,  perche'  non  potrebbe  considerarsi
 "nuova"  quella  gia' oggetto di richiesta delle parti e perche' tale
 potere non sarebbe esercitabile  in  ipotesi  di  totale  carenza  di
 prove,  ha  sollevato,  con  ordinanza  del  15 ottobre 1991 (r.o. n.
 155/1992) una questione di legittimita' costituzionale della predetta
 norma, assumendone  il  contrasto  con  gli  artt.  112  e  76  della
 Costituzione.
    Il   sistema   costituzionale   -  osserva  il  Pretore  -  impone
 l'indisponibilita'dell'azione penale e quindi del tema del  processo,
 sicche'  scelte o atteggiamenti negligenti del pubblico ministero non
 possono impedire che su di esso il giudice pervenga  ad  un'effettiva
 pronuncia  di  merito:  onde  la  necessita' di garantire a questi un
 potere di controllo e di intervento sostitutivo, per  riaffermare  le
 garanzie  di  legalita'  ed  uguaglianza,  impedire  che  l'esercizio
 dell'azione penale resti  meramente  apparente  ed  evitare  che  una
 speculare  inattivita' della difesa conduca a violare il principio di
 indisponibilita'   della   liberta'   personale   (art.   13    della
 Costituzione).
    Poiche'   inoltre  le  predette  preclusioni  non  figurano  nella
 direttiva n. 73 della legge delega, il rimettente la ritiene  violata
 -  e,  con  essa,  l'art.  76  della  Costituzione - dato che, per il
 carattere strutturale e sistematico e  per  i  decisivi  effetti  che
 hanno  sull'esito  del giudizio, esse non avrebbero potuto non essere
 espressamente previste.
    6. - Nel corso di un procedimento penale nel  quale  la  posizione
 dell'imputato Azzari Alberto era stata separata da quella degli altri
 imputati  e  poi  riunita  in fase predibattimentale, il Tribunale di
 Padova dichiarava inammissibili nei confronti del primo - per mancato
 deposito  della lista ex art. 468 cod. proc. pen. - le prove (testi e
 consulenza tecnica) gia' ammesse nei confronti degli altri. Ritenendo
 che le medesime prove non potessero essere  introdotte  d'ufficio  ex
 art.  507  cod.  proc. pen. perche' non nuove ne' successive ad altre
 (nella specie mancanti) introdotte dalle  parti,  il  Tribunale,  con
 ordinanza  del 16 marzo 1992, (r.o. n. 293/1992), censura il medesimo
 art. 507 per violazione: a) dell'art. 76 della Costituzione, dato che
 la citata direttiva n. 73  non  conterrebbe  i  suddetti  limiti;  b)
 dell'art.   112  della  Costituzione,  perche'  in  caso  di  mancata
 richiesta della prova o di decadenza dalla stessa  ex  art.  468,  il
 rispetto  dell'obbligo  di  esercitare  l'azione  penale sarebbe solo
 apparente; c) dell'art. 3 della  Costituzione,  in  quanto  la  norma
 sarebbe  irragionevole  e  fonte di disparita' di trattamento di casi
 consimili: cio' che sarebbe particolarmente evidente nel caso di spe-
 cie, dato che l'Azzari, a differenza degli altri  imputati,  dovrebbe
 essere  immediatamente prosciolto ex art. 129 cod. proc. pen.  per il
 solo fatto della tardiva presentazione della lista  testimoniale  nei
 suoi confronti.
    7.   -  In  un  procedimento  penale  nel  quale  alla  dichiarata
 inammissibilita' delle  prove  testimoniali  richieste  dal  pubblico
 ministero  per  tardivita'  di  presentazione della lista ex art. 468
 cod. proc. pen. sarebbe  conseguita  una  pronuncia  assolutoria  per
 carenza  di  prove,  il  Tribunale  di  Roma,  ritenendo di non poter
 esercitare il potere di cui all'art.  507  cod.  proc.  pen.  perche'
 limitato   ad  un  mero  intervento  integrativo  di  una  precedente
 attivita' istruttoria svolta a richiesta di parte, ha sollevato,  con
 ordinanza  del  9  giugno  1992  (r.o. n. 393/1992), una questione di
 legittimita' costituzionale di  detta  disposizione,  assumendone  il
 contrasto:  a)  con  l'art.  76 della Costituzione, perche' la citata
 direttiva n. 73 non confina il potere del giudice nei limiti  di  una
 attivita'  integrativa  delle  richieste istruttorie delle parti, cui
 non puo' essere riconosciuta la disponibilita' del processo penale in
 ragione della  indisponibilita'  degli  interessi  protetti;  b)  con
 l'art.  112 della Costituzione, dato che questo comporta che l'azione
 penale, una volta esercitata (con la richiesta di rinvio a giudizio),
 e'  irretrattabile,  mentre  l'inerzia  del  pubblico  ministero  nel
 richiedere  tempestivamente  le  prove  si  traduce in un sostanziale
 ritiro  dell'istanza  di  punizione;  c)   con   l'art.   102   della
 Costituzione,  perche'  la  funzione  giurisdizionale non puo' essere
 razionalmente esercitata se al giudice  viene  resa  impossibile  una
 compiuta   conoscenza   delle   circostanze  di  fatto  su  cui  deve
 pronunciarsi e perche' in mancanza di prove la decisione  assolutoria
 di  merito  finisca  in realta' per avere un contenuto esclusivamente
 processuale (e ciononostante preclude un secondo  giudizio  art.  649
 cod.  proc.  pen.);  d)  con  l'art. 111 della Costituzione, dato che
 l'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali presuppone
 un'adeguata conoscenza dei fatti da giudicare.
    8. - Ritenendo che il potere di assunzione  d'ufficio  di  "nuovi"
 mezzi di prova di cui all'art. 507 cod. proc. pen. sia riservato alle
 ipotesi  eccezionali  in cui, all'esito dell'acquisizione delle prove
 dibattimentali,  emerga   l'assoluta   necessita'   di   integrazione
 dell'istruzione  attraverso  mezzi  di prova che le parti non avevano
 potuto richiedere fin dagli  atti  preliminari  al  dibattimento  nei
 termini  fissati  a  pena di decadenza, e che percio' tale potere non
 possa essere utilizzato - come  nei  casi  di  specie  richiedeva  il
 pubblico  ministero  - per sopperire a lacune istruttorie delle parti
 ovvero per eludere le preclusioni  in  cui  esse  siano  incorse,  il
 Tribunale di Rimini, con due ordinanze di identico tenore emesse il 5
 giugno 1992 (r.o. nn. 488 e 489 del 1992), ha sollevato una questione
 di  legittimita' costituzionale di detta disposizione, assumendone il
 contrasto con gli artt. 2, 24, secondo  e  quarto  comma,  77,  primo
 comma e 112 della Costituzione.
    Ad  avviso  del  rimettente,  l'introduzione  del  requisito della
 "novita'" della prova da assumere  contrasterebbe  con  l'assenza  di
 limitazioni  nella  corrispondente  direttiva  (n.  73)  della  legge
 delega.  Inoltre,  una  disciplina  ispirata   al   principio   della
 essenziale  disponibilita' delle parti in merito all'assunzione delle
 prove sarebbe incompatibile  con  il  principio  dell'obbligatorieta'
 dell'azione  penale (art. 112 della Costituzione). Infine, poiche' lo
 scopo del processo  penale  resta  pur  sempre  l'accertamento  della
 verita',  la  comminatoria  di  decadenze  assolute  ed insanabili in
 materia di assunzione di prove decisive potrebbe anche compromettere,
 nell'ipotesi di negligente difesa, il diritto alla prova riconosciuto
 all'imputato, garantito come diritto inviolabile dagli artt. 2 e  24,
 secondo  comma,  della  Costituzione  anche per l'esigenza di evitare
 errori  giudiziari,  sancita  dall'art.  24,  secondo  comma,   della
 Costituzione.
    9.  -  Nel  giudizio instaurato con la seconda delle ordinanze del
 Tribunale di Padova si e' costituita la parte privata Azzari Alberto,
 rappresentata e difesa dall'avv. Piero Longo.
    Ad avviso della difesa, non sussiste la dedotta  violazione  della
 legge delega perche' l'attribuzione al giudice di poteri piu' ampi di
 quelli integrativi conferitigli dall'art. 507 sconvolgerebbe l'intimo
 tessuto  del  sistema accusatorio e contrasterebbe con l'esigenza che
 egli non abbia una pregressa conoscenza dei fatti di causa. Ne'  essi
 potrebbero  giustificarsi  con  le esigenze di ricerca della verita',
 dato che - come dimostrano istituti quali le decadenze, le  nullita',
 le  inammissibilita'  e  simili - il fine cui il processo tende e' la
 verita' legale e non quella storica.
    D'altra parte,  la  censura  di  violazione  dell'art.  112  della
 Costituzione sarebbe frutto di confusione tra l'esercizio dell'azione
 penale  e la ritualita' e conformita' alle norme di esso. Ne' sarebbe
 fondato il sospetto di  disparita'  di  trattamento,  dato  che,  nel
 giudizio  a  quo,  ad  una  analogia di posizioni sostanziali tra gli
 imputati fa riscontro una diversita' di situazioni processuali.
    10. - Il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
 difeso  dall'Avvocatura Generale dello Stato, e' intervenuto in tutti
 i predetti giudizi con memorie di identico contenuto.
    Ad avviso dell'Avvocatura, le censure mosse dai giudici  a  quibus
 all'art.  507  cod.  proc.  pen.  sono  infondate  perche' muovono da
 un'interpretazione restrittiva di tale norma, non ispirata a  criteri
 di ragionevolezza e coerenza sistematica e contraria alla sua ratio.
    Il   requisito  dell'esaurimento  dell'istruzione  dibattimentale,
 infatti, mira solo ad impedire che il giudice, attraverso  il  potere
 di  integrazione,  possa  interferire nell'esercizio del diritto alla
 prova riconosciuto alle parti; ma sarebbe del tutto  irragionevole  -
 proprio perche' si tratta di un potere configurato come extrema ratio
 ed  ancorato  a  parametri  di  "assoluta  necessita'"  - precluderne
 l'esercizio proprio nelle ipotesi in cui, a causa dell'inerzia  delle
 parti, l'esigenza di un tale intervento e' piu' radicale.
    Anche per quanto attiene al requisito della "novita'", una lettura
 ragionevole  e  sistematicamente  corretta della norma porta, secondo
 l'Avvocatura, a concludere che il  requisito  della  "novita'"  debba
 essere   riferito   alle  prove  effettivamente  assunte  e  che  sia
 consentito al giudice ammettere d'ufficio  qualsiasi  prova  "nuova",
 anche  quella  dalla  quale  le parti siano decadute per irritualita'
 della richiesta.
    A conforto di tale interpretazione sta,  secondo  l'interveniente,
 la   ratio   della   citata   direttiva   n.   73  che,  preordinando
 l'attribuzione al giudice di poteri  di  impulso  e  di  integrazione
 dell'attivita'  delle  parti  al  fine della "ricerca della verita'",
 assegna ad essi proprio una funzione "suppletiva" dell'inerzia  delle
 parti.  In questo senso e', del resto, la piu' recente giurisprudenza
 della Corte di cassazione (sez. II, 4 novembre 1991, Paoloni)  che  -
 abbandonando  il  precedente  orientamento  restrittivo, recepito dai
 giudici a quibus -  ha  sottolineato  come  questo  contrasti  con  i
 principi  informatori  del nuovo rito "proteso all'accertamento della
 verita'  nell'aperta  e  leale  dialettica  tra  le  parti",  ed   ha
 evidenziato  che,  considerato  nell'ottica del perseguimento di tale
 fine,  il  parametro  dell'"assoluta  necessita'"  impone,   "secondo
 logica",  di superare ogni altro ostacolo, cosi' intendendo riferirsi
 alle preclusioni determinate dall'inerzia delle parti.  Inoltre,  con
 riferimento  al  parametro della "novita'", la Corte ha chiarito come
 debbano essere considerate "nuove" tutte le prove non  vietate  dalla
 legge, ancorche' anteriormente ritenute inammissibili o inconferenti.
 Sia  nella  delega  che nel codice e', cioe', riconosciuto al giudice
 nella fase dell'istruttoria  dibattimentale  un  ruolo  "che  non  e'
 quello di un semplice controllore o di un direttore di orchestra" e i
 cui  poteri  officiosi in ordine alla ammissione delle prove, proprio
 perche' residuali e delimitati entro rigorosi  confini,  non  possono
 che essere svincolati dal potere dispositivo delle parti.
                        Considerato in diritto
    1.  -  Dato  che  le  dieci  ordinanze  di  rimessione indicate in
 epigrafe investono la medesima disposizione di  legge  e  prospettano
 questioni identiche o analoghe, e' opportuna la riunione dei relativi
 giudizi.
    2.  -  L'art.  507  del  codice di procedura penale stabilisce che
 "Terminata  l'acquisizione  delle  prove,  il  giudice,  se   risulta
 assolutamente necessario, puo' disporre anche di ufficio l'assunzione
 di  nuovi  mezzi  di  prove".  Le ordinanze di rimessione muovono dal
 presupposto interpretativo che le condizioni alle  quali  tale  norma
 subordina  il  potere  del giudice di assunzione d'uffico di mezzi di
 prova - e cioe' che l'acquisizione delle prove richieste dalle  parti
 sia  terminata  e che si tratti di prove "nuove" - siano da intendere
 nel senso che tale potere non possa essere esercitato ne' nel caso in
 cui da tali prove le parti siano decadute per la  mancata  o  tardiva
 indicazione  dei  testimoni  nella  lista prevista dall'art. 468 cod.
 proc. pen., ne' nel caso in cui non via sia stata  ad  iniziativa  di
 esse una qualunque attivita' probatoria.
    Sulla  base di tale presupposizione, i giudici a quibus propongono
 ora l'una, ora l'altra di una serie di censure di  costituzionalita',
 con  le  quali,  considerandole  cumulativamente,  si  dubita  che il
 predetto art. 507 contrasti:
      con l'art. 76 della Costituzione (secondo tutte le ordinanze,  o
 l'art.  77, primo comma per le ordd. nn. 488 e 489/1992), dato che la
 direttiva n. 73 della legge delega (art. 2) non pone tali limitazioni
 al potere del giudice di disporre l'assunzione di mezzi di prova, che
 dovrebbe invece consentire, in quanto finalizzato alla "ricerca della
 verita'", di supplire ad  eventuali  inerzie  o  insufficienze  delle
 parti;  ed  inoltre perche' il sistema della delega e' imperniato sul
 controllo esterno da parte  del  giudice  sull'operato  del  pubblico
 ministero  (direttive nn. 37, 42, 49, 50, 51, 52: ord. n. 102/1992) e
 non consente di  confinare  il  potere  del  giudice  nei  limiti  di
 un'attivita'  integrativa  delle  richieste  istruttorie delle parti,
 alle  quali,  in  ragione   dell'indisponibilita'   degli   interessi
 protetti, non puo' essere riconosciuta la disponibilita' del processo
 penale (ordd. nn. 155, 166, 293 e 393/1992);
      con  l'art. 112 della Costituzione (tutte le ordinanze, salvo la
 n.  166/1992),  dato  che  l'inerzia  del  pubblico   ministero   nel
 richiedere  (tempestivamente)  l'ammissione delle prove si risolve in
 esercizio  solo  apparente  dell'azione  penale  e  si   traduce   in
 sostanziale    ritiro    dell'istanza    di    punizione,   contrario
 all'irretrattabilita' conseguente  al  principio  di  obbligatorieta'
 dell'azione  penale;  e  perche' e' incompatibile con detto principio
 una disciplina ispirata al principio di  disponibilita'  dell'oggetto
 del processo;
      con  gli  artt.  25  e  3  della  Costituzione, dati i nessi tra
 obbligatorieta' dell'azione e principi di  legalita'  ed  uguaglianza
 posti in luce nella sentenza n. 88 del 1991 (ord. n. 102/1992);
      con  l'art.  3  della  Costituzione (ordd. nn. 73, 74, 102, 110,
 293/1992),  in  quanto  non  e'   razionalmente   giustificabile   la
 diversita'  di trattamento che, in termini di condanna o assoluzione,
 consegue  all'essere   stata   la   lista   testimoniale   depositata
 tempestivamente  o  no  (in particolare, nel caso di coimputati dello
 stesso reato nei cui confronti si sia proceduto  separatamente:  ord.
 n.  293/1992); e perche' non e' ragionevole che tale diversita' possa
 dipendere da scelte discrezionali,  immotivate  e  insindacabili  del
 pubblico ministero, ne' e' coerente al sistema un diverso trattamento
 a  seconda  che le prove siano incomplete ovvero mancanti per inerzia
 delle parti;
      con l'art. 101, secondo comma, della  Costituzione,  perche'  il
 potere  del  giudice  di  decisione  del  merito della causa viene ad
 essere vincolato all'esercizio meramente discrezionale di  un  potere
 delle  parti  (ordd.  nn.  73,  74/1992)  ed alle scelte di carattere
 processuale,  in  ipotesi  anche  immotivate,  di  costoro  (ord.  n.
 102/1992);
      con   l'art.   102   della  Costituzione,  perche'  la  funzione
 giurisdizionale  non  puo'  essere  razionalmente  esercitata  se  al
 giudice   viene   resa  impossibile  una  compiuta  conoscenza  delle
 circostanze di fatto su cui deve pronunciarsi e perche'  in  mancanza
 di  prove  la  decisione assolutoria di merito finisce in realta' per
 avere un contenuto esclusivamente processuale (ord. n. 393/1992);
      con   l'art.  111  della  Costituzione,  perche'  una  decisione
 assolutoria fondata sulla totale assenza di  prove  risulta  motivata
 solo  formalmente  (ordd.  nn.  73,  74/1992)  e perche' l'obbligo di
 motivazione presuppone un'adeguata conoscenza dei fatti da  giudicare
 (ord. n. 393/1992);
      con   gli   artt.   2  e  24,  secondo  e  quarto  comma,  della
 Costituzione, perche', dato che lo scopo del  processo  penale  resta
 pur sempre l'accertamento della verita', la comminatoria di decadenze
 assolute  ed  insanabili  in  materia di assunzione di prove decisive
 potrebbe anche compromettere, nell'ipotesi di negligente  difesa,  il
 diritto  alla prova riconosciuto all'imputato, garantito come diritto
 inviolabile anche per l'esigenza di evitare errori giudiziari  (ordd.
 nn. 488,489/1992).
    In  aggiunta  a  cio',  il  Tribunale di Torino (ord. n. 110/1992)
 dubita anche che l'art. 468 cod. proc. pen.,  in  combinato  disposto
 con  il  predetto art. 507, contrasti, per i motivi predetti, con gli
 artt. 112, 76 e 3 della Costituzione, nella parte in cui non  prevede
 ipotesi   di  sanabilita'  della  sanzione  di  inammissibilita'  per
 intempestivo deposito della lista testimoniale.
   3. - Fin dall'entrata in vigore del nuovo codice, l'interpretazione
 dell'art. 507 e' stata oggetto di un vivace dibattito in  dottrina  e
 di  contrasti in giurisprudenza, tanto di merito che di legittimita'.
 In seno alla Corte di cassazione,  in  particolare,  alcune  pronunce
 hanno  sostenuto  l'interpretazione  restrittiva  fatta  propria  dai
 giudici rimettenti, mentre altre ne hanno adottato  una  piu'  ampia,
 che  intende  in modo assai diverso i presupposti per l'esercizio del
 potere giudiziale in questione. A dirimere il contrasto cosi' insorto
 e' intervenuta, nell'imminenza della decisione di  questa  Corte,  la
 sentenza  6 novembre - 21 novembre 1992, n. 11227 delle Sezioni Unite
 penali della Corte di cassazione, la quale ha stabilito:  a)  che  il
 potere  del giudice di assunzione, anche d'ufficio, di mezzi di prova
 ben puo' essere esercitato anche se si tratti di prove dalle quali le
 parti siano decadute - per  mancata  o  irrituale  indicazione  nella
 lista  di  cui  all'art. 468 cod. proc. pen. - dovendo intendersi per
 prove "nuove" ai sensi dell'art. 507 (cosi' come dell'art. 603) tutte
 quelle  precedentemente  non  disposte,  siano  esse  preesistenti  o
 sopravvenute,  conosciute  ovvero  sconosciute;  b)  che  tale potere
 suppletivo non trova ostacolo nella circostanza che non vi sia  stata
 alcuna acquisizione probatoria ad iniziativa delle parti, dato che la
 locuzione  "terminata  l'acquisizione  delle  prove"  indica  non  il
 presupposto per l'esercizio  del  potere  del  giudice,  ma  solo  il
 momento   dell'istruzione   dibattimentale  a  partire  dal  quale  -
 nell'ipotesi normale in cui tali acquisizioni vi siano state  -  puo'
 avvenire l'assunzione delle nuove prove.
    Nonostante l'autorevolezza della decisione delle Sezioni Unite, la
 diffusione  che  ha  avuto,  in  piu'  direzioni, l'opposto indirizzo
 interpretativo fatto proprio dai giudici a  quibus  rende  necessario
 che  questa  Corte  proceda  a  verificare  la  coerenza  dell'uno  o
 dell'altro orientamento, nei loro fondamenti ed esiti, con  la  legge
 delega  e  con  i  principi  costituzionali  che questa espressamente
 richiama (art. 2, prima parte).
    4. - Considerata nelle sue premesse ispiratrici, l'interpretazione
 dell'art. 507 cui i giudici rimettenti aderiscono, secondo  la  quale
 il  potere  del  giudice di assumere d'ufficio mezzi di prova sarebbe
 precluso dalla carenza di attivita' probatorie delle  parti  e  dalle
 decadenze  in  cui  queste  siano  incorse,  muove - come rilevano le
 Sezioni Unite della Cassazione - da una concezione alla stregua della
 quale il nuovo codice processuale "non tenderebbe alla ricerca  della
 verita'  ma  solo ad una decisione correttamente presa in una contesa
 dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio  nel
 quale "un esito vale l'altro, purche' correttamente ottenuto".
    Detto  in  altri  termini,  un  processo penale rispondente a tale
 modello sarebbe una tecnica di  risoluzione  dei  conflitti  nel  cui
 ambito  al  giudice  sarebbe  riservato  essenzialmente  un  ruolo di
 garante  dell'osservanza  delle  regole  di  una  contesa  tra  parti
 contrapposte,  ed  il giudizio avrebbe la funzione non di accertare i
 fatti reali  onde  pervenire  ad  una  decisione  il  piu'  possibile
 corrispondente  al  risultato  voluto  dal diritto sostanziale, ma di
 attingere - nel presupposto di  un'accentuata  autonomia  finalistica
 del  processo  -  quella sola "verita'" processuale che sia possibile
 conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e  nel
 rispetto  di  rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al
 modello.
    In questa prospettiva, si  assume  che  la  caratterizzazione  del
 nuovo  processo  come processo di parti comporta l'operativita' di un
 principio dispositivo sotto il profilo probatorio. A  cio'  consegue,
 da  un lato, l'espansione degli spazi di discrezionalita' della parte
 pubblica  e  l'accentuazione  dell'oralita'  come   strumento   della
 formazione della prova in dibattimento; dall'altro, la configurazione
 del  potere  di  intervento  del  giudice  in  materia  di prova come
 eccezionale,  e  percio'  precluso  dall'inattivita'  delle  parti  o
 dall'inosservanza  da  parte  di  esse  delle regole poste a presidio
 della correttezza della loro "contesa".
    5. - Va premesso, sul piano metodologico,  che  la  considerazione
 dell'ordinamento    processual-penale   italiano   va   condotta,   a
 prescindere  da  astratte  modellistiche,  sulla  base  del   tessuto
 normativo  positivo,  la  cui interpretazione e comprensione non puo'
 che derivare da un'attenta lettura dei principi e  criteri  direttivi
 enunciati  nella  legge  delega  e dei principi costituzionali di cui
 questa, come si e'  detto,  richiede  l'attuazione.  Non  va,  cioe',
 dimenticato  che "il sistema processuale delineato nella legge delega
 e poi concretamente attuato nel  codice  e'  tutt'affatto  originale,
 dato  che  tende bensi' (art. 2, primo comma) ad attuare "i caratteri
 del sistema accusatorio",  ma  "secondo  i  principi  ed  i  criteri"
 specificati nelle direttive che seguono" (sentenza n. 88 del 1991); e
 che,  poiche' la stessa norma detta ancor prima l'obbligo di "attuare
 i   principi   della   Costituzione",   un'adeguata    considerazione
 dell'ordinamento  effettivamente  vigente  non puo' prescindere dagli
 interventi  correttivi  che  questa  Corte  si  e'  trovata  a  dover
 apportare.
    6.  -  Alla  luce  di  tale  premessa, mette conto innanzitutto di
 notare che la stessa caratterizzazione del processo  penale  italiano
 come  "processo di parti", nella misura in cui evoca lo schema di una
 contesa tra parti contrapposte operanti sul medesimo piano, non  puo'
 non   considerare   che   il  pubblico  ministero  e'  un  magistrato
 indipendente appartenente all'ordine giudiziario che "non  fa  valere
 interessi    particolari    ma   agisce   esclusivamente   a   tutela
 dell'interesse generale all'osservanza della legge" (sentenza  n.  88
 del 1991 cit.), cui e' percio' demandato anche il compito di svolgere
 gli  "accertamenti  su  fatti  e  circostanze  a favore della persona
 sottoposta alle indagini" (art. 358 cod. proc. pen.).
    Inoltre,  a  salvaguardia   del   principio   di   obbligatorieta'
 dell'azione   penale,  gli  spazi  di  discrezionalita'  della  parte
 pubblica sono stati rigorosamente contenuti, circondando il potere di
 archiviazione con una fitta rete di controlli e dettando  in  materia
 una regola di giudizio rispettosa di tale principio (cfr. sentenza n.
 88  del  1991,  cit.).  E questa Corte, dal canto suo, ha riscontrato
 l'"incompatibilita' con un  ordinamento  costituzionale  fondato  sui
 principi di uguaglianza e di legalita' della pena, di una disciplina"
 (del  giudizio  abbreviato)  "che affida(va) a scelte discrezionali -
 immotivate  e,  quindi,  insindacabili  -  del   pubblico   ministero
 l'accesso   dell'imputato   ad   un   rito   dal  quale  scaturiscono
 automaticamente rilevanti effetti sulla  determinazione  della  pena"
 (cfr. sentenza n. 92 del 1992).
    7.  -  Quanto,  poi,  alla  tecnica  del processo, e' ben vero che
 l'esigenza  di  accentuare  la  terzieta'  del  giudice   -   percio'
 programmaticamente  ignaro  dei  precedenti  sviluppi  della  vicenda
 procedimentale - ha condotto ad introdurre, di massima,  un  criterio
 di  separazione  funzionale  delle  fasi  processuali,  allo scopo di
 privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito  come
 strumento  per  favorire  la  dialettica  del  contraddittorio  e  la
 formazione nel  giudice  di  un  convincimento  libero  da  influenze
 pregresse.  Ma tale opzione metodologica non ha fatto, ne' poteva far
 trascurare che "fine primario ed ineludibile del processo penale  non
 puo'  che  rimanere  quello della ricerca della verita'" (sentenza n.
 255 del 1992), e che ad un ordinamento  improntato  al  principio  di
 legalita'  (art.  25,  secondo comma, della Costituzione) - che rende
 doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate -  nonche'
 al  connesso  principio  di  obbligatorieta' dell'azione penale (cfr.
 sentenza n. 88 del 1991 cit.) non sono consone norme  di  metodologia
 processuale  che  ostacolino  in  modo  irragionevole  il processo di
 accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta
 decisione (cfr. la sentenza n. 255 del 1992).
    Simili regole di predeterminazione legale  del  valore  persuasivo
 delle  prove  sono, d'altra parte, dissonanti rispetto ai principi di
 fondo del nuovo codice, che "fa salvo (e,  in  aderenza  ai  principi
 costituzionali, non poteva essere altrimenti) il principio del libero
 convincimento,  inteso come liberta' del giudice di valutare la prova
 secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dar conto
 in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti" (art.
 192 cod. proc. pen.; cfr. sent. n.  255  del  1992,  cit.).  Piu'  in
 generale  -  come  si  e'  chiarito nella stessa decisione - il nuovo
 codice,  se  ha   prescelto   la   dialettica   del   contraddittorio
 dibattimentale   ed   il  metodo  orale  quali  criteri  maggiormente
 rispondenti all'esigenza di  ricerca  della  verita',  ha  pero'  nel
 contempo   provveduto  a  temperarne  opportunamente  la  portata  in
 riferimento  agli  elementi  di  prova  non  compiutamente   (o   non
 genuinamente)  acquisibili  con  tale  metodo,  adottando per essi un
 principio di non dispersione degli elementi di prova.
    8. - La configurazione del potere istruttorio conferito al giudice
 dall'art. 507 come eccezionale, e quindi  da  escludere  in  caso  di
 decadenza   o   inattivita'   delle  parti,  discende,  nella  logica
 presupposta dai giudici  rimettenti,  dall'assunzione  dell'immanenza
 nel  nuovo  codice,  come conseguenza della scelta accusatoria, di un
 principio dispositivo in materia di prova. Si tratta,  pero',  di  un
 assunto che non trova riscontro ne' nei principi della delega ne' nel
 tessuto normativo concretamente disegnato nel codice.
    E',  per  la  verita',  incontroverso  che  sarebbe  contrario  ai
 principi costituzionali di legalita' e di obbligatorieta' dell'azione
 concepire come disponibile la tutela giurisdizionale  assicurata  dal
 processo  penale. Cio', invero, significherebbe, da un lato, recidere
 il legame strutturale e funzionale tra  lo  strumento  processuale  e
 l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi
 che   quei  principi  intendono  garantire;  dall'altro,  contraddire
 all'esigenza, ad essi correlata, che la  responsabilita'  penale  sia
 riconosciuta   solo  per  i  fatti  realmente  commessi,  nonche'  al
 carattere indisponibile della liberta' personale.
    Sotto questo profilo, e' significativo che  il  nuovo  codice  non
 conosca procedure in cui la concorde richiesta delle parti vincoli il
 giudice  sul  merito  della  decisione; prova ne sia che ad un simile
 esito non conduce neanche l'istituto  dell'applicazione  di  pena  su
 richiesta (cfr. sentenza n. 313 del 1990).
    Ma  un  principio dispositivo non puo' dirsi esistente neanche sul
 piano probatorio, perche' cio' significherebbe  rendere  disponibile,
 indirettamente, la stessa res iudicanda.
    Ed  anche  qui  la  riprova  si ha nell'altro rito speciale in cui
 maggior spazio e' riservato alla volonta' delle parti,  e  cioe'  nel
 giudizio abbreviato, dato che in esso l'accordo di queste sulle prove
 utilizzabili  non vincola il giudizio sulla loro concludenza; ed anzi
 non puo' neanche essere inteso  -  come  ripetutamente  segnalato  da
 questa  Corte  (sentenze  nn.  92  del  1992  e  56  del 1993) - come
 assolutamente preclusivo delle integrazioni probatorie  eventualmente
 necessarie, pena la sua incompatibilita' coi principi costituzionali.
    Ma  l'assunzione  di  un principio dispositivo in materia di prova
 non trova riscontro nella normativa positiva neanche sul terreno  del
 giudizio  ordinario. Il metodo dialogico di formazione della prova e'
 stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto
 maggiormente  idoneo  al  loro  per  quanto  piu'   possibile   pieno
 accertamento,   e  non  come  strumento  per  far  programmaticamente
 prevalere  una  verita'  formale  risultante   dal   mero   confronto
 dialettico  tra  le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe
 risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che  discende
 dal  principio  di  legalita'  e  da  quel  suo  particolare  aspetto
 costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale.
    In questo quadro, il diritto alla prova delle parti ha certamente,
 nella struttura del processo, un ruolo centrale,  dato  che  le  loro
 richieste   sono   assistite   da   una   presunzione  (relativa)  di
 ammissibilita' (art.  190,  primo  comma)  e  che  per  garantire  la
 correttezza  del  loro  confronto  dialettico  e' stato introdotto un
 rigoroso regime di decadenza dalle prove (art. 468).
    Ma altro e' assicurare la pienezza e lealta'  del  contraddittorio
 delle  parti,  altro  e'  inferirne che un tale regime abbia anche un
 effetto preclusivo dell'introduzione ad iniziativa del giudice  delle
 prove  necessarie  all'accertamento dei fatti, rispetto alle quali le
 parti  siano  rimaste  inerti  o  dalle  quali  siano  decadute.  Che
 l'assunzione  del  metodo  dialettico  non  precluda  al  giudice gli
 interventi    necessari    ad   acclarare   la   vicenda   ipotizzata
 nell'imputazionelo si desume, innanzitutto, dal principio che collega
 l'assunzione delle prove  non  disciplinate  dalla  legge  alla  loro
 idoneita'  "ad  assicurare  l'accertamento  dei  fatti"  (art. 189) e
 dall'enunciazione generale sull'ammissione delle prove d'ufficio  nei
 casi  stabiliti  dalla  legge  che,  non a caso, segue immediatamente
 quella sul riconoscimento del diritto delle parti  alla  prova  (art.
 190,   secondo   comma,   cod.  proc.  pen.);  e,  quanto  alla  fase
 dibattimentale, dal potere del giudice di disporre d'ufficio  perizie
 senz'altro  presupposto che non sia quello della loro rilevanza (art.
 508,  primo  comma);  dalle  ipotesi   in   cui   alle   acquisizioni
 dibattimentali  tramite  lettura di atti si puo' procedere ex officio
 (artt. 511, 511 bis); dal potere riconosciuto  al  giudice  d'appello
 (art.    603,   terzo   comma)   di   procedere   alla   rinnovazione
 dell'istruzione  dibattimentale  quando  la  ritenga   "assolutamente
 necessaria",   disponendo   all'uopo  anche  le  prove  che,  benche'
 conosciute, non erano state assunte in primo grado.
    Del resto, se  e'  vero  che  il  codice  detta  per  l'istruzione
 dibattimentale regole minuziose sull'ordine di assunzione delle prove
 e  sull'avvicendamento  delle  parti  in  tale  assunzione al fine di
 garantire l'attendibilita'  delle  conoscenze  giudiziali  da  queste
 offerte,  e'  anche  vero  che,  riconoscendo al giudice il potere di
 indicare alle parti stesse temi di prova  nuovi  o  piu'  ampi  e  di
 rivolgere  domande  alle persone interrogate (art. 506), consente gli
 adattamenti a tali sequenze correlati all'esercizio di detti  poteri,
 e  percio'  non  lascia  alle  sole  parti lo sviluppo dell'attivita'
 probatoria da esse promossa.
    Ma e' soprattutto dall'art. 507 che si desume l'inesistenza di  un
 potere  dispositivo delle parti in materia di prova.  Questa Corte ha
 gia' avuto modo di dire, nella sentenza n. 241  del  1992,  che  tale
 norma  -  inserita  "in un sistema processuale imperniato su un ampio
 riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione  del
 materiale  probatorio  e' rimessa in primo luogo all'iniziativa delle
 parti" - "conferisce  al  giudice  il  potere-dovere  d'integrazione,
 anche  d'ufficio,  delle  prove  per  l'ipotesi  in  cui la carenza o
 insufficienza, per qualsiasi  ragione,  dell'iniziativa  delle  parti
 impedisca  al  dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la
 piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo,
 onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione". E  che  essa
 debba essere intesa in tal modo, lo dimostrano esaurientemente, nella
 sentenza   piu'  volte  citata,  le  Sezioni  Unite  della  Corte  di
 cassazione, quando ricordano che la lata previsione - contenuta nella
 direttiva n. 73 della legge delega (da cui l'art. 507 promana) -  del
 "potere  del  giudice di disporre l'assunzione di mezzi di prova", fu
 introdotta - e poi mantenuta senza ripensamenti -  in  coerenza  "con
 una  visione  piu'  realistica della funzione del giudice, che puo' e
 deve essere anche  di  supplenza  dell'inerzia  delle  parti  e  deve
 esplicarsi in modo che tutto il tema della decisione gli possa essere
 chiarito".  Il legislatore delegante ha cioe' esattamente considerato
 - in armonia con l'obiettivo di eliminazione delle disuguaglianze  di
 fatto  posto  dall'art. 3, secondo comma, della Costituzione - che la
 "parita'  delle  armi"  delle  parti  normativamente  enunciata  puo'
 talvolta  non trovare concreta verifica nella realta' effettuale, si'
 che il fine  della  giustizia  della  decisione  puo'  richiedere  un
 intervento  riequilibratore  del giudice atto a supplire alle carenze
 di taluna di esse, cosi' evitando assoluzioni o condanne immeritate.
    Il potere conferito al giudice dall'art. 507 e', dunque, un potere
 suppletivo, ma non certo eccezionale. Che poi esso sia  connotato  da
 un  criterio  che  la  norma  pleonasticamente definisce di "assoluta
 necessita'" - e che peraltro la delega neppure prevede  -  si  spiega
 considerando  che  il  suo esercizio si colloca in una fase in cui e'
 "terminata l'acquisizione delle prove"  che  siano  state  svolte  ad
 iniziativa  delle  parti  (artt.  468, 493, 495) o su indicazione del
 giudice (cit. 506): ditalche'  le  "nuove  prove"  la  cui  possibile
 esistenza  ed  esperibilita'  emerga dal materiale a disposizione del
 giudice sono soggette, rispetto a quelle inizialmente richieste dalle
 parti, ad "una piu' penetrante e approfondita valutazione della  loro
 pertinenza  e rilevanza che e' correlativa alla piu' ampia conoscenza
 dei fatti di causa  che  il  giudice  ha  ormai  conseguito  in  tale
 momento" (cfr. sentenza n. 241 del 1992, cit.).
    E',  del  resto, evidente che sarebbe contraddittorio, da un lato,
 garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione  penale  contro  le
 negligenze  o le deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo
 al giudice per le indagini preliminari  il  potere  di  disporre  che
 costui formuli l'imputazione (art. 409, quinto comma); e, dall'altro,
 negare  al  giudice  dibattimentale il potere di supplire ad analoghe
 condotte nella parte pubblica.  L'attribuzione  di  tale  potere  ha,
 anzi,  un  fondamento  maggiore,  perche'  i principi di legalita' ed
 uguaglianza  -  di  cui  quello  di  obbligatorieta'  dell'azione  e'
 strumento (cfr. sentenza n. 88 del 1991) - esigono che il giudice sia
 messo  in grado di porre rimedio anche alle negligenze ed inerzie del
 difensore. Deve quindi convenirsi con le conclusioni cui  le  Sezioni
 Unite  della  Cassazione sono pervenute: che, cioe', "se si dovessero
 ritenere possibili entrambe le contrapposte interpretazioni dell'art.
 507, dovrebbe optarsi per quella che  esclude  qualunque  preclusione
 legata all'inerzia delle parti perche' essa sola appare conforme alla
 direttiva  n.  73  ed in grado quindi di far escludere una violazione
 della  delega".  Tale  conclusione   va   anzi   integrata   con   la
 considerazione   che   un'interpretazione   diversa   da  quella  qui
 illustrata  contraddirebbe  non  solo  tale  direttiva,  ma  anche  i
 principi costituzionali richiamati nella presente decisione.
    Pertanto,  poiche'  le questioni sollevate muovono da premesse in-
 terpretative erronee, esse vanno dichiarate non fondate nei sensi  di
 cui in motivazione.