LA CORTE DI APPELLO
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nei  confronti  di  Iorio
 Gaetana, nata a Roma il 15 gennaio 1959, elettivamente domiciliata in
 via  degli  Scipioni n. 268, presso l'avv. Luciano Revel, istante per
 riparazione di ingiusta detenzione, e il  Ministero  del  tesoro,  in
 persona  del Ministro pro-tempore, elettivamente domiciliato in Roma,
 via dei Portoghesi n. 12, presso l'Avvocatura generale  dello  Stato,
 che lo rappresenta e difende in virtu' di legge;
    Udite  le conclusioni del p.g. e dell'istante, all'udienza in cam-
 era di consiglio del giorno 11 febbraio 1993;
    Ritiene:
    I) Premessa in diritto.
    L'art. 314 del c.p.p. vigente riconosce al prosciolto il  "diritto
 ed  un'equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non
 vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave".
    E' di chiara evidenza che la norma - ai fini della esclusione  del
 diritto  alla  riparazione  -  richiede il nesso di causalita' tra un
 comportamento doloso o colposo e la custodia.
    La  chiara  disposizione  di   legge,   interpretata   secondo   i
 consolidati  canoni logici propri del principio di causalita', quindi
 richiede, per l'esclusione del diritto alla riparazione,  soltanto  i
 seguenti elementi.
    Per  l'elemento  materiale:  1)  una  condotta del soggetto, anche
 solamente a titolo di concorso con quella di altri; 2)  un  nesso  di
 causalita'   tra   condotta   ed   evento  detenzione  (detenzione  =
 provvedimento di custodia della p.g. o dell'a.g.).
    Per l'elemento psicologico: uno stato di dolo o di colpa grave  in
 riferimento  all'evento,  anche  a  titolo  di concorso con quello di
 altri:  un  operare,  cioe',  con  l'intenzione   di   procurare   la
 detenzione:  ovvero una azione od omissione gravemente colposa, cioe'
 negligente,  imprudente,  priva  di   perizia   o   che   costituisca
 inosservanza di norme, in modo grave, anche solamente in concorso con
 colpa altrui, correlata al fatto reato previsto nell'impugnazione.
    E'  pure evidente il rilievo logico che l'elemento (fattore) causa
 deve  precedere  -  nell'ordine  temporale   -   l'elemento   causato
 (conseguenza),  senza  di  che  quella  figura  logica,  che e' detta
 rapporto causale, non si rinviene.
    Da tali ovvie premesse anzitutto deriva l'inammissibilita'  -  sul
 piano  logico  -  di tesi riduttive, che richiedano, per l'esclusione
 della riparazione, che la colpa sia solo quella che  puo'  rinvenirsi
 nell'attivita'  difensiva  dell'accusato (taluno usa anche il termine
 di "malaccortezza difensiva") e non anche in attivita' antecedente.
    Invece, dalle stesse premesse sopra enunciate, si ricava che tutto
 quel comportamento del soggetto, che  precede  la  detenzione  ed  e'
 "ricollegabile"  ad  essa,  non puo' essere senza rilievo, e in linea
 logica e per chiaro dettato legislativo.
    L'intento riduttivo di cui sopra non puo' essere  rinvenuto  nella
 norma  di  legge  dell'art.  314,  se interpretata secondo i corretti
 canoni e per due ordini di ragioni, ciascuno di per se' assorbente ed
 esaustivo:
       A) infatti, gia'  nell'ordine  normale  cronologico  dei  fatti
 storici, l'atteggiamento difensivo segue e non precede l'inizio della
 custodia  cautelare  (cioe'  il  fatto  detenzione),  sicche'  -  per
 definizione  -  non  puo'  averla  cagionata  (arresto  in   supposta
 flagranza  -  provvedimento  di  custodia  di  persona irreperibile -
 provvedimento di custodia di persona denunciata e mai sentita, ecc.).
    La serie  logica  (condotta  dolosa  o  colposa,  che  cagiona  la
 custodia)  precisata  dalla norma non autorizza alcuna tesi minimale,
 che intenda limitare, nel solo caso di colpa, l'elemento  antecedente
 solamente alla condotta difensiva;
       B)  ma,  a  ben vedere, l'inesattezza della tesi interpretativa
 riduttiva si rileva che per altro verso.
    Operando nel senso che qui si contrasta, si viene a realizzare una
 disparita' tra  ipotesi  dolosa  ed  ipotesi  colposa,  inammissibile
 perche'  senza  fondamento  nell'espressione di legge: per la ipotesi
 dolosa, di realizzazione  nel  nesso  di  causabilita',  verrebbe  in
 rilievo  ogni  comportamento  antecedente  alla  custodia  e non solo
 quello realizzato in sede di "difesa", sicche' la predisposizione  di
 prove  a proprio carico (cioe' la condotta con l'intento di provocare
 un  provvedimento  di  custodia  cautelare)  non   consentirebbe   la
 riparazione,   mentre   l'ipotesi   colposa   rimarrebbe   ridotta  a
 comportamenti cronologicamente successivi rispetto a  quelli  dolosi,
 cioe'  ai rari casi di colpa nella difesa (in quella condotta che poi
 quasi sempre segue alla custodia e, percio',  sul  piano  logico,  in
 detti casi, non ne costituisce un antecedente).
    Vero,  quindi,  e' che i principi generali sulla condotta colposa,
 sull'evento susseguente  e  sul  relativo  nesso  di  causalita'  non
 consentono - per la sintetica omnicomprensiva espressione usata dalla
 legge - tale sorta di differenziazione.
    Ed  il  legislatore ha voluto sottolineare la rilevanza della mera
 situazione di colpa grave, tanto che  ha  ammesso  che  sia  decisiva
 anche a titolo di concorso.
    A questo punto, un chiarimento si rende necessario.
    Il rapporto tra custodia cautelare e condotta del soggetto (dolosa
 o  colposa),  per  la  natura  degli  enti di cui si tratta, non puo'
 appartenere al genere di rapporto di causalita'  c.d.  fisico,  cioe'
 che  si  realizza attraverso le leggi naturali delle scienze fisiche,
 poiche' la custodia cautelare (detenzione), a differenza, ad esempio,
 dell'evento morte in seguito a lesioni, non e' ovviamente conseguenza
 naturale  (fisica)  di  un  antecedente,  ma  e'  realizzata comunque
 attraverso   un   provvedimento   dell'autorita'   (di   polizia    o
 giurisdizionale).
    E' evidente, quindi, che la condotta dell'interessato va esaminata
 in relazione a tale provvedimento.
    Applicando i principi generali da tempo acquisiti e consolidati in
 materia  di causalita' giuridica, si dovra' verificare, cosi', se una
 data concreta condotta abbia costituito una condicio sine qua non del
 provvedimento cautelare (di qualsiasi autorita'); cioe',  trattandosi
 di  provvedimento  e  non  di  effetto  naturale,  se essa fu tale da
 costituire  un  antecedente,  da  cui  conseguisse,  in  base  a  una
 correlazione  frutto  di  ragionamento non arbitrario o irragionevole
 che lo collegava alla ipotesi di reato (se mai a titolo  di  concorso
 con  altri  antecedenti), un provvedimento cautelare (per definizione
 di legge,  d'altra  parte,  ingiusto,  in  quanto  non  correlato  ad
 effettiva partecipazione al reato). Ma cio' non basta, evidentemente,
 per l'esclusione del diritto alla riparazione.
    Occorrera' verificare, poi, se in tale condotta ricorra un ipotesi
 di  dolo  (cioe'  se  si  tratta  di  condotta  intenzionale, diretta
 all'emissione di un provvedimento  cautelare  o  all'attribuzione  di
 responsabilita' per reati) o di colpa grave, cioe' di una condotta in
 se'  non  neutra,  ma  gravemente  imprudente, megligente, imperita o
 inosservate di norme o discipline, anche se solo a titolo di concorso
 con l'attivita' di altri. Sia il dolo che la colpa  richiedono,  anzi
 presuppongono,  la  conoscenza di una serie di elementi e circostanze
 del caso  concreto,  senza  di  che  l'elemento  psicologico  non  e'
 realizzato;  sicche'  la  stessa condotta puo' - per certi casi - per
 Tizio, che e' a conoscenza di certi fatti, essere colposa, mentre non
 lo e' per Caio, che tali fatti e circostanze ignori e l'ignoranza non
 sia a lui imputabile a titolo di colpa giuridica.
    Per l'ipotesi di colpa vengono  in  rilievo  anche  le  norme  sui
 doveri  e  sulle  discipline,  sicche', anche qui, la stessa condotta
 puo' essere colposa per Tizio, che tali doveri abbia e non per  Caio,
 a cui essi invece non incombano.
    Qualche   ulteriore   precisazione   si   impone.  Trattandosi  di
 causalita' non di ordine fisico, vengono anzitutto in  rilievo  tutti
 quei   comportamenti,   che,   valorizzati   soprattutto   nel  campo
 civilistico, cui comunque appartiene  la  materia  della  riparazione
 della  ingiusta  detenzione, possono sussumersi nella categoria delle
 condotte, che hanno ingenerato o concorso ad ingenerare  l'errore  di
 altri, il quale si e' poi determinato in un certo senso.
    Nella  materia  della  lotta  alla criminalita', in cui si esplica
 l'attivita' di quelle istituzioni che hanno il dovere di  contrastare
 il   crimine,   per   la   difesa   dei  fondamentali  diritti  della
 collettivita' e del singolo, viene giustamente in rilievo in sostanza
 un onere di diligenza del cittadino.
    Detto onere ovviamente non ha rilievo ai fini propri penali, cioe'
 ai fini del proscioglimento dell'imputato  dal  resto  doloso,  ma  a
 quelli  di  rendere  ammissibile,  al di la' del proscioglimento, una
 riparazione pecuniaria di una detenzione,  che  alla  fine  dell'iter
 giurisdizionale  e' risultata non giusta sotto il profilo delle norme
 penali.
    Tale  interpretazione  del dettato legislativo, che sembra l'unica
 ammissibile per la chiara  espressione  della  norma,  risulta  anche
 conforme  ai  principi  generali  del  nostro  ordinamento giuridico,
 secondo considerazioni di carattere sistematico.
    L'onere di una diligenza di un qualche rilievo (assenza  di  colpa
 grave)  e'  anzitutto  espressione di principi generali di convivenza
 nella collettivita', sicche' solamente ad una  condotta  ne'  dolosa,
 ne'  gravemente  colpevole,  nei sensi sopra indicati, conseguira' il
 diritto alla riparazione (in aggiunta al diritto al  proscioglimento,
 ancorato  -  questo - a presupposti diversi propri, in relazione alla
 fattispecie criminosa imputata).
    Non vi e' dubbio che  la  riparazione  pecuniaria  prevista  dagli
 artt.  314  e  segg.  del c.p.p. vigente sia un istituto appartenente
 all'ampia categoria costituita dal genus degli istituti  risarcitori-
 riparatori   del  diritto  civile,  che  regolano  la  materia  delle
 restituzioni e dei pagamenti di denaro, conseguenti  a  danni  subiti
 dal singolo per qualsiasi tipo di condotta altrui (artt. 2043 e segg.
 1053, 1218 e segg. del cod. civ. ecc.).
    Volta  a  volta  la  legge parla di "danno" ingiusto, se del tutto
 illegittimo  (artt.  2043,  1218  ecc.  del  cod.  civ.),  ovvero  di
 "indennita'"  se  il  danno  e'  "legittimo", ma tale che il soggetto
 passivo non debba sopportarne integralmente le conseguenze (es. artt.
 2045, 1053, ecc, del cod. civ.).
    Il  principio  generalissimo  del  nostro  ordinamento  giuridico,
 attinente  alla  riparazione  pecuniaria  di  qualsiasi tipo di danno
 (anche quello  cagionato  alla  persona,  alla  sua  vita,  alla  sua
 integrita'  fisica  oltre  che  patrimoniale),  quale  che sia il suo
 antecedente soggettivo  (diritto  assoluto,  diritto  della  persona,
 diritto  di  credito,  relativo,  ecc.) si rinviene negli artt. 1227,
 primo e secondo comma, e 2056 del cod. civ.
    Il primo prevede: "Se il fatto colposo del creditore ha concorso a
 cagionare il danno, il risarcimento e' diminuito secondo la  gravita'
 della colpa e l'entita' delle conseguenze che ne sono derivate.
    Il risarcimento non e' dovuto per i danni che il creditore avrebbe
 potuto evitare usando l'ordinaria diligenza".
    L'art.  2056 estende le stesse norme a tutte le altre categorie di
 danno riparabile o risarcibile, illegittimo o legittimo,  illecito  o
 lecito.
    La   normativa  contenuta  nell'art.  1227  del  cod.  civ.  viene
 generalmente intesa nel senso che l'ordinamento impone anche  l'onere
 di  usare  una  ragionevole  diligenza  per  tutelare  se stessi e il
 proprio patrimonio.
    La dottrina sottolinea come questa norma sia coerente coi principi
 generali in tema di causalita' e  coi  principi  -  espressi  in  una
 quantita' di norme - che impongono ai soggetti di comportarsi secondo
 correttezza  o  fanno  riferimento agli obblighi (ed oneri) del bonus
 pater familias (art. 1175, ecc. del  cod.  civ.);  senza  di  che  il
 soggetto  stesso  non  sara'  tutelato con riparazioni pecuniarie. Va
 sottolineato che l'esclusione o la riduzione, nei congrui  casi,  del
 risarcimento   o  riparazione  del  danno,  nel  caso  di  colpa  del
 danneggiato, si applica nel nostro ordinamento giuridico a  qualsiasi
 genere  di  danno,  anche  a  quello  che  attenga  alla  vita o alla
 integrita' fisica del danneggiato medesimo, sicche' in  sostanza  non
 e'  incoerente  col  sistema  giuridico complessivo prevedere anche -
 secondo l'istituto regolato negli artt. 314 e segg. del cod.  civ.  -
 che il concorso di colpa (grave) dell'imputato escluda la riparazione
 pecuniaria per la detenzione.
    Si  tratta,  in ogni caso, di una situazione giuridica soggettiva,
 che puo' sussumersi nella categoria dell'onere, piu'  che  in  quella
 dell'obbligo.
    In conclusione, se sussiste un nesso di causalita' nel senso sopra
 indicato,  se  cioe' la condotta dell'agente provoco' (quale condicio
 sine qua non) o concorse a provocare "l'idea-base" del  provvedimento
 di  custodia,  non  ha  ovviamente  rilievo  decisivo il fatto che si
 tratto'  di  una  convinzione  o  ipotesi   erronea,   poiche'   cio'
 costituisce   proprio  il  presupposto  naturale  (necessario),  "per
 definizione", dell'istituto della riparazione: se l'ipotesi non fosse
 stata    erronea,    sarebbe    conseguita    l'affermazione    della
 responsabilita' e non si verterebbe in ipotesi di riparazione.
    Quel  che  conta  -  secondo  la chiara norma di legge - e' se nel
 realizzarsi di detta convinzione o ipotesi abbia almeno  concorso  la
 colpa grave del soggetto che fu inquisito e poi processato.
    Infine,  si  deve  sottolineare che la stessa Corte costituzionale
 prevede che il diritto alla riparazione degli errori  giudiziari  non
 e'  incondizionato,  affermando,  appunto, all'art. 24, ultimo comma,
 che la legge determina le condizioni nelle  quali  esso  e'  ammesso,
 oltre che i modi dell'esercizio.
    II) Il caso di Iorio Gaetana.
    Le  circostanze di fatto rilevanti del caso che riguarda l'istante
 Iorio Gaetana, per  quanto  attiene  all'istituto  della  riparazione
 della  ingiusta  detenzione,  sono  le seguenti, gia' evidenziate nei
 provvedimenti giurisdizionali penali.
    Dopo le percosse inferte  nel  corso  di  un  litigio,  dal  Vitto
 Stefano  alla  moglie,  in  casa di costei poco dopo le ore 13 del 17
 ottobre 1984, la Iorio si reco' al pronto soccorso, ove, munitasi  di
 gettoni,  telefono'  a  Zecchiaroli  Sandro,  suo amante dal novembre
 1983; questi sopraggiunse subito e riaccompagno'  la  donna  a  casa,
 dove  furono  raggiunti  dal  Cipollaro  e dalla fidanzata di costui,
 Tiziana Fabiani.
    Iorio Gaetana, la madre della stessa (Anna Maria  Ceccarelli),  la
 sorella  (Stefania),  lo Zecchiaroli, il Cipollaro e la sua fidanzata
 (Tiziana Fabiani) si trattennero tutto il pomeriggio del 17  in  casa
 della  prima,  in  stato di evidente animazione, come e' dato rilievo
 dalle varie deposizioni, in seguito al grave episodio  delle  lesioni
 subite  dalla  donna  ad  opera  del marito; sopraggiunse anche Corsi
 Claudio, fidanzato della Stefania (sorella  della  signora  Gaetana);
 appunto  Corsi  riferi' di un appuntamento che aveva preso per quella
 sera stessa, alle ore 21,30 con Stefano Vitto, il quale per  telefono
 gli  aveva  chiesto  di  incontrarlo;  verso sera lo Zecchiaroli e il
 Cipollaro uscirono dalla casa di G. Jorio, lasciando ivi la fidanzata
 di Cipollaro; verso le 21,30, Stefano  Vitto  usci'  dalla  casa  dei
 genitori  per recarsi all'appuntamento con il Corsi, e per incontrare
 anche un certo Cunina Cesare, che poco prima  gli  aveva  telefonato,
 chidendogli   di   vederlo;  in  quella  stessa  ora  la  teste  Alda
 Chiavaroli, abitante in corso Duca di Genova di Ostia, ove era  anche
 l'abitazione  del  Vitto  Stefano, udi' delle voci alterate di uomini
 che discutevano  animatamente  nel  parcheggio  della  vicina  piazza
 Agrippa,  dove  il  Vitto  era solito lasciare la sua auto, e senti',
 poi, il rumore di alcuni sportelli che si chiudevano e di un'auto che
 ripartiva a grande velocita'; la sera del 17 Zecchiaroli e  Cipollaro
 non  fecero  piu'  ritorno  a  casa  di  Jorio  G.  e la fidanzata di
 Cipollaro pernotto' li'; la  mattina  del  18  ottobre,  Vitto  Elvio
 recatosi a casa della Jorio per chiedere notizie del figlio, alla sua
 richiesta se la donna avesse parlato del grave litigio ai suoi amici,
 ebbe  dalla  stessa risposta negativa. La Jorio, sentita per la prima
 volta dalla polizia nell'Ospedale  S.  Giovanni  dove  si  era  fatta
 ricoverare  dopo  avere  ricevuto  la  visita a casa del Vitto Elvio,
 dichiaro' che aveva telefonato allo Zecchiaroli soltanto  al  mattino
 del   giorno   18.   Successivamente,  la  stessa,  su  consiglio  di
 Zecchiaroli,  rettifico'  la  sua  deposizione  ammettendo  di   aver
 avvertito  telefonicamente  lo  stesso  Zecchiaroli  gia'  nel  primo
 pomeriggio dle giorno 17;  affermo',  pure,  che  aveva  mentito  per
 "lasciare  fuori  dai  suoi  problemi  personali Zecchiaroli, che era
 estraneo ai fatti"; nei giorni seguenti, nelle sue dichiarazioni agli
 inquirenti la Jorio cerco' di accreditare  l'ipotesi  che  il  marito
 potesse essere rimasto coinvolto in vendette di persone conosciute in
 occasione  di  traffici  illeciti (ricettazione e, forse, traffico di
 droga  con  i  fratelli  Fascioni);  l'ipotesi  fu  presa  in   seria
 considerazione  dagli inquirenti e porto' all'arresto di due persone,
 poi scarcerate.
    Segui' a tutto cio' la fuga  in  Francia  dello  Zecchiaroli,  del
 Cipollaro,  della Jorio e della fidanzata del Cipollaro, con l'uso di
 documenti falsi procurati da Zecchiaroli Gaetano e dopo aver  offerto
 in vendita perfino i mobili di casa.
    Dopo   circa   un  mese  da  quando  Gaetana  Jorio  si  era  resa
 irreperibile, venne spiccato contro di lei  e  contro  Zecchiaroli  e
 Cipollaro  ordine  di  cattura  per  omicidio  in corso.   Rinviati a
 giudizio dalla Corte di Assise  per  omicidio  volontario  ed  altro,
 Cipollaro    e    Zecchiaroli    erano    condannati   per   omicidio
 preterintenzionale ed occultamento di cadavere; Jorio Gaetana  veniva
 assolta per insufficienza di prove in I grado e per non aver commesso
 il fatto in grado di appello.
    Su  ricorso del p.g., la Corte di cassazione annullava con rinvio,
 per difetto di motivazione, la pronuncia di assoluzione della  Jorio.
 La  corte  di assise di appello, in sede di rinvio, riconosceva Jorio
 Gaetana colpevole di concorso in  omicidio  preterintenzionale  e  la
 condannava  alla  pena  di  anni  quattro  e  mesi sei di reclusione,
 concesse le attenunati generiche.
    La corte di cassazione, su ricorso della difesa,  annullava  senza
 rinvio,   per  difetto  di  motivazione,  la  sentenza  di  condanna,
 cosicche'  il  procedimento   penale   giungeva   al   suo   termine.
 Presentata,  da  pare  della  Jorio,  l'istanza  di  riparazione  per
 ingiusta detenzione, la corte di appello di Roma riteneva  verificata
 nella  condotta dell'istante l'ipotesi di colpa grave, prevista dalla
 norma, cosicche' respingeva la domanda, con ordinanza del  18  aprile
 (20 maggio) 1991.
    La  corte  di  appello, in detto provvedimento, riteneva che Jorio
 Gaetana aveva posto .. "in atto un vero e proprio  depistaggio  delle
 indagini,  allorche'  interrogata  la  prima  volta dalla Polizia non
 riferi' agli inquirenti della  visita  ricevuta  al  pronto  soccorso
 dell'ospedale  di  Ostia,  ove  era  stata  ricoverata per le lesioni
 subite  dal  marito,  da  parte  di  Zecchiaroli  Sandro  e Cipollari
 Luciano, ritenuti  gli  autori  dell'omicidio  in  danno  del  Vitto.
 Successivamente, interrogata il giorno dopo, rettifico' le precedenti
 dichiarazioni,  precisando  che aveva informato lo Zecchiaroli (delle
 lesioni subite) il giorno 17 e non il  18,  testualmente  affermando:
 'Ho  fatto  tale  asserzione perche' il ragazzo Zecchiaroli Sandro e'
 estraneo a questi fatti ed io  lo  volevo  lasciare  fuori  dai  miei
 problemi  personali'.   In buona sostanza, la Jorio aveva posticipato
 la data della conoscenza da parte 'del suo ragazzo'  dell'aggressione
 commessa  dal  Vitto: infatti, siccome la vicenda della sparizione di
 quest'ultimo si era verificata il 17, la Jorio affermando che il  suo
 amico  fino  al  18  non aveva alcuna notizia dell'aggressione da lei
 subita, avrebbe in tal  modo  allontanato  da  lui  ogni  sospetto  e
 indirizzato le indagini in altre direzioni.
    Altro  evidente  tentativo di 'depistaggio' fu posto in essere con
 gli interrogatori del 25 e 29 ottobre 1984 allorche' la Jorio riferi'
 delle attivita' illecite e dei rapporti del marito con persone legate
 al mondo del gioco d'azzardo e del totonero, riferendo  episodi  tali
 da  indurre  in  un  primo  tempo  gli investigatori a dirigere verso
 quell'ambiente le indagini per risalire agli autori del delitto.  In-
 fine, - circostanza decisiva ai fini dell'indagine in esame - la  sua
 fuga  con l'amante all'estero e l'abbandono della figlia Cristina, in
 circostanze (vendita dei  beni  e  ricorso  a  falsi  documenti)  che
 potevano    ragionevolmente    portare    a    concludere   per   una
 corresponsabilita' della Jorio nell'omicidio.
    Si consideri che, al momento di tale  fuga,  nessun  provvedimento
 restrittivo della liberta' personale era stato ancora emesso, sicche'
 era  ragionevole  trarre  da  quel  comportamento  quella particolare
 rilevanza accusatoria che ad esso e' stata attribuita, e  che  porto'
 all'emissione del mandato di cattura".
    Per  concludere,  secondo  la  corte di appello, la condotta della
 Jorio fu di grave imprudenza: con i tentativi  di  depistaggio  delle
 indagini e con la fuga all'estero essa dette causa alla emissione del
 provvedimento restrittivo della liberta' personale.
    Senonche', la Corte di cassazione, con sentenza del 20 gennaio (20
 febbraio)  1992, annullava, con rinvio, detta pronuncia.  Riteneva la
 Corte suprema, anzitutto, che certamente  la  condotta  della  Jorio,
 evidenziata  dalla ordinanza cassata, non realizzava quell'ipotesi di
 dolo, che avesse dato causa a concorso a dar causa  alla  detenzione,
 prevista dall'art. 314 del c.p.p., poiche' "l'intento della Jorio non
 era  questo,  ma  era  invece  quello,  del tutto diverso, di coprire
 responsabilita'  altrui  senza  minimamente  prospettare  o  lasciare
 trasparire,  in sostituzione, responsabilita' proprie".  La reticenza
 e le menzogne della Jorio, prosegue la Cassazione, risultano in  ogni
 caso  obiettivamente idonee a coprire responsabilita' altrui, "ma non
 a porre in evidenza inesistenti responsabilita' della stessa  Jorio",
 sicche'   va  esclusa  la  configurabilita'  di  una  colpa  ad  esse
 riferibile.  La  stessa  fuga  all'estero,  sia   pure   con   quelle
 particolari  circostanze  (vendita  dei beni, uso di documenti falsi)
 "non puo' valere a costituire colpa, ai fini di cui all'art.  314  de
 c.p.p.".    In  conclusione, la Corte suprema enuncia il principio di
 diritto,  cui  uniformarsi:  "Il  dolo  o  la  colpa  grave  previsti
 dall'art.  314  del  c.p.p. in tanto sussistono in quanto il soggetto
 inquisito o abbia scientemente operato al fine di creare  la  fallace
 apparenza di condizioni nelle quali potesse o dovesse essere adottata
 o mantenuta una misura cautelare nei suoi confronti (ipotesi dolosa),
 ovvero   abbia   mostrato   una   ingiustificabile   e   macroscopica
 trascuratezza nella rappresentazione, all'autorita'  precedente,  una
 volta  reso  edotto  degli  addebiti mossigli, di fatti e circostanze
 atti a scagionarlo o comunque  a  consentire  il  mantenimento  o  il
 recupero dello stato di liberta' (ipotesi colposa)".
    In  seguito  alla  sentenza  della  suprema Corte, il procedimento
 ritorna alla corte di appello di  Roma,  quarta  sezione  penale,  in
 composizione  differente  rispetto  a  quella  che emano' l'ordinanza
 cassata.    All'udienza  del  giorno  11   febbraio   1993,   assente
 l'avvocatura dello Stato, uditi il p.g. e la difesa dell'istante, che
 concludevano  per  l'accoglimento  della  richiesta,  questa corte di
 appello si e' riservata di decidere.
    III)  Le  due   ipotesi   di   non   manifesta   infondatezza   di
 incostituzionalita' della normativa.
    Ad  avviso  di  questa  corte  di  appello,  in sede di rinvio, si
 possono  profilare,  nel  caso,  due  questioni,  non  manifestamente
 infondate,  di  incostituzionalita'  di  norme,  ciascuna  di per se'
 rilevante ai fini della decisione.
     A) La prima di dette questioni scaturisce da quella  parte  della
 pronuncia della Corte di cassazione, in cui si afferma che, comunque,
 la  condotta  di  coprire  responsabilita'  penali altrui non rientra
 nell'ipotesi di dolo o colpa grave previste dall'art.  314  (anche  a
 titolo  di  concorso nel rapporto di causalita') per l'esclusione del
 diritto alla riparazione per la detenzione subita.  Va  sottolineato,
 nel  caso  concreto:  che  l'intento  di  coprire  la responsabilita'
 dell'amante Zecchiaroli fu espressamente "confessato" dalla Jorio  in
 sede  di  interrogatorio; che nella sentenza della Corte di assise di
 appello, che assolse la Jorio dal reato di concorso in omicidio,  era
 contenuta  l'osservazione  ..  "Vedra'  il  p.m.  se sara' il caso di
 elevare  a  carico  della  Jorio  l'imputazione  di   favoreggiamento
 personale  sul  presupposto che i comportamenti tenuti dalla suddetta
 (reticenza,  menzogne  e  depistaggio)  diretti   a   scagionare   lo
 Zecchiaroli hanno configurato l'ipotesi delittuosa prevista dall'art.
 378  del  c.p.;  ne'  si  sarebbe potuto derubricare, in questa sede,
 l'ipotesi  di  omicidio  volontario  nell'ipotesi  delittuosa  dianzi
 esaminata,  perche' si sarebbe verificata una immutazione dell'accusa
 contestata e, quindi, la violazione del principio di correlazione tra
 questa e la sentenza"; che la stessa Corte suprema, nella sentenza di
 annullamento senza rinvio della condanna della Jorio che concluse  il
 procedimento  penale, confermo' l'ipotesi che le affermazioni mendaci
 sia al padre del  marito  che  alla  polizia,  successive  al  fatto,
 potevano  "essere  dirette o stornare i sospetti sull'amante e quindi
 integrare semmai un diverso illecito non contestato".
    Sembra a questa  corte  di  appello  che  non  sia  manifestamente
 infondato  ritenere  interpretazione  della norma contenuta nell'art.
 314 del c.p.p. vigente, possa condurre alla conclusione che la  norma
 stessa  sia incostituzionale, per contrasto con l'art. 3 della nostra
 Carta costituzionale, sotto il  profilo  dell'irragionevolezza  della
 statuizione  di  una  disparita'  di  trattamento  tra situazioni dei
 singoli.    Nell'ambito  dei  principi  enunciati  nel  primo   comma
 dell'art.  3  della  Costituzione, la dottrina costituzionalistica ha
 affermato che "il legislatore sarebbe vincolato a non porre in essere
 discipline  intimamente  incoerenti  e  contraddittorie"  e  che "per
 riconoscere le  disarmonie  in  parola  occorre  rifarsi  agli  scopi
 perseguiti  dal  legislatore"  o  "agli  interessi che si sono valuti
 tutelare e alla congruita' di tale tutela";  che  vi  e'  "l'esigenza
 (costituzionale)  che  il legislatore sviluppi il contenuto normativo
 di ogni disposizione, estenda la disciplina contenuta in essa a tutte
 le ipotesi in cui lo richiede la ratio che vi presiede";  ovvero  che
 e'   necessario   aver   riguardo  alla  ragionevolezza  dello  scopo
 perseguito dal legislatore per valutare  la  costituzionalita'  della
 diversita'  di  regolamentazione  tra situazioni consimili; che "puo'
 esservi  inoltre  necessita'  di  rapportare  la   norma   denunciata
 unicamente  con  un  principio  generale,  nel  presupposto  che essa
 distingua illegittimamente una situazione che avrebbe dovuto rimanere
 pur essa regolata da quel  principio;  oppure  la  comparazione  puo'
 mancare  di  un  secondo  termine  di  comparazione  quando si deduce
 l'illegittimita' di una norma per la  sua  incompletezza,  in  quanto
 regola  una fattispecie descritta in modo da escludere componenti che
 non   ne   modificano   la   sostanza,   e    da    non    permettere
 ingiustificatamente  una  protezione  integrale  o  da non sanzionare
 senza ragione tutti gli atteggiamenti della fattispecie reale".
    La Corte costituzionale, a sua volta, con  ampio  svolgimento  dei
 principi  indicati,  con  il  termine  "ragionevolezza"  ha  espresso
 numerose volte le condizioni che il  legislatore  deve  rispettare  e
 l'oggetto  del  suo  sindacato,  pervenendo,  in qualche sentenza, ad
 usare anche la terminologia di  "eccesso  nell'esercizio  del  potere
 discrezionale  del legislatore". Il requisito della "idonea ragione",
 del  "ragionevole  motivo",  dell'assenza  di   "arbitrarieta'",   di
 "presupposti  logici  obiettivi",  del limite della ragionevolezza e'
 stato continuamente richiesto dalla Corte costituzionale,  fin  dalla
 sentenza n. 46/1959 (conf. sentenze n. 7/1963, n. 22/1966, ecc.).  La
 sentenza  n. 54/1968 fa riferimento, per il "giudizio di razionalita'
 di una certa disciplina", "anche alla funzione od allo  scopo  a  cui
 essa  e'  preordinata".  La  Corte  costituzionale individua lo scopo
 oggettivo di  una  normativa  attraverso  la  rappresentazione  degli
 interessi che questa tutela.
    Venendo  all'applicazione  dei  principi  al caso in esame, pare a
 questa corte di appello che il ritenere che l'ipotesi della  condotta
 menzognera  (volta  a  depistare  le  indagini  o a evitare che siano
 indagati o coinvolti in procedimento penale altri soggetti) non possa
 ricevere, nella fattispecie contenuta nell'art. 314 del c.p.p., e nel
 contemperamento degli interessi e nei fini che essa si  prefigge,  il
 medesimo  trattamento  dell'ipotesi  di  colui  che  con  colpa grave
 (ovvero con dolo) concorre a dar causa alla sua  detenzione,  non  si
 sottragga, manifestamente, alle dette censure di incostituzionalita',
 per  irragionevolezza  e/o  irrazionalita',  ed  in  definitiva,  per
 violazione dell'art. 3 della Carta costituzionale.
    Sembra alla corte di appello,  infatti,  che  tale  disparita'  di
 trattamento  non  trovi  alcuna  ragione,  e  non  si sottragga ad un
 giudizio di arbitrarieta'.
    Tanto piu' ove si consideri che la norma che prevede  l'esclusione
 del diritto alla riparazione ha uno scopo e una funzione ben precisi,
 oltre  che chiari "presupposti logici obiettivi".  Essa, infatti, non
 sembra solo l'espressione di un onere  di  diligenza,  che  sia  pure
 nella  misura  minima  (poiche' solo la colpa grave non la lieve osta
 alla riparazione) incombe all'individuo, che fa parte di un consorzio
 sociale,   nei   suoi  comportamenti  che  interferiscono  o  possano
 interferire con la attivita' di difesa dei  diritti  fondamentali  ed
 essenziali della collettivita' e dei singoli, che compete agli organi
 di p.g. e della giurisprudenza penale.
    Essa  esprime  anche  una  applicazione (ennesima) di un principio
 generalissimo, che informa e percorre  tutto  il  nostro  ordinamento
 giuridico  e  che  regola  in  definitiva  tutta la nostra convivenza
 civile, principio del quale  si  e'  accennata  qualche  applicazione
 nella  prima  parte della presente ordinanza (art. 1227 del cod. civ.
 ecc. v. f. 8 sc.), e che puo' riassumersi,  con  la  dottrina,  nella
 regola   generale,  secondo  cui,  in  via  di  principio,  il  danno
 risarcibile (in astratto) deve  essere  sopportato  dal  suo  autore,
 ovvero  viene  limitato  o  escluso il risarcimento del danno causato
 dallo stesso danneggiato.
    Infine,  ad  abundantiam,  non  pare   infondato   osservare   che
 l'espressione  di  detto  onere  di  diligenza  possa trovare una sua
 collocazione, oltre che nel principio dell'art. 3 della Costituzione,
 nei sensi sopra richiamati, anche nella norma generale  dell'art.  2,
 che richiede, in nome dello Stato, ai consociati, anche l'adempimento
 dei  doveri  di solidarieta' politica e sociale, oltre che economica.
 Esaminando, comunque, la fattispecie prevista  dall'art.  314,  primo
 comma,  del  c.p.p.  vigente,  sotto l'aspetto della ragionevolezza e
 conformita' all'art. 3 della Costituzione, dianzi accennato, sembra a
 questa Corte che possano anche essere congruamente richiamati  alcuni
 canoni   o   criteri  ben  noti  in  dottrina  e  in  giurisprudenza,
 espressione peraltro di principio di logica; si tratta, in  sostanza,
 del  c.d.  principio  od  "elemento"  sistematico  e dell'argomento a
 fortiori. Secondo  il  primo,  fra  singole  norme  e'  immanente  il
 principio  di  non-contraddizione,  ossia  di  coesione o di coerenza
 logica.
   Il secondo argomento o canone contiene anche il criterio  a  minori
 ad maius. Entrambi i principi od argomenti sembrano anche espressione
 di un principio piu' generale, quello di ragionevolezza.
    Nell'ordine di idee sopra espresso, sembra comunque a questa corte
 di  appello  che l'ipotesi di condotta menzoniera diretta a depistare
 le indagini di p.g. o a evitare che siano  indagati  altri  soggetti,
 ovvero   diretta  ad  aiutare  altri  ad  eludere  le  investigazioni
 dell'autorita'   penale,   dovrebbe,   secondo   i   principi   della
 ragionevolezza    sopra    accennati,   accolti   e   fissati   dalla
 giurisprudenza  dalla  Corte   costituzionale,   essere   considerata
 fattispecie  "maggiore",  in  un  certo senso, e non minore di quelle
 altre  imputabili,  anche  a  titolo  di  concorso,  a  colpa   grave
 dell'istante  e  tali  da  comportare  l'esclusione  del diritto alla
 riparazione pecuniaria per la detenzione.
    La ritenuta esclusione di  tale  fattispecie  dalla  normativa  in
 questione  sembra  comportare una discrasia tale da rendere la norma,
 cosi' interpretata, incostituzionale per violazione del principio  di
 ragionevolezza  (art.  3  della Costituzione): ed in questo ordine di
 idee, si puo' richiamare la dottrina che  ha  espressamente  previsto
 una  violazione del principio costituzionale nell'ipotesi in cui "non
 siano  sanzionati  senza  ragione  tutti  gli   atteggiamenti   della
 fattispecie  reale".    Una considerazione, comunque, puo' essere non
 inutile aggiungere a questo punto.
    In  sede  di giudizio sull'istanza di riparazione non si tratta in
 alcun modo di pervenire ad  una  pronuncia  che  riguardi,  in  linea
 diretta o indiretta, la responsabilita' penale (per favoreggiamento o
 altro)   dell'istante   (ipotesi  di  responsabilita'  peraltro  gia'
 prescritta per decorso del tempo, anche per la  durata  del  giudizio
 penale  per  diversa  imputazione); ma si tratta solo di esaminare se
 una data condotta (che  non  e'  esclusa,  anzi  e'  affermata  dalle
 pronunzie  di  assoluzione  per  il reato di omicidio, divenute "cosa
 giudicata") realizzi una ipotesi  tale  da  dover  essere  parificata
 nelle  conseguenze  particolari a quelle del dolo e della colpa grave
 che abbiano anche solo concorso a dar causa alla detenzione, cioe'  a
 quelle che, per volonta' del legislatore, comportano l'esclusione del
 diritto  alla  riparazione ex art. 314 del c.p.p. E, per altro verso,
 va perfino sottolineato, in  via  di  principio,  secondo  la  teoria
 generale  del  diritto, che una condotta che abbia un certo intento e
 sia nei confronti dell'evento cui l'intento si dirige da qualificarsi
 come dolosa, a certi effetti che prevede l'ordinamento giuridico (per
 esempio il diritto  penale  sostanziale),  puo'  nello  stesso  tempo
 qualificarsi  colposa  (cioe'  materiata  di  imprudenza, negligenza,
 inosservanza di norme) ad  altri  effetti  e  per  altre  conseguenze
 giuridicamente  rilevanti,  per  diversi  istituti (ad es. di diritto
 civile sostanziale, ecc.).
     B) Sembra  a  questa  corte  di  appello  che  nella  fattispecie
 concreta  in  esame  venga in rilievo anche un diverso profilo di non
 manifesta infondatezza di questione di incostituzionalita'.
    Detto profilo sembra scaturire dal principio di diritto  affermato
 dalla  suprema Corte, che, gia' sopra richiamato, e' il seguente: "il
 dolo o la colpa grave previsti dall'art.  314  del  c.p.p.  in  tanto
 sussistono  in  quanto  il  soggetto  inquisito  o abbia scientemente
 operato al fine di creare la fallace apparenza  di  condizioni  nelle
 quali  potesse  o  dovesse  essere  adottata  o  mantenuta una misura
 cautelare nei suoi confronti (ipotesi dolosa), ovvero abbia  mostrato
 una    ingiustificabile    e    macroscopica    trascuratezza   nella
 rappresentanza, all'autorita' precedente, una volta reso adotto degli
 addebiti mossigli, di  fatti  e  circostanze  atti  a  scagionarlo  o
 comunque  e  consentire  il mantenimento o il recupero dello stato di
 liberta' (ipotesi colposa)".
    Quindi, a quel che pare, secondo la Corte di cassazione  la  norma
 dell'art.  314  affermerebbe  che  l'attivita' antecedente (sul piano
 cronologico e logico) alla vera e propria "difesa" avrebbe  rilevanza
 solo  se dolosa, cioe' solo se diretta intenzionalmente, dal soggetto
 attivo, a cagionare "l'evento" della propria detenzione.
    La sola colpa (grave) che avrebbe  rilevanza  sarebbe  quella  che
 sarebbe  dato  di riscontrare nelle dichiarazioni o "rappresentazioni
 difensive  all'autorita'  procedente,  una  volta   reso   edotto   -
 l'indagato - degli addebiti mossigli" (quindi addirittura quella dopo
 la contestazione e dopo la detenzione).
    A   tal   proposito,   possono  essere  qui  richiamate  le  ampie
 considerazioni - anche di carattere sistematico - svolte nella  prima
 parte di questa ordinanza di rimessione, ai fogli da 2 a 11.
    Senonche',  poiche'  l'interpretazione  della  Corte suprema, piu'
 volte riaffermata,  si  impone  quale  "diritto  vivente"  e  vale  a
 costituire  l'ambito  ed il significato della normativa in questione,
 si deve concludere che l'art. 314 del c.p.p. afferma  quello  che  la
 Corte  di  cassazione  ritiene  che  affermi  tanto piu' nel caso del
 giudizio di rinvio.
    In questa situazione  dell'interpretazione,  pare  alla  corte  di
 appello   che   si  riproduca,  per  altro  verso,  una  ipotesi  non
 manifestamente infondata di "irragionevolezza" di normativa,  secondo
 i   principi   elaborati   ed  assunti  da  gran  tempo  dalla  Corte
 costituzionale:  1) non solo e non tanto verrebbe ad  affermarsi  una
 incongrua  ed  irragionevole disparita' di trattamento nelle ipotesi,
 pure  congruenti  logicamente,  di  verificazione  del  principio  di
 causalita',  cosi'  come consacrato nel nostro ordinamento giuridico;
 2) non solo si perverrebbe a creare una  incongrua  ed  irragionevole
 disparita'  di trattamento con altre ipotesi di colpa del danneggiato
 (previste agli artt. 1227, 2056 ecc. cod. civ.) che hanno cagionato o
 concorso a cagionare danni personali, anche i piu' gravi, addirittura
 permanenti e irreparabili (si pensi a colui che per gravissima  colpa
 si  produca  una  mutilazione  gravissima  o  invalidita'  permanente
 totale, sia pure in concorso con la condotta altrui, colposa o meno);
      3) ma si verrebbero anche a  legittimare,  ad  ogni  effetto  di
 diritto  civile,  le  ipotesi  o  i casi anche piu' gravi di condotta
 colposa dell'agente, che abbia creato la piu' evidente  apparenza  di
 responsabilita'  penale,  divenendo  cosi'  la  norma banditore di un
 principio di irresponsabilita' giuridica e  sociale  (oltre  che  mo-
 rale),   che  (per  irragionevolezza,  incongruenza,  violazione  del
 principio di non-contraddizione, di coesione o di coerenza logica del
 sistema dei rapporti  giuridici  previsto  dall'ordinamento)  non  si
 concilia  con  i fondamenti, che e' dato enucleare dal nostro sistema
 di legislazione e dalla stessa Carta costituzionale; un principio  di
 irresponsabilita' giuridica di fronte alla collettivita' e allo Stato
 e  al  suo  organo,  Ministero del tesoro, che - si aggiunga - non ha
 neppure avuto riconosciuta la veste giuridica propria per partecipare
 - a suo tempo - a tutela dei propri interessi di  natura  prettamente
 civilistica  al processo penale, sfociato in una sentenza assolutoria
 della  responsabilita'  penale,   primo   fatto   costitutivo   della
 responsabilita' per riparazione.
    Infine,  ad  abundantiam,  non  sembra  infondato sostenere che un
 principio di irresponsabilita' "sociale", del genere di quello  sopra
 indicato,  potrebbe  ritenersi  in  contrasto,  non solo con l'art. 3
 della   Costituzione,   ma   anche   con   il   generale    principio
 costituzionale,  espresso  nell'art.  2 della Carta, che richiede, in
 nome dello Stato, l'adempimento dei doveri di solidarieta' politica e
 sociale, oltre che economica.
    In via generale, poi, la "condizione" di una condotta  antecedente
 non  gravemente  colposa, nei sensi sopra ritenuti da questa corte di
 appello, troverebbe comunque collocazione nella norma  dell'art.  24,
 terzo  comma,  della  Costituzione, che prevede essere tutt'altro che
 assoluto e incondizionato  il  diritto  alla  riparazione  di  errori
 giudiziari.