IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Ha pronunciato la seguente ordinanza sulle richieste formulate dal p.m. in sede di udienza fissata ai sensi degli artt. 409, secondo comma e 127 del c.p.p., nel procedimento penale nei confronti di Carollo Antonino e Schemmari Attilio in ordine al reato di cui agli artt. 319 e 321 del c.p.; Premesso che: l'11 ottobre 1992 e' scaduto il termine massimo delle indagini preliminari nei confronti di Carollo e di Schemmari, termine fissato dal g.i.p. con ordinanza in data 30 gennaio 1992, ai sensi dell'art. 407, primo e secondo comma, lett. b), del c.p.p. (due anni, oltre ai periodi corrispondenti alle sospensioni feriali); il 2 novembre 1992, il p.m. ha chiesto l'archiviazione parziale del procedimento nei confronti degli indagati, in quanto, pur ritenendo sussistenti concreti indizi di reita' nei loro confronti e pur essendo in corso ulteriori atti di investigazione con riferimento alle posizioni dei coindagati Balzani, Aquino, Montella, Nobile e Coraglia (per i quali i termini delle indagini non sono ancora scaduti), l'ufficio non aveva elementi sufficienti per esercitare l'azione penale nei confronti dei primi due indagati; all'udienza fissata dal giudice ai sensi dell'art. 409, secondo comma, del c.p.p., il p.m. ha eccepito l'illegittimita' costituzionale dell'art. 407 del c.p.p. con riferimento agli artt. 25 e 112 della Costituzione. La difesa si e' opposta, contestando sia la rilevanza, che la fondatezza dell'eccezione, e chiedendone il rigetto. Il g.i.p. si e' riservato di decidere, rinviando all'udienza del 4 dicembre 1992, nella quale ha emesso la presente ordinanza. O S S E R V A quanto alla rilevanza della eccezione di illegittimita': Nel corso del procedimento concernente il reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, il p.m. ha tempestivamente iniziato le investigazioni riguardanti fatti di corruzione, non appena ha preso cognizione della relazione di ascolto della conversazione intercettata il 6 febbraio 1990 in cui Carollo asseriva di aver gia' versato L. 200.000.000 all'assessore Schemmari per la pratica del Ronchetto (si fa rinvio, quanto alla individuazione degli atti di indagine compiuti e all'emergere, solo nel novembre 1991, di ulteriori sviluppi che hanno giustificato la concessione della proroga ex art. 407, lett. b), del c.p.p., all'ordinanza emessa da questo giudice il 30 gennaio 1992). Le indagini sono proseguite fino all'11 ottobre 1992, con ritardi ascrivibili non ad una inerzia dell'ufficio del pubblico ministero, quanto piuttosto alla peculiarita' delle fattispecie criminose esaminate e alla lentezza con cui e' stata data evasione alle richieste di accertamenti bancari e patrimoniali. Solo nel luglio e settembre 1992, a seguito delle dichiarazioni e delle chiamate in correita' effettuate da Nobile, Coraglia, Aquino, Balzani, le indagini hanno evidenziato episodi corruttivi connessi - e forse coincidenti - con quello di cui alla conversazione ambientale sopra citata, che si sarebbero verificati nei primi mesi del 1990 e che vedrebbero coinvolti, oltre a Carollo e a Schemmari, anche gli altri attuali indagati. Gli accertamenti - esami testimoniali e indagini bancarie, in particolare nei confronti di Balzani - che il p.m. intenderebbe ancora svolgere, se non gli fosse precluso dalla scadenza del termine massimo, sono dunque necessari per verificare l'attendibilita' delle suddette dichiarazioni, soprattutto con riferimento all'epoca, al numero ed ai destinatari dei versamenti di denaro per la pratica del Ronchetto. In assenza di tali accertamenti il p.m. non e' in grado di prendere correttamente le sue determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale per nessuna delle notizie di reato oggetto delle indagini. Una generica richiesta di rinvio a giudizio (con riferimento all'una piuttosto che all'altra ipotesi, o a tutte indistintamente), non sarebbe adeguatamente suffragata da elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio. La dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 407, primo e secondo comma, del c.p.p. rimuoverebbe invece ogni ostacolo normativo alla prosecuzione delle indagini e consentirebbe al p.m. di non essere costretto ad insistere per l'archiviazione, pur in presenza di notizia di reato non infondata. quanto alla non manifesta infondatezza dell'eccezione: La previsione di un termine massimo di durata delle indagini, preordinata al giusto fine di contenere entro tempi ragionevoli la fase procedimentale, puo' di fatto costringere l'accusa ad operare in direzione contraria al principio costituzionale dell'obbligatorieta' dell'azione: il p.m., di fronte all'impossibilita' di portare a compimento indagini, magari ben avviate, ma non ancora giunte all'acquisizione di elementi sufficienti per l'esercizio dell'azione penale, e' costretto a paralizzare la sua azione alla scadenza del termine, chiedendo l'archiviazione del procedimento anche per reati non prescritti, non estinti, non improcedibili o addirittura in relazione ai quali non sia ancora cessata la permanenza. Puo' inoltre verificarsi che gli elementi via via acquisiti abbiano portato all'individuazione di coindagati, nei cui confronti l'iscrizione nel registro avviene solo in fase successiva o addirittura, come nel caso in esame, in prossimita' della scadenza del termine massimo: puo' cioe' capitare che le indagini proseguono fruttuosamente nei confronti degli ultimi indagati, ma non possono trovare utilizzazione con riferimento ai primi, per il divieto di cui all'art. 407, ultimo comma, del c.p.p. Non e' possibile porre rimedio a questa situazione, facendo leva sugli istituti previsti dal codice. Non attraverso l'avocazione del procedimento da parte del procuratore generale (art. 412 del c.p.p.), sia perche' trattasi di attivita' facoltativa e limitata nel tempo a soli trenta giorni, termine nel caso in esame insufficiente per il compimento delle indagini che la situazione richiede e per la formulazione delle richieste dell'accusa; sia perche' la disposizione fa riferimento a ipotesi di inattivita' del p.m., ovvero a inadempienze rispetto ai suoi obblighi: tutte ipotesi ben diverse da quella in esame. Analogamente, la situazione non puo' ritenersi sanabile con l'uso da parte del g.i.p. dei poteri previsti dall'art. 409, quarto comma, del c.p.p. L'istituto delle indagini coatte e', come ha affermato la Corte (sentenza n. 222/1992), uno strumento di controllo nei confronti dell'inerzia del pubblico ministero; esso fa riferimento ad ipotesi in cui il p.m. ritenga infondata la notizia di reato ed il giudice, non convinto di tale prospettazione, ordini al p.m. - contro la sua volonta' - di colmare le lacune investigative e addirittura di formulare l'imputazione. Ben diversa e' la situazione in esame in cui il p.m. e' persuaso della serieta' e positivita' delle sue indagini e della fondata possibilita' che esse sfocino nella richiesta di rinvio a giudizio ed e' anzi lui stesso a prospettare al giudice l'intenzione di svolgere ulteriori investigazioni. Se interpretato come correttivo alla rigidita' dell'art. 407 del c.p.p., l'istituto delle indagini coatte determinerebbe uno stravolgimento dei ruoli dei soggetti del processo, incompatibile con il dettato costituzionale. Non e' piu' il giudice che effettua un controllo giurisdizionale sull'operato del p.m., ma e' il p.m. che si serve del giudice per attuare la propria strategia di investigazione, fino al punto da indicare egli stesso al g.i.p. quali sono gli atti che dovra' ordinargli di svolgere. Non puo' ritenersi assolto l'obbligo di esercitare l'azione penale - obbligo che la Costituzione pone in capo al pubblico ministero - scaricando sul giudice delle indagini preliminari il compito di ovviare ai limiti che lo stesso sistema determina. Inoltre pare lesivo del principio di ragionevolezza il fatto che, mentre al p.m. e' imposto un termine massimo inderogabile, al giudice che ordini la prosecuzione delle indagini non e' posto alcun limite di tempo, se non quello della prescrizione del reato (in tal senso si e' piu' volte espressa la Corte costituzionale: sentenze nn. 436/1991 e 222/1992). Non pertinente risulta ancora il richiamo all'istituto dell'attivita' integrativa d'indagine ex art. 430 del c.p.p. I poteri investigativi del p.m. ivi previsti presuppongono infatti che l'organo inquirente sia gia' in possesso di elementi idonei a sostenere l'accusa e miri ad integrarli in funzione delle richieste da rivolgere al giudice dibattimentale. Tali poteri di indagine possono essere esercitati solo dopo l'emissione da parte del g.i.p. del decreto che dispone il giudizio e sono inoltre limitati agli atti per i quali non e' prevista la partecipazione dell'imputato o del difensore. E, infine, non puo' essere invocato l'istituto della riapertura delle indagini (art. 414 del c.p.p.), il quale presuppone che la necessita' di nuove investigazioni sia emersa successivamente alla richiesta di archiviazione. Troppo facile sarebbe infatti aggirare il rigido disposto dell'art. 407 del c.p.p. e la sanzione di inutilizzabilita' ivi prevista: basterebbe che il p.m., magari rimasto colpevolmente inattivo, chiedesse al g.i.p. dapprima l'archiviazione e poi la riapertura delle indagini, per effettuare quelle stesse investigazioni che ben avrebbe potuto e dovuto svolgere in precedenza. In un sistema quale e' il nostro fondato sul principio di uguaglianza di tutte le persone di fronte alla legge, l'obbligatorieta' dell'azione penale rappresenta un necessario completamento del principio sostanziale di legalita' (art. 25, secondo comma, della Costituzione), in quanto impone una "legalita' nel procedere" (Corte costituzionale, sentenza n. 88/1991). Esso costituisce un "elemento che concorre a garantire da un lato l'indipendenza del pubblico ministero nell'esercizio della propria funzione e, dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale", sicche' l'azione e' attribuita a tale organo "senza consentirgli alcun margine di discrezionalita' nell'adempimento di tale doveroso ufficio" (Corte costituzionale, sentenza n. 84/1979). Ne deriva che l'esercizio dell'azione penale, in presenza di fattispecie di reato identiche, non puo' e non deve dipendere dalla maggiore o minore complessita' delle indagini e quindi dal maggiore o minore tempo necessario per compierle. In applicazione di questi principi, la Corte - cui era stata sottoposta la questione di legittimita' dell'art. 125 della disp. att. del c.p.p. - ha ritenuto che l'istituto dell'archiviazione puo' essere riferito unicamente ad una accusa priva di fondamento, in quanto solo in tale caso puo' legittimarsi il non esercizio dell'azione penale. Laddove la notitia criminis non risulti invece infondata, il p.m. ha il dovere di compiere "ogni attivita' necessaria", ivi compresi gli "accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini". Si e' dunque stabilito il principio di "completezza" delle indagini preliminari sotto un duplice profilo: da un lato come completa individuazione dei mezzi di prova necessari per consentire al p.m. di esercitare le varie opzioni processuali possibili; dall'altro lato, come "argine contro eventuali prassi di esercizio 'apparente' dell'azione penale che, avviando la verifica giurisdizionale sulla base di indagini troppo superficiali, lacunose o monche, si risolverebbero in un ingiustificato aggravio del carico dibattimentale". Non e' dunque compatibile con le disposizioni costituzionali una norma che costringa l'organo inquirente ad una richiesta di archiviazione, motivata non dalla infondatezza della notizia di reato (che anzi viene dal p.m. sostanzialmente negata), non dalla "superfluita'" del processo (perche' anzi viene ribadita la necessita' di proseguire le investigazioni per giungere ad ulteriori risultati), ma esclusivamente dalla non completezza delle indagini preliminari per la scadenza dei termini massimi. Non pare ragionevole limitare a diciotto o ventiquattro mesi la fase delle indagini preliminari in relazione a reati che si estinguono in termini di decenni o che, addirittura, non si prescrivono mai. Altrettanto irragionevole e' imporre al p.m. - e solo a lui - termini assolutamente invalicabili per l'accertamento dei presupposti di operativita' del suo obbligo di agire, laddove nessun limite - al di fuori di quello della prescrizione del reato - viene invece imposto al giudice che deve procedere al giudizio o alla polizia giudiziaria (che non ha piu' termini perentori neppure per comunicare la notizia di reato al p.m. e che puo' iniziare e continuare a svolgere indagini indipendentemente dalle direttive di quest'ultimo ed anche dopo la richiesta di archiviazione). Non risulta coerente con il dettato costituzionale il far prevalere le esigenze di celerita' della sola fase delle indagini - che sono cosa diversa dalle garanzie della liberta' personale - sull'interesse pubblico costituzionalmente protetto, ed evidentemente sovraordinato, all'applicazione della legge penale. L'eliminazione del termine massimo delle indagini preliminari non sarebbe in contrasto con la normativa internazionale e, in particolare con la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, ratificata in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, la quale distingue chiaramente il termine "ragionevole" per la celebrazione del giudizio dal termine "ragionevole" per la protrazione della custodia cautelare. Quanto al primo, nell'art. 6 della Convenzione si annovera fra i diritti della persona il diritto a "che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale": ed e' evidente che l'esigenza di celerita' attiene a tutto il periodo intercorrente tra la comunicazione della notizia di reato e l'esito del giudizio. Appare dunque inutile comprimere la sola fase delle investigazioni, se poi non si stabilisce alcun argine alle lungaggini del predibattimento, del dibattimento e della fase delle impugnazioni. La valutazione della ragionevolezza del tempo impiegato per l'istruzione e per la celebrazione del processo - come ha evidenziato la Corte Europea dei diritti dell'uomo (vedi in particolare sentenze n. 488 del 27 novembre 1991, affaire Kemmache c. France; n. 346 del 27 agosto 1992, affaire Tomasi c. France) - deve essere effettuata caso per caso, in funzione della complessita' della fattispecie, del comportamento dell'inquisito, della difficolta' oggettiva delle indagini. Diverso e' invece il termine previsto dall'art. 5, terzo comma, della Convenzione, che si riferisce alla durata della carcerazione preventiva. Tale durata deve essere rigidamente predeterminata, indipendentemente dalla complessita' dei reati o delle indagini. E, in effetti, anche la nostra Costituzione, mentre impone al legislatore di stabilire i limiti massimi della carcerazione preventiva (art. 13, ultimo comma, della Costituzione), nulla dice a proposito della durata dei processi penali e impone invece al p.m. di esercitare l'azione penale in tutti i casi previsti dalla legge. Ma una titolarita' non formale dell'azione penale comporta l'attribuzione al p.m. di poteri effettivi di acquisizione e di valutazione di tutti gli elementi di prova, per un periodo di tempo che non appare seriamente predeterminabile in astratto dal legislatore. Del resto, con l'abrogazione dell'art. 407 del c.p.p., non verrebbe meno alcuno degli obiettivi che il legislatore del 1988 intendeva perseguire attraverso l'istituto delle indagini preliminari: non il meccanismo di accelerazione delle indagini rispetto ai tempi incontrollati del precedente processo penale, ne' il rigoroso controllo giurisdizionale in ordine all'esercizio dell'azione penale. Resterebbero infatti salvi l'istituto della proroga del termine, disciplinato dall'art. 406 del c.p.p., e, comunque, il diritto dell'indagato (eccettuate le ipotesi di cui all'art. 51, comma 3- bis, del c.p.p.) ad essere notiziato della pendenza del procedimento, soprattutto al fine di presentare memorie per confutare le richieste del p.m. e di esercitare il suo diritto alla prova (art. 38 delle disp. att. del c.p.p.). E qualora il giudice, valutando il caso concreto, ritenesse che i ritardi sono del tutto ingiustificati e dovuti esclusivamente alla poca diligenza dell'organo dell'accusa, non potrebbe concedere la proroga e dovrebbe ordinare al p.m. di formulare le sue richieste ai sensi dell'art. 406, ultimo comma, del c.p.p. La questione di legittimita' costituzionale sollevata dal p.m., per le considerazioni sopra esposte, appare dunque rilevante nel presente procedimento e non manifestamente infondata.